MICHELA MERCURI
DAL SONETTO PETRARCHESCO AL MADRIGALE DI MARENZIO
Quando la tristezza
soffoca l’anima, al punto che niente può eclissarla, la solitudine diviene una
dolce speranza e l’arido deserto si tramuta in un accogliente rifugio, l’unico
porto sicuro dove attraccare, alla disperata ricerca di un soffio di quiete
nell’oceano procelloso. Che sia nel Medioevo o nel 2021, tra castelli o
grattacieli, quella sensazione permane, immune allo scorrere dei secoli,
perché, in fondo, l’uomo, con i suoi intramontabili dissidi e i suoi tortuosi dialoghi
interiori, è sempre lo stesso. Questa è la ragione che rende i classici immortali
e potenti, intramontabili interpreti della nostra più recondita essenza.
La brama di un luogo
solitario, confinato in una natura empatica, che condivide le pene d’amore, è
il tema focale di uno dei più celebri sonetti del Canzoniere
petrarchesco. L’io lirico si tuffa in paesaggi stilizzati, immuni alla realtà
storica, e sprigiona il suo pathos attraverso un’eccezionale
scorrevolezza musicale che, con toni intimi e pacati, fluisce, tra ossimoriche simmetrie
e proporzioni sintattiche, in una perfetta armonia equilibratrice.
È la poesia stessa a
spianare la strada al canto. La declamazione si avvicina a un’intonazione e le
parole, oculatamente vagliate, oltrepassano la dimensione fonica per planare in
quella musicale. Riconosciuta questa potenzialità, i grafemi si trasformano
facilmente in note, nel creativo pensiero dei compositori che, a partire dal
‘500, sull’abbrivo delle teorie di Pietro Bembo, confezionarono vesti musicali
per le opere di Petrarca. Il monolinguismo, premessa di perfezione stilistica, secondo
le teorie dell’umanista, qualificava infatti i Rerum vulgarium fragmenta
come supremo modello poetico, l’unico che potesse incarnare il gusto
classicistico rinascimentale.
La pratica musicale si
accodò a quella letteraria; la polifonia profana aderì fruttuosamente al petrarchismo
bembiano. Con l’avvento dell’ars nova, la musica aveva guadagnato
terreno nell’ambito dell’architettura compositiva, configurandosi non più come mero
accompagnamento, bensì come autentica deuteragonista. Le melodie, sapientemente
combinate e impreziosite da sofisticati espedienti e tecnicismi, dovevano non
solo accogliere il significato del testo, ma perfino amplificarlo. L’aspetto
fonico e quello semantico, insomma, fusi in un inscindibile connubio, erano
destinati a forgiare effetti stupefacenti. Bisognava sfruttare la sonorità della
singola parola, perché era quello, secondo i madrigalisti, ciò che ne decretava
l’unicità nell’oceano semantico. In quest’ottica, il sinonimo non esiste,
perché, seppur capace di riproporne il senso, nessuna parola possiede l’involucro
fonico di un’altra. Parallelamente, in musica, formule ripetitive e schemi
fissi, come quelli della frottola, andavano evitati, per non depotenziare il
messaggio poetico. La poesia meritava invece una musica duttile, cucita su
misura per ogni singolo significante. I versi, lungi dall’essere ingabbiati
dalla penna del compositore, dovevano librarsi nell’universo sonoro e irradiarlo,
attraverso un brano durchkomponiert, ovvero senza ripetizioni, inedito
dall’inizio alla fine. Volendo esaltare, per l’appunto, la componente fonica, nella
convinzione che nulla fosse più efficace della voce umana, la polifonia si
concentrò sul canto.
Nacque così il
madrigale, composizione polifonica che trasse il nome, ma solo quello, dal
madrigale trecentesco, il quale presentava, al contrario, forma strofica.
Gruppi di tre o
cinque voci, generalmente cantate, ma a volte anche strumentali, si incastravano
in sezioni contrappuntistiche, di reminiscenza fiamminga, non estremamente
virtuosistiche e spesso anche omoritmiche. Da Firenze, la neonata forma si
diffuse a Roma, proprio negli anni nei quali Pietro Bembo era segretario di
Leone X, per giungere poi a Venezia, in seguito a quell’evento storico che fu
avvertito come l’apice della crisi italiana: il sacco, perpetrato nel 1527, dai
lanzichenecchi di Carlo V. Nella Serenissima, il madrigale decollò, grazie
soprattutto all’editoria musicale che, con la scoperta e l’adozione del sistema
a impressione unica, consentì ai compositori di diffondere i propri lavori. A
Venezia, Pietro Bembo fu certamente in contatto con Adriano Willaert e Cipriano
de Rore; è dunque plausibile che le Prose della volgar lingua abbiano
esercitato una notevole influenza sull’esperimento madrigalistico.
