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sabato 19 marzo 2022

FRANCO CAMPEGIANI LETTO DA ENZO CONCARDI

 


Alcyone 2000 (Miano Editore) dedica nel N° 15 (2022) un saggio critico

di Enzo Concardi sull'opera di Franco Campegiani

 

Male di vivere, terra desolata, poeta-contadino, apologia della natura, dualismi dell’essere, nostalgia delle origini, speranze umanistiche in Franco Campegiani

 

di Enzo Concardi

 

Sui ridenti e pittoreschi Colli Laziali trovasi Marino, terra natale del nostro autore, dove tuttora risiede. Egli è poeta, critico letterario e d’arte, filosofo. Le sue raccolte di poesia partono con L’ala e la gruccia (1975) e proseguono con Punto e a capo (1976), Selvaggio pallido (1986), Cielo amico (1989), Canti tellurici (2000), Ver sacrum (2012), Il letto del fiume (2002), per concludersi con Dentro l’uragano (2021): opera vincitrice del Premio Letterario Internazionale “Golden Selection 2021” e su cui s’incentrerà maggiormente la nostra analisi critica. In campo filosofico ha pubblicato La teoria autocentrica. Analisi del potere creativo (2001) e il saggio Ribaltamenti (2017). Ha dato impulso a cenacoli culturali e promosso – insieme allo scrittore Aldo Onorati e al sociologo Filippo Ferrara – il “Manifesto dell’Irrazionalismo sistematico” (2005), ispirato all’opera del Maestro Bruno Fabi.

La sua poetica ha visitato fin dall’inizio talune tematiche divenute in seguito veri e propri “cavalli di battaglia” culturali, nel senso di messaggi da divulgare ai contemporanei, nonostante la dichiarata propensione a scrivere per se stesso. Se prendiamo, ad esempio, Selvaggio pallido, esso è definito dal prefatore Vito Riviello un «poema ecologico» ed il poeta stesso identificato come «un amico vero della terra, ecologo per vocazione e non per scelta disperata e crepuscolare». In Canti tellurici, Aldo Onorati, che da sempre segue le sue pubblicazioni, sottolinea la molteplicità dei suoi motivi «... legati al cosmo e alla sua conquista attraverso la conoscenza interiore e il riconoscimento della necessità dell’inseparabile dualismo-unità di bene e di male». Natura, panteismo, forze primigenie, dolore del limite, madre terra, ritorno salvifico dell’Eden, visioni apocalittiche, grembo e radici, vulcanismo di terra e cielo, trinità fra tempo-storia-uomo, morte di una civiltà, amarezza del presente e speranza per il domani, perdita della sacralità, lirica filosofica e noetica, crisi esistenziale e spirituale dell’uomo contemporaneo … sono tutti elementi che poi troveremo sviluppati ed ampliati anche in Dentro l’uragano.

Ninnj Di Stefano Busà, a proposito di Ver sacrum, parla di «... un incoercibile malessere che è il movente motivazionale di tutta la raccolta»: il poeta, a mio parere, non fa altro che interpretare il male di vivere odierno, rifiutandolo e indicando altre vie per superarlo, come vedremo tra poco. Fa parte di tale malessere l’allontanamento dall’Assoluto, che ha piombato l’essere in dimensioni minimalistiche: il recupero di una fede profetica, visionaria, primigenia, universale, non confessionale rientra nei progetti rigenerativi per l’uomo. Così anche nella silloge Il letto del fiume, accanto ad immagini di bellezza rusticana, ritornano i temi dell’Eden, dell’eterna lotta fra principi opposti, delle questioni antropologiche ed ontologiche, dell’alfa e dell’omega, di Caino e Abele.

Ma è giunto il momento di entrare nel mondo dell’ultimissima raccolta dell’autore, ovvero Dentro l’uragano, non prima però di aver ricordato, con Aldo Onorati, il suo temperamento sanguigno, che sicuramente incide sullo stile della scrittura: «Poeta delle forti passioni, delle brucianti polemiche, degli infuocati assiomi». Insomma, Campegiani possiede ancora quel “sacro furore poetico” che ha contraddistinto le tempre del passato e che manca alle schiere di esangui intellettuali odierni, non più coscienza critica della società, ma ‘primedonne’ della mondanità. “Sacro furore poetico” che sarebbe bene tornasse a vivere tra noi, per ascoltare voci autentiche di poesia. Anche Dentro l’uragano porta la prefazione di Aldo Onorati, di cui cogliamo i passaggi più significativi. Egli inizia a mettere in risalto i toni profetici e biblici dell’opera: «Campegiani osserva che s’è disseccato per sempre il fiume del sacro primordiale, e a me sembra che la primordialità sia un’essenza-chiave, una sorta di innesto vitale nel pensiero di questo autore concreto e visionario, terrestre e metafisico a un tempo». Puntualizza poi la figura di Adamo, contadino da millenni con un piede nell’Eden, e un altro fuori coltivando la terra.

