Franco Donatini
LA SOLITUDINE DEL POETA
Recensione di Enzo Concardi
Franco Donatini – docente all’Università di
Pisa, scrittore, critico d’arte – dedica questa sua raccolta lirica, dal titolo
La
solitudine del poeta, a modelli letterari d’oltralpe, ed
esattamente: “Ai miei amici, i poeti francesi che nell’ottocento hanno
tracciato la nuova rotta della nostra poesia”. Poi, fra i testi del libro,
colloca una composizione tra il culturale, l’intellettuale e l’onirico dal
chiaro titolo Omaggio ai miei poeti, in cui li chiama per nome
e sogna incontri meta-temporali nei quali s’immerge come fosse uno di loro:
“Vorrei che Charles Paul Arthur ed io / un giorno ci trovassimo in un bar / a
bere assenzio e a parlar di noi / di vite consumate senza senso”. Si tratta,
ovviamente, di Baudelaire,
Verlaine,
Rimbaud
– giganti della storia della poesia universale – tra quelli definiti dallo
stesso Verlaine “Poeti maledetti”, ovvero “Poètes maudits”, che è anche
l’opera su di loro scritta nel 1883. Il primo verso è debitore del Dante
giovanile e stilnovista nel sonetto “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”. Vorrebbe
incontrare Charles in una taverna affacciata sul mare e veder veleggiare L’albatros
– che è anche una delle sue liriche più note (sezione Spleen e ideale dei
Fiori del male) – in cui c’è “il tuo paradigma di poeta / schernito in
terra e signore delle nubi”; vorrebbe con lui inoltrarsi in una maestosa
foresta per provare “sinestesie di sensi” (rimando alla tecnica sinestetica e
analogica, molto usata dal poeta francese) ed assistere al “... funerale /
della Speranza”, insieme al “... sinistro trionfo dell’Angoscia”: Baudelaire
visse l’incubo dell’avanzare della metropoli industriale, profetizzando gli
aspetti negativi del progresso tecnologico, consistenti soprattutto nell’alienazione
esistenziale.
Vorrebbe
incontrare Paul “… sotto un cielo tiepido d’autunno” e per lui conia versi per
ricordare la malinconia e i chiaroscuri della sua poesia, fatta di musicalità e
fluidità e che si accosta alla pittura di alcuni impressionisti. Con Arthur
vorrebbe parlare d’amore, di baci, di fauni e di soldati, quel Rimbaud che in
una lettera a Paul Demeny (1871) scriveva: “Io dico che bisogna essere veggente,
farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga,
immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi”. Poi chiude la lirica
con una quartina che rafforza i concetti di morte della Speranza e trionfo dell’Angoscia:
“E infine vorrei / chiudere gli occhi per non veder dai vetri / come neri
mostruosi demoni / su di noi scendere le ombre della sera”. Ecco, i poeti
maledetti sono quegli artisti dal talento incompreso che ripudiano i valori
dominanti della società, contro la quale ostentano uno stile di vita
provocatorio ed anche pericoloso, asociale e autodistruttivo, scrivendo testi
criptici ed esoterici in rottura con la tradizione vigente, in perenne sfida
contro ogni perbenismo. Con tali presupposti, la figura del poeta non può
essere che quella di un solitario ribelle dall’anima lacerata, in un’incarnazione
dell’eroe romantico senza dimensione politica. Tuttavia da questo libro di Franco Donatini
– al quale è limitato il mio giudizio, poiché non conosco il resto della sua
opera – mi pare emerga un tipo di solitudine diversa da quella dei suoi
maestri, più legata a vissuti crepuscolari e a stati d’animo tipici di un
decadentismo italiano, scevro da estremismi spirituali e ideali. Ne abbiamo
testimonianza nella lirica che da proprio il titolo a questa silloge: La
solitudine del poeta, posta ad epilogo dei testi, come a significare
che, in ultima istanza, è quella la condizione del poeta, volente o nolente,
poiché possiede una sensibilità – spesso una ipersensibilità – che lo
differenzia dalla norma.
Con
toni pacati, ed io credo con ispirazione autoreferenziale, egli ci dice che il
poeta non cerca successi mondani, ma si apparta schivo in angoli di quiete, più
esteriore che interiore; non ama le stagioni delle promesse e della luce come
la primavera e l’estate, ma preferisce l’involucro autunnale, dove la sua
inquietudine assomiglia ai rami secchi protesi verso il cielo; come il conte
recanatese rifugge l’allegria per visitare le stanze della memoria e fa dell’oscurità
e del mistero il suo pane quotidiano. L’appartenenza della poetica dell’autore
al grande alveo decadentistico-crepuscolare è confermata da altri critici, come
Maria Rizzi:
“Davvero superbo l’omaggio… al poeta Giovanni Pascoli” (dal commento alla
lirica Omaggio al Pascoli – Dal blog “Alla volta di Leucade – 2020);
come Floriano
Romboli, il quale afferma che l’utilizzo del sintagma ossimorico è
“... sintomatico di un complessivo atteggiamento di perplessità, di
insicurezza conoscitiva e assiologica connaturali allo spirito della modernità”
(dalla prefazione a La solitudine del poeta – 2021) citando a sostegno
la lirica San
Lorenzo, novenari pascoliani. E opportunamente il critico
scrive in corsivo perplessità, che è uno degli atteggiamenti psicologici
e spirituali di un poeta crepuscolare come Gozzano. Inoltre Nazario Pardini
annota che “... il poeta fa dei simboli naturali (tramonto, alba, meriggio,
mare, cielo, alberi …) il linguaggio del suo poema.” (idem): anche ciò è di
derivazione pascoliana. Ed ancora Edda Pellegrini Conte parla della ‘malinconia
delle cose finite’ come timbro della sua poetica (dal blog ‘Alla volta di
Leucade’, 2020), mentre Carla Baroni vede una “... poesia di grande
respiro … che si snoda lungo il doppio binario dell’intimismo e della natura.
