Iinvio il mio commento testuale a una foto in
bn del nostro bravo fotografo tifernate Enrico Milanesi (apprezzatissimo anche
a livello nazionale), unitamente alla mia poesia alla stessa foto
direttamente ispirata.
Invio il tutto per Jumbomail, poichè la foto
(in formato tif, quindi adatto alla pubblicazione nel web) è troppo pesante per
la mia casella di Libero.
Questo materiale è stato appena pubblicato
nel Bollettino n. 180 (gennaio 2022) del "Centro Lunigianese Studi
Danteschi" e vorrei che venisse segnalato (Purtroppo
il sito del CLSD è aggiornato ancora solo al n. 177 del Bollettino, pertanto
non è ancora disponibile neanche il link al n. 178 dove è stato pubblicato il
mio articolo sui quadri di suo fratello).
Desidero anche che sotto la foto compaia il
nome del fotografo, titolo e anno (Enrico Milanesi, "Aspettando
la nuvola", 1997) e che sotto la
mia poesia figuri anche il titolo del libro nel quale è pubblicata.
Un caro saluto
Angela
Angela Ambrosini, collaboratrice di Lèucade |
RIFLESSIONI SULLA FOTO
Aspettando
la nuvola
di Enrico Milanesi
La linea orizzontale tracciata, secondo i
canoni della buona fotografia, non in corrispondenza della metà del campo
visivo, ma, in questo caso, al di sotto, ha un suo contraltare ottico nella
posizione non centrale delle figure, sistemate alla sinistra dell’inquadratura
e specularmente sormontate, in alto a destra, dalla nuvola che fornisce
ispirazione al titolo. Questa è la morfologia più evidente della splendida
istantanea del fotografo umbro Enrico Milanesi, Aspettando la nuvola, diremmo la sua grammatica ottica, ma ciò che
più colpisce è la straniante atmosfera dell’insieme che aleggia in una
sospensione spazio-temporale, pur non dettata da nessun tratto di evidente o
implicita decontestualizzazione. La foto, impostata su un’ingannevole nudità di
elementi, è tutta giocata su questo senso di sospensione che la scelta del
bianco e nero, dalle velature morbide e trasparenti, contribuisce a dilatare.
Attraverso l’arte della fotografia, copia fedele del reale (fedelissima quando,
come nel presente caso, non è sofisticata da filtri o obiettivi deformanti), si
compie cioè il paradosso di una realtà che sfugge al controllo dei sensi
generando un profondo senso di alterità che aggredisce la percezione di chi
guarda, soprattutto di chi guarda con l’occhio del poeta. Normalmente nella
pittura avviene l’inverso, nel senso che l’immagine è restituita alla tela con
una visione già contaminata, metamorfosizzata, dall’inconscio dell’artista al quale
si somma quello dell’osservatore. Le foto, al contrario, sprigionano
l’inconscio di chi le guarda e la portata di certe foto è tale da generare “una
percezione pura del non-essere”, come con lapidario ossimoro asserisce il
grande poeta francese Yves Bonnefoy nel suo acutissimo saggio Poesia e fotografia.
E in tale alternanza di essere e non essere, di visibile e invisibile, voglio ora analizzare l’immagine di Milanesi affiancandole, come una formula algebrica, la definizione che la filosofa spagnola Maria Zambrano dette della poesia: poesia è la ricerca della parola assente, cioè linguaggio dell’assenza, ricerca del non detto, dell’implicito. Se, poiché si tratta di un’immagine, sostituiamo il termine “parola” con “dato”, avremo che “poesia è la ricerca del dato assente”, e manteniamo il termine “poesia”, nella certezza che pur sempre di poesia si tratta, anche se di un codice visivo. Quali sono questi dati assenti? Non ci è innanzitutto consentito vedere il volto delle due figure, ritratte di spalle come i personaggi del pittore Caspar David Friedrich. Madre e bambino, inoltre, sono presumibilmente rapiti da un paesaggio che supponiamo nascosto oltre la linea d’orizzonte. La fantasia a fiori geometrici della gonna costituisce per di più un surreale surrogato della vegetazione floreale, assente in quello che ha tutta l’apparenza di un campo di grano da poco mietuto. Forse siamo nel mese di giugno inoltrato, come del resto le vesti estive dei due soggetti fanno intuire. Del quadro d’insieme ci sono preclusi, come già detto, anche i colori, taciuti e negati a dispetto dell’epoca massima del loro splendore, l’estate. L’attenzione dell’osservatore è quindi calamitata proprio dagli elementi assenti: colore, paesaggio, volti. Il senso fisico prevalente percepito non è il paesaggio, ma, di contro, ciò che di norma non si può vedere, il vento, tradotto dalla gonna gonfia della donna e dalla nuvola che sovrasta i due. Il senso psicologico che affiora non è tanto il godimento di un probabile bel panorama, bensì l’attesa, evidenziata proprio dall’insolito titolo Aspettando la nuvola. L’attesa di una nuvola: quanto di più effimero, volatile, inutile si possa immaginare. Ma, se c’è attesa, c’è desiderio. I due paiono desiderare qualcosa e si badi che il verbo desiderare ha un’imprevedibile, curiosa etimologia in de-sidera, cioè senza stelle, mancanza delle stelle, cioè dei segni augurali che propiziano l’avverarsi di un evento: quindi “desiderare”, e qui il desiderio si compie nell’attesa di un prodigio al passaggio di una nuvola. Non è un caso che osservando quest’immagine mi sia venuto in mente, mutatis mutandis, ciò che Magritte disse di aver visto nel quadro di De Chirico Il canto dell’amore, e cioè “la rappresentazione del pensiero”. Stesso palpito ho avvertito io per sottrazione di elementi, per ellissi, per ammiccamento emotivo e intellettuale, tanto è vero che la poesia che ne è nata, Pensieri di una madre, è imperniata sulle meditazioni di una madre in merito al significato enigmatico dell’esistenza. E mi sono ben guardata dall’intitolare la poesia come la foto, per lasciare al nostro fotografo l’esclusiva di questo evocativo, suadente titolo.
Angela Ambrosini
PENSIERI DI UNA MADRE
Per la foto di
Enrico Milanesi “Aspettando la nuvola”
Per
noi quest’alba acquosa attinge,
di
tante altre sorella, all’argine
ventoso
di memorie e suoni,
suoni
a ricomporre un pentagramma
al
cuore. Entra nel mio spartito
a
distesa il giorno e il primo
soffio
al cavo della mente piega
e la
parola teme di quel coltello il solco.
Non
sappiamo, bimbo mio, dell’oggi,
della
sua nuvola tumida che abbaglia,
né i
confini più misuriamo
di uno
ieri incerto
che
alle porte preme
con il
suo conto aperto.
Stiamo
qui in fila, a lambire l’orlo
del
nuovo sole che di sorgente
sazi
la nostra sete, ma neanche qui,
bimbo
mio, pur senza pena
avrai
in questa certezza
chiara,
la prova piena
del
mio, del tuo, del nostro
esistere.
Angela Ambrosini, in Ora che è tempo di sosta, CTL Editore, Livorno, 2017.
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