Ora però Adamo è uscito dall’Eden anche con l’altro piede e una “follia razionale” domina il mondo, basata su un falso concetto di progresso, perché non a misura d’uomo. Per ciò il poeta – come gli antichi profeti – sembra essere come una voce che grida nel deserto, cioè inascoltata. Gli scenari sono quelli della morte di Madre Terra e il dolore del figlio-uomo non potrà essere superato se non con una sua presa di responsabilità, divenendo un tutto, capace di vivere ed amare, senza attendersi nulla dall’esterno, nemmeno dal divino. Onorati sottolinea ancora, tra l’altro, la funzione del paesaggio in tali contesti e concetti filosofici, ovvero essi riflettono l’interiorità del poeta, per cui sono essenzialmente “paesaggi dell’anima”. Per il critico l’autore ama la poesia selvaggia, dalle radici primitive, che si sposano «col mistico … col metafisico». Infine egli conclude cogliendo un aspetto di grande verità nella poetica intrinseca all’opera, ovvero che le contraddizioni dicotomiche (bene-male, Caino-Abele, luce-tenebre, odio-amore…) dell’essere, attraversano l’interno dell’uomo, non sono al di fuori di esso, sono indelebilmente stampate dentro ognuno di noi, che quindi possiamo trasformarci, di volta in volta, in Caino o Abele – secondo le Sacre Scritture - in Dr. Jekyll o Mr. Hyde, secondo la geniale simbologia letteraria romanzata di Stevenson.

Dentro l’uragano è un grido di dolore epocale per l’innocenza perduta, per le radici divelte, per l’essenza di noi stessi stravolta, per il furto della nostra identità storica e personale attuato da un progresso-regresso tecnologico e consumistico che ha reso tutti vittime di una grande alienazione. Vittime in gran parte inconsapevoli, tant’è che si trastullano in una fasulla felicità beota o cadono in profonde depressioni esistenziali di massa. Le poche coscienze lucide ad avvertire il dramma dell’umanità dispersa vengono emarginate, tacitate come profeti di sventura in preda ad una schizofrenia antropologica ed ontologica, invertendo così i termini del problema con una grande proiezione psicologica di tipo freudiano. Il poeta-veggente-profeta autore del libro si inserisce nelle scuole di pensiero lucide, che hanno già, dagli inizi del Novecento, denunciato il dilagare della disumanizzazione odierna: non v’è spazio qui per nominarle tutte; sono in genere quelle che fanno riferimento all’esistenzialismo, alle filosofie personalistiche, all’ermetismo, al pensiero critico.

Per nulla a caso Campegiani apre Dentro l’uragano con una citazione dell’intellettuale disorganico, irregolare e trasgressivo – ma lucido – Pier Paolo Pasolini, che sono “obbligato” a citare a mia volta, poiché ritengo che i suoi versi siano la chiave di volta per interpretare correttamente quelli del poeta laziale: «Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi, / abbandonati sugli Appennini o sulle Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli. / Giro per la Tuscolana come un pazzo / per l’Appia come un cane senza padrone. / O guardo i crepuscoli, / le mattine / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, / come i primi atti della Dopostoria, / cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, / dall’orlo estremo di qualche età / sepolta. Mostruoso è chi è nato / dalle viscere di una donna morta. / E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più» (da Poesia in forma di rosa).

