Angela Ambrosini, collaboratrice di Lèucade |
ANGELA AMBROSINI
Le problematiche dell'essere
in Giovanni Tavčar e Antonio Colinas
in GIOVANNI TAVČAR, Perché la vita sia…e altre
poesie, Guido Miano Editore,
Collana “Analisi Poetica Sovranazionale del Terzo Millennio”, 2018, pp.7-10.
Nella disillusa, perentoria sentenza “Non
serve più, ormai, / la parola” (Il tempo), Giovanni Tavčar contrappone
alla balsamica fiducia nel logos una quasi necessaria afasia
nella constatazione che “il tempo travolge / ogni collaudata misura” (ibidem).
Il rifiuto tenace di mendicare sogni consolatori nell’alveo di una scrittura
compiaciuta distingue il poeta triestino nell’affollato scenario letterario
contemporaneo, spingendolo verso una traiettoria compositiva lucida, scevra da
incrostazioni retoriche e che spesso si fa meditazione quasi discorsiva
sul fugit irreparabile tempus.
Un minuzioso scandaglio lessicale delle sue
liriche (che paiono dipanarsi con la fluidità di un unico poema coeso), conduce
alla registrazione rilevante di lessemi di una stessa area semantica che
esprime frantumazione, assenza, opacità dell’essere: “sbiadite mezzetinte”,
“sfumati grigioscuri”, “fari miseramente spenti”,” derive di luce”,
“ingannevoli baluginii”, “inaridite fonti”, “sterili opacità”, “collosa
poltiglia”, “ambigue e opache misture”, ”eco granulosa del tempo”, “itinerario
sbiadito e sbocconcellato”, “grumose percezioni” ecc… È il tempo il suo rovello
più acuminato, un tempo frantumato e labile, grumoso e opaco, sì, ma mai
approdo inappellabile, mai termine invalicabile. Ecco che quindi la ricerca
dell’assoluto, vera problematica della sua poesia, si snoda attraverso
l’indagine tragica e sofferta del suo opposto, cioè del tempo. È vero,
purtroppo, che “contro l’avanzare del tempo / non abbiamo / nessuna valida
difesa” (Nessuna valida difesa) e che “i contorni sfuggenti della vita /
non … permettono di fissare il perseguito, / di circoscrivere l’attimo
fuggente” (Frana rapido il pendio del giorno), purtuttavia l’uomo,
destinato a soccombere in beffarda sincronia con il tempo, è percepito da
Tavčar nell’assolutezza di una proiezione al di là del tempo stesso, tempo che
si fa larvale sembianza di un’eternità sempre perseguita nell’inesauribile
“bisogno di verticalità /….verso giorni nuovi / pieni di montanti resurrezioni”
(da Bisogno di verticalità).
L’apparente cupezza dei toni si
smaterializza quindi in una tersa luminosità, in un’ossimorica ricerca
concettuale che attraverso un gioco di sapienti chiaroscuri va a cauterizzare
le ferite della nostra condizione umana. “Solo chi crede ai racconti / del
vento /…/ può misurarsi con i cavalieri / erranti / dell’agognata felicità”. (Solo
chi crede). Coinvolgente e raffinata è l’impalcatura strutturale dei suoi
versi, a volte asciutta, tagliente, a volte elegiaca, ma sempre all’insegna di
una trattenuta emozione di persuasiva autenticità in sintonia con il lettore.
Simile sintonia esprime, nell’ambito di una concezione conoscitiva del verso,
l’iter lirico di uno tra i più affermati e pregnanti poeti spagnoli
contemporanei, Antonio Colinas (La Bañeza, 1946). Al di là del tratto
distintivo, squisitamente iberico, di quel “culturalismo” di parte della sua
ricca produzione, ciò che maggiormente magnetizza di questo poeta spagnolo
(valente traduttore di Quasimodo), è la capacità di saldare indissolubilmente
l’esperienza artistica all’umana condizione, sovente per mezzo di parole
chiavi, di parole simbolo. La luce è termine di alta frequenza nei suoi versi:
“…lasciatemi con la luce bianca / la stessa che avvampa e annienta gli uomini
feriti / i tesi giorni, le idee come coltelli” (Fe de vida, da El
libro de la mansedumbre, 1977) e che qui sembra congiungersi alle “derive
di luce” che “risucchiano in vortici / impietosi” il nostro poeta triestino (Stagione
occulta) e, altrove, alla sua meditazione “È tempo ormai / che mi fermi,
che metta radici, / prima che la luce digradi” (Sono stanco ormai).
Il motivo del viaggio, dell’homo
viator, uno dei più vitali in poesia, emerge nei due autori: “Segui il
sentiero delle pietre muschiose / quello che conduce alla grande roccia / alla
radice dell’altare / alla radice eterna/ del tempo /…/ Non potrai andare oltre
/ Non devi andare oltre” (Signos en la piedra, da Canciones para
una música silente, 2014), laddove in Tavčar, nella presente silloge, si
esplicita compiutamente fin dal titolo nella lirica Il sentiero della
vita: “Come s’è degradato, / con gli anni, / il sentiero della vita. //
Transitarvi / è un’avventura sempre / più difficile e impegnativa. /…che non
sempre porta / a una meta definitiva e sicura”. Ma è al nucleo tematico del
tempo che risulta maggiormente protesa l’indagine più assorta dei due poeti.
“Mi manca il tempo / per tornare: / o non sarà piuttosto quest’istante tutto il
tempo / che sento scivolarmi fra le dita /come oro liquido? / So di essere io
quello che passa” (Colinas, Llamas en la morada, XVIII, da Canciones…cit.).
E così in Tavčar: “Il tempo ci insegue /…/ e muta gli attimi in anni /…// La
clessidra continua intanto a sgocciolare / gli ultimi granelli di sabbia
inconsistente” (Anime ferite). Ma, come Mario Luzi, anche i nostri poeti
ben sanno che compito della poesia è “insegnare a far pace con il tempo”.
La traduzione italiana dei
versi di Antonio Colinas è di Angela Ambrosini
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