Poesia che, quindi, segue i canoni classici anche nella forma: l’unica
concessione al moderno è l’ungarettiana assenza di punteggiatura. Un fraseggio
limpido, sicuro, basato soprattutto su un endecasillabo di ottima fattura…”
(idem, 2020). Nulla a che vedere quindi con le voluttà espressive del
linguaggio dei poeti maledetti.
Omaggio ai miei poeti e La
solitudine del poeta fanno parte della sesta e ultima
sezione del libro, insieme a Il doppio viaggio – lirica dedicata
a Dante,
ricordato esule e ramingo per le corti d’Italia, colpito da febbri malariche
nelle paludi ravennate, autore del capolavoro che lo rese grande, innamorato di
Beatrice – e a Urlano le parole, dove c’è Don
Chisciotte coi suoi mulini a vento, Ulisse che si perde nei suoi viaggi nell’ignoto,
Achab che fugge dalla ragione per inseguire il Leviatano e così conclude: “...
Scrivo soltanto perché voglio narrare / il navigar nel mio pensoso mare”. Con
la quinta sezione – Miti – forma il nucleo della
poetica più ricca di inserti culturali e intellettuali: i miti classici sono
Nausicaa, Saffo, Icaro, Dafne; ma per il poeta agiscono anche i miti e le
suggestioni “delle arcane lande maremmane”. A ritroso, nella quarta sezione,
dedicata ai Luoghi
a lui cari, troviamo soprattutto i ricordi di Pisa e della bocca d’Arno,
che gli danno occasione di dipingere con pennellate paesistiche la trama metrica.
La seconda e la terza sezione – Stati d’animo e Ricordi
– sono legate dal filo della memoria tra la rivisitazione d’una vecchia
casa in collina, il sogno di un abbraccio con la madre che già vive le
dimensioni dell’eterno, il dolore di vedere gli altri andar via e perdersi nei
gorghi del tempo e dell’oblio. Ed ancora l’occhio attento del poeta si posa su
anonimi paesi abbandonati, sulla desolazione di una casa vuota, sui suoi
dialoghi coi morti in una poesia cimiteriale, su alberi caduti simbolo delle illusioni
umane … ma infine si sofferma su ciò che tutto muove e risponde: “E’ solamente
amore ...” (Non
chiedere cos’è). Amori, la prima sezione, è pervasa
dalla consumazione del tempo, che tutto divora, compresi i sentimenti e i
legami umani: ci si accorge di non essere più quelli che si era in passato; che
in fondo anche gli incontri d’amore sono frutti del caso e in balia del calcolo
probabilistico; che può esistere anche Un amore amaro, perché “fu l’incontro
di due anime perse”.
In conclusione, al di là di ogni
classificazione letteraria, di ogni ventaglio tematico, di ogni referente o
modello poetico e di ogni questione stilistica, Franco Donatini si rivela poeta
autentico, per la sua capacità di essere allo stesso tempo autobiografico e
universale, classico nella forma e moderno nei contenuti, portatore delle
esigenze del sentimento e di quelle della ragione, per interrogarsi
profondamente sulla condizione umana e sul nostro destino.
Enzo Concardi
Franco Donatini, La solitudine del poeta,
prefazioni di Nazario Pardini e Floriano Romboli, Guido Miano Editore, Milano
2021, pp. 92, isbn 978-88-31497-70-1, mianoposta@gmail.com.
Bella presentazione, chiara e ordinata, che rende merito a questa “fatica poetica” del Donatini, che in realtà, come le opere d’arte, la fatica la lascia a monte, come compito dell’autore, per darsi lieve nelle mani di chi lo legge.
RispondiEliminaE’ un libretto piccolo e denso, con versi che hanno alle spalle un attivo lavoro di rielaborazione formale e soprattutto di intelligente e creativo approccio a molteplici altri poeti, di cui non ci si limita ad una semplice citazione o parodia, ma che sono oggetto quasi di un percorso comune, come una complice "metarilettura", fatta insieme con gli autori, quasi un “prendersi a braccetto”, che coinvolge gli stessi lettori in un gioco sapiente e allusivo. Mi ricorda i libriccini dei poeti ellenistici o ellenizzanti, da Callimaco a Catullo, piacevole e insieme profondo, come un gioco di specchi tra l'animo dell'autore, dei "suoi" poeti e quello dei lettori.
Un grazie al critico Enzo Concardi per l'accurata e completa analisi della mia silloge, in cui mi ritrovo molto nelle sue considerazioni sul piano dei soggetti e del linguaggio. Grazie anche a Giuseppe Dal Canto per le acute osservazioni che ho apprezzato molto.
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