Franco Campegiani gli fa eco con la lirica Lettera a Pier Paolo, scritta come a un fratello di sangue e d’idee, che contiene versi apologetici sulla donna e la civiltà contadina e la loro fine, sino all’abbraccio finale con Pasolini, compagno nella parabola terrestre e forse oltre: «Civiltà rude e gentile, / sangue contadino /…/ Caro Pier Paolo, tutto pian piano / si è corrotto nella storia, / ed ora che sono svanite per sempre / le pale di vigna e d’altare, / ora che il popolo è scomparso /…/ ora si è spenta la terra / e la donna non è più con noi. /…/ Non più contadini, noi, / non più umani, Pier Paolo, / ma la madre non muore, / è vita perenne, un viaggio infinito. / Vengo nel Dopostoria con te, / la palingenesi è inesorabile». La fede nella Terra tuttavia non muore. È chiaro qui in Campegiani l’attaccamento radicale al mondo contadino, ai suoi stili di vita, ai suoi simboli, ai suoi valori, all’immutabilità di un modello storico, fino a farlo divenire paradigmatico ed universale. È chiaro anche il distacco da tutto ciò che è venuto dopo, come vedremo in alcune liriche descrittive della metropoli. Il poeta si avvale per tali canti, simili ad epicedi collettivi, talvolta di un linguaggio diretto, immediato, con terminologie che sono veri e propri pugni nello stomaco del lettore; talvolta di un lessico metaforico, simbolico che parrebbe più rivolto a lettori acculturati.

Tuttavia l’effetto è quasi identico: provocatorio, riflessivo, da aut-aut per scuotere le coscienze. Nella lirica seguente c’è un secondo riferimento ad un altro personaggio influente del Novecento culturale, ovvero Sartre, borghese mascherato, trattato però in modo accusativo, in contrasto con la figura del “poeta-contadino”, personificata dall’autore: Roquentin (il protagonista del romanzo La nausea di Jean-Paul Sartre), viene messo alla berlina come larva cittadina, come borghese mascherato che non conosce la dura scorza del poeta-contadino: «…O Roquentin, Roquentin, / i tuoi poeti sono esangui, / son come te, larve cittadine. / Che sai tu del puzzo di bestia, / della dura scorza / del poeta contadino? /…/ Ti scandalizzi / per l’ipocrisia degli altri, / per l’idiozia degli altri / e non ti accorgi / che sei solo un borghese mascherato. / La vita è brutta perché è bella, / questo non capiscono i cittadini. / Né può capirlo ormai / questo smorto contadino di città».

La “sacralità” della campagna è sancita in Tellure: «E ogni pomo è il padre, / il figlio, lo spirito santo». Ecco dunque il netto contrasto, il dualismo tra città e campagna, tema al quale vengono dedicate altre liriche significative, emblematiche. Case nere lungo viali asfaltati è una di queste, dove v’è il ricordo e la nostalgia del padre contadino e di quel mondo che, dopo il «dolore nelle notti» regalava speranze contenute in tante albe esplosive di nuova vita. Non così l’attuale metropoli, definita «il male d’oggi», in cui esistono «plastificate muraglie», «una notte senza sbocchi», «un incubo, un’oscura follia», «un nulla radicale in estinzione»: toni apocalittici che negano ogni progresso, ogni beneficio materiale, poiché slegato da quel «supplemento d’anima» di cui avrebbe bisogno l’inaridito uomo tecnologico, secondo il filosofo francese Bergson.

L’incubo delle città moderne alienate era già stato preconizzato da Baudelaire ne I fiori del male, come ad esempio in Crepuscolo del mattino: luoghi infernali, esse non avrebbero più lasciato posto alla poesia e ai poeti, condannati all’esilio spirituale. Stazione metro e Piovra metropolitana sono altri esempi in cui i passeggeri sotterranei vengono trasformati in dannati che vanno in bolge dantesche, mentre l’avanzare del sistema economico industriale si mangiava i campi e il mondo dei contadini. Altra è l’atmosfera che si respira immersi nella natura: le immagini paesistiche di Campegiani riconciliano con se stessi e con il mondo, tanto sono semplici nella loro profondità contemplativa. C’è bisogno di un Concerto di primavera per ritrovare un sorriso, per amare la vita, laddove camomilla, tarassaco e borrana asciugano lacrime; laddove il ruvido ulivo rappresenta un padre davanti a cui inginocchiarsi; laddove si può fraternizzare con un ciliegio carezzevole. C’è bisogno di ritrovarsi spersi in un piccolo borgo appenninico (Capodacqua, vicino ad Arquata del Tronto) a Capodanno per riprovare antiche e nuove emozioni: boschi argentati, vetusti tratturi, presepi di case, umili chiese, vecchio camino e gagliardo vino… per capire che «tocca a noi di amare, di vivere e morire».