Divenuto rapidamente
l’equivalente profano del mottetto, il madrigale cinquecentesco fu percepito dal
principio come una composizione elegante e preziosa, in relazione al contenuto
e soprattutto allo stile; l’ascolto non era destinato al vulgo ma a un’élite
di intenditori o appassionati. I cantori, adunati in un’atmosfera gioviale,
intonavano la propria parte, intorno a una sorta di tavola rotonda della musica;
nessuna voce, infatti, dominava e spiccava sulle altre, in ossequio al
principio di uguaglianza e armonia. L’effetto esecutivo era affidato a un ricercato
gioco di incastri, madrigalismi e imitazioni melodiche. Cantare le poesie di Petrarca
divenne allora un topos, una prassi che ben si confaceva alla cultura e alla
raffinatezza di simili contesti.
Gli anni d’oro del madrigale
si collocano intorno alla metà del XVI secolo; basti pensare alla quinta
generazione fiamminga o ai grandi compositori della nostra penisola, quali
Palestrina, Gesualdo da Venosa e Claudio Monteverdi, con il quale il madrigale
rinascimentale approdò nell’età barocca.
Tra i più acclamati musicisti
italiani, un grande contributo per la messa in musica della poesia petrarchesca
venne da Luca Marenzio, compositore, cantore e liutista di origini bresciane,
attivo negli ultimi decenni del ‘500. Circa metà della sua cospicua produzione
deriva, infatti, dal Canzoniere, in un periodo, tra l’altro, nel quale,
lentamente, il gusto stilistico si stava indirizzando verso le opere di Tasso,
Guarini e Marino.
Solo e pensoso, racchiuso nel Nono libro de madrigali
a cinque voci, è uno dei più raffinati esempi di pittura sonora
madrigalistica. I toccanti quadri della poesia petrarchesca vengono dipinti, in
primis, rispettando strutture metriche e simmetrie binarie. Le pause e le
fughe vocali si innestano sul respiro del testo, fino all’incisiva apnea, che
separa le quartine dalle due terzine finali.
Solo e pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi e lenti.
L’incipit è
affidato al solo Cantus, che debutta con un lunghissimo sol, proprio
sulla parola «solo», e attende la timida entrata
dell’Altus, la parte del quale prevede una pausa iniziale, volta a
isolare la voce superiore, e del Tenor I. Il Tenor II indugia
fino alla fine del verso, per presentarsi sull’ultima parola con una sequenza
di semiminime, subito afferrata anche dal Bassus. Il motore pulsante,
che imprime il moto di imitazione, è il Cantus firmus, l’unica voce che si
dilata in solitarie semibrevi, «tarde
e lente», che ascendono con
fatica, un semitono alla volta, su una scala cromatica piuttosto lunga,
addirittura eccedente l’ottava, dal sol centrale al la acuto,
prima della speculare discesa verso il re. Un contrappunto imitativo
inonda le altre parti, in un efficace gioco sonoro che si allarga sempre di
più, al punto da raggiungere quasi, per brevi istanti, l’omoritmia. Il Cantus
non è più solo. Servono tutte le forze in campo per misurare i «deserti» pentagrammi. Una volta compiuta la missione, quando
ogni voce ha esaurito il significato del testo, le cinque linee melodiche
possono finalmente congiungersi in un passaggio omoritmico che si spegne, per scandire
la suddivisione binaria della prima quartina.
E gli occhi porto per fuggire intenti
Ove vestigio uman l’arena stampi.
L’andamento muta
improvvisamente nei due versi successivi, con un effetto di forte contrasto e agile
movimento. I valori si accorciano e il cromatismo sprofonda in intervalli
saltellanti, incalzati dal punto. Le voci scappano, in un malinconico acchiapparello
sonoro che non ha il tempo e l’intenzione di celebrare un vincitore. C’è
infatti bisogno di un rapido cambio di scenografia per affidare alle canore
vestigia umane un nuovo compito: stampare «l’arena».