Queste tematiche occupano buona parte del libro. Vi troviamo echi di Eliot (La terra desolata) con la crisi dell’uomo contemporaneo, con la desacralizzazione del mondo, con la solitudine interiore dell’individuo nella massa; echi di Montale del male di vivere, con l’osservazione della pietrificazione nei rapporti umani, con il non-senso di una vita segnata dall’enigma; echi del mito di Rousseau sull’uomo buono in natura corrotto dalla civilizzazione e dall’organizzazione sociale: «l’uomo è nato libero, ma dovunque è in catene» (incipit de Il contratto sociale di Rousseau).

Un’altra parte del libro è invece occupata da liriche di carattere filosofico intorno alle leggi dualistiche dei contrari che si sostengono a vicenda e che potremmo definire ontologiche, ovvero indagatrici della sostanza dell’essere ieri ed oggi. Dualismi e bipolarità che hanno origine nel pensiero greco, ed ecco quindi l’allegoria del dio bifronte in una lirica surreale dal titolo Sulle ali di Giano, il dio dalla doppia testa padrone dell’eterno in cui il tempo nasce e muore: «… Io sono Giano dalla doppia testa, padrone del Passato e del Futuro. / Se fissate la linea che demarca / le memorie dalle attese, / un varco si aprirà ed entrerete / negli Inizi Perenni. / Di quel mondo io sono il dio, / nume primigenio dei Latini. / Giove mi oscurò, / sesto figlio di Cromo, / scivolando la mente degli umani / nel dominio del tempo. / Ma io sono nell’eterno, / da me nasce il tempo, in me muore, / così io rinnovo le stagioni…».

Molte di tali poesie convergono su riferimenti culturali precisi, come Epitaffio - Sulla tomba di John Keats al cimitero acattolico. Inno alla realtà dialettica che – come in Hegel – si forma dalla sintesi fra una tesi e la sua antitesi: «Ogni cosa è nell’altra / e la luce appare nell’ombra, / tutto è positivo e negativo, / fratellanza di chiari e scuri». Visione presente anche in Hermann Hesse (Siddharta). Altre testimonianze albergano in L’essere è qui, un invito ad essere se stessi, ad aver fede nel contrario, perché «...l’oltre sta qui» e «...l’eterno è un sosia, un doppio» nascosti in noi; non quindi l’essere astratto dei metafisici, ma l’esser-ci (dasein) come in Heidegger, presente nella storia e nella società. In Identità che «è mobile e sempre altra / e altra ancora da sé», nascosta «dietro la maschera»: echi di tematiche letterariamente pirandelliane. In Caro Emanuele, rivolta con simpatia ed affetto a Kant, ribadendo: «E stanno in me il lupo e l’agnello, / in me il giorno e la notte /…/ Cosa la ragione può comprendere / della legge suprema dei contrari?». Ed anche l’amore soggiace a questa ferrea legge: «Legarti a me è saperti libera /…/ Mi manchi e sei qui» (Frecce nel cuore). Tuttavia in Salmo avviene una catarsi religiosa che conduce al regno del Redentore, per cui «è ora di scuotersi, / riaccendere la nave /…/ di nuovo è pronta a salpare» fuori dall’uragano.

 

                                                                                       Enzo Concardi

 

1 commento:

  1. Sono molto grato a Enzo Concardi per questo acuto saggio critico sulla mia poesia, teso a evidenziarne "il recupero di una fede profetica, visionaria, primigenia, universale, non confessionale" da cui risulterebbe animata e che, secondo il critico, rientrerebbe "nei progetti rigenerativi per l'uomo", contrastando il diffuso "allontanamento dall'Assoluto" dei nostri tempi, "che ha piombato l'Essere in dimensioni minimalistiche". Bene, benissimo: mi sento davvero a casa. In particolare laddove, sottolineando la tensione della mia poesia ad "interpretare il male di vivere odierno", egli ne coglie l'indicazione di una via per superarlo nella diretta "presa di responsabilità" dell'uomo con se stesso, "senza attendersi nulla dall'esterno, nemmeno dal divino". Mi complimento con l'esimio studioso, ringraziandolo ancora ed estendendo il ringraziamento all'amico Nazario che ospita generosamente in queste pagine il suo scritto, già pubblicato nel n° 15 dei quaderni di "Alcyone 2000" (Miano Editore).
    Franco Campegiani

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