La musica si placa, le note passeggiano nei vari registri, con moderazione e
fermezza, senza tuttavia raggiungere la gravità dei precedenti «passi tardi e lenti». Un breve accordo omoritmico
sull’ultima sillaba precorre la pausa generale che, con un loquace silenzio,
annuncia la conclusione della prima strofa.
Altro schermo non trovo che mi scampi
Dal manifesto accorger de le genti.
In maniera
inaspettata, l’omoritmia congela l’inizio della seconda quartina. I cinque
giocatori, prima rivali, ora diventano compagni di un’unica squadra, compattandosi
in robuste minime che si legano tra di loro e avanzano prepotentemente verso la
semibreve. Lo scopo finale può essere raggiunto solo con l’unità: le voci
combattono per proteggere il poeta «dal
manifesto accorger de le genti»,
marciando insieme per formare uno schermo. Vorrebbero aprirgli una via di fuga,
proprio come suggerisce il testo. La musica si dischiude in una salvifica
fioritura che, dalla prima voce, si propaga alle altre, con una climax di durate
e di melismi. È l’ornamentazione più ampollosa di tutto il madrigale, perché
quello di Petrarca con il «popol
tutto», per il quale «gran favola» fu un tempo, è un rapporto
estremamente complesso, lacerato da un’insanabile opposizione: la ricerca della
realtà, nella sua vera essenza, e la vanità di tutto quel che è mondano. A ciò
si aggiunge la vergogna del «primo
giovenile errore» e il
pentimento di chi ha conquistato lucidità e, dunque, amara consapevolezza, dopo
un periodo di follia. Ma quello di Petrarca è un dissidio senza soluzione
perché, se anche egli riuscisse a eludere i contatti sociali, rintanandosi in
una natura introspettiva, non potrebbe, comunque, spezzare le catene che lo
imprigionano dall’interno. Il tentativo di fuga, nonostante l’impegno di tutte
le voci, inevitabilmente fallisce. Il canto non può far altro che mitigarsi, fino
ad arrendersi completamente alla staticità di una semibreve, che naufraga su un
accordo di Re, in una duplice funzione. In ossequio alla struttura binaria
voluta dal poeta, infatti, le note si raccolgono, giusto il tempo di 2/2, per cadenzare
la prima parte della seconda quartina.
Perché negli atti d’allegrezza spenti
Di fuor si legge com’io dentro avampi.
Uno straordinario espediente
armonico inaugura il verso seguente, evocando la sensazione dello spegnimento. Si
ravvisa, infatti, all’inizio della frase musicale, un falso bordone, tecnica
tipica della Scuola di Borgogna, ampiamente diffusa sia nella musica medievale
che in quella rinascimentale. L’Altus e il Tenor I distano
esattamente una quarta e una sesta dal Cantus. Gli «atti» musicali sono «spenti»
delle ultime due voci. Il Tenor II e il Bassus tacciono per ben
due battute, mentre la sincrona omoritmia delle parti superiori enfatizza la
perdita, nel tessuto armonico, di due linee canore. A questo punto la poesia
richiede un duello, quello tra l’apparenza, con il relativo, vano, tentativo di
imperturbabilità, e la dimensione interiore, piagata, al contrario, da un
tormento che avvampa. La dicotomia poetica diventa intricatezza musicale, senza
tuttavia mai sfociare nel caos sonoro. Note lunghe e brevi si rincorrono, le
parole si ripetono, i suoni si intrecciano e, soprattutto, le parti vocali
attuano, in alcuni frammenti, uno scambio di registro: le voci superiori si specchiano
nei gravi e, al contrario, le inferiori negli acuti. Insomma, sembra che la
musica «avampi» con veemenza, prima di convergere
in un lunghissimo accordo omoritmico, iato tra la quartina e la successiva
terzina.
Sì ch’io mi credo omai che monti e
piagge
E fiumi e selve sappian di che tempre
Sia la mia vita, ch’è celata altrui.
Gli elementi della
natura sono ora protagonisti, non solo testimoni, all’interno della tela musicale.
Piccole fioriture sbocciano in prossimità dei monti, delle piagge, dei fiumi e
delle selve, nel giardino di tutte le voci. È la condizione del poeta che
emerge. Prima ancora che il verso si concluda, il secondo irrompe. Non può
attendere. Ma l’interiorità riesce a denudarsi solo di fronte a un indefinito
ambiente. Se l’elemento umano invade il paesaggio, il secretum deve
essere celato. Ci pensano il Tenor II e il Bassus a proteggerlo,
nascondendo la propria voce fino alla fine del concetto.
Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
Cercar non so ch’Amor non venga sempre
Ragionando con meco, ed io con lui.
Mentre le tre linee
superiori esalano l’ultimo movimento della semibreve, il silenzio del Tenor
I viene infranto dalla congiunzione avversativa. Il «ma»
avanza impavido, prima ancora che la terzina si concluda, perché porta sulle
spalle l’effetto di un’invasione. L’amore personificato si infiltra anche negli
angoli più impervi, per ricordare al poeta che non ha scampo. Il pensiero
amoroso è ossessivo e onnipresente, e non concede mai requie. I valori delle
note si distendono, perché tanto, a questo punto, è inutile continuare a
fuggire. Con bemolli e diesis la natura, che prima fioriva, ora si fa aspra e
selvaggia, come la selva oscura. Ma al contrario di Dante, il quale, al termine
del suo viaggio spirituale, riesce a raggiungere la purificazione, quello di
Petrarca è un conflitto senza soluzione.
Le parti canore, accompagnando
il poeta nella natura ascetica, hanno lottato con lui e lo hanno protetto ma,
alla fine, come scrive uno degli autori più ammirati da Petrarca, «Amor vincit omnia et nos
cedamus amori».
Marenzio ne prende atto e, arruolate le sue cinque voci, affida loro il compito
di guidare l’infelice peccatore nella sua sconsolata presa di coscienza.
La scrittura
compositiva è rispettosa, equilibrata, armoniosa, evocativa, degna creazione
del madrigalista che fu definito «il
più dolce cigno d’Italia.»
Lavoro fine e sensibile, diviso e armonizzato dall'acuto esame filologico da una parte e da quello musicologico dall'altra. Le due componenti si integrano e offrono al lettore un periodo non ancora esplorato della cultura italiana, fiorita nel Cinquecento. l'Autrice con questo lavoro offre al lettore la scoperta di un universo letterario e musicale di grande prestigio, soprattutto in vista degli sviluppi avvenuti nei secoli successivi. Nel magistrale intarsio tra musica e poesia si coglie la polisemia di un genere non ancora esplorato. Dalla lettura appassionante e coinvolgente si evince una competenza in un campo di ricerca pressoché inesplorato, la passione e un equilibrata esposizione di temi e materiali assimilati in tutta la loro ampiezza polisemica. L’Autrice offre lo stimolo a entrare in un genere, che ha bisogno ancora di molto lavoro per essere esplorato, compreso e proposto a una cerchia di lettori più ampia.
RispondiEliminaOrazio Antonio Bologna
Fine e sensibile lavoro, diviso e armonizzato dall'acuto esame filologico da una parte e da quello musicologico dall'altra. Le due componenti si integrano e offrono al lettore un periodo non ancora esplorato della cultura italiana, fiorita nel Cinquecento. l'Autrice con questo lavoro offre al lettore la scoperta di un universo letterario e musicale di grande prestigio, soprattutto in vista degli sviluppi avvenuti nei secoli successivi. Nel magistrale intarsio tra musica e poesia si coglie la polisemia di un genere non ancora esplorato. Dalla lettura appassionante e coinvolgente si evince una competenza in un campo di ricerca pressoché inesplorato, la Passione e un equilibrata esposizione di temi e materiali assimilati in tutta la loro ampiezza polisemica. L’Autrice offre lo stimolo a entrare in un genere, che ha bisogno ancora di molto lavoro per essere esplorato, compreso e proposto a una cerchia di lettori più ampia.
RispondiEliminaOrazio Antonio Bologna
Sono estasiato da questo fine commento volto a rammentare l'antico felice connubio tra le due "arti sorelle": musica e poesia. Concordo col professor Bologna sulla necessità di dedicare maggior spazio a quella magnifica e poco nota pagina artistica fiorita nel cinquecento, la madrigalistica, appunto, che ha trovato un rinnovato momento di splendore nel Novecento ad opera di Bruno Bettinelli, nelle "Tre espressioni madrigalistiche" sui testi di Matteo Maria Boiardo (Già mi trovai di maggio, XV secolo), Leonardo Giustinian (O Jesu dolce, XIV secolo) e Laura Guidiccioni (Il bianco e dolce cigno, XVI secolo), opere a me note in quanto mi trovai a cantarle in concerto ai tempi in cui facevo parte come Tenor I del coro madrigalistico "Cantores Bormani". Tempi che ricordo tuttora con nostalgia.
RispondiElimina