Maria Rizzi su Eteree
Metamorfosi di Federico Cinti - Fuorilinea Edizioni
La
silloge del Professor Federico Cinti, che al nostro Premio Internazionale «Voci»
Città di Roma ha vinto il primo premio nella sezione intitolata a mio padre
Nicola Rizzi, è il tributo più alato che un Poeta amante del metro classico
possa ricevere da un altro Poeta. Sono fiera di averlo avuto sul podio e
ringrazio la Casa Editrice
Fuorilinea del caro Franco Esposito per avergli donato la pubblicazione. Il
titolo è emblematico della Raccolta di liriche che il Nostro ha composto. Sin
dai primi versi mi sono sentita catturata da una rete di impalpabili, sublimi sensazioni,
che hanno invaso i meandri della mente con la tenerezza di quel vento che si
ascolta e non si riesce ad afferrare. Ho avvertito infinite increspature al
limitare del pensiero. E ho inevitabilmente pensato al senso di incompletezza
che mi avvolge, quasi un rimpianto, qualcosa che poteva essere e non è,
qualcosa… Quel tarlo è sbucato dal
passato, dal rimorso di non essermi lasciata trascinare nel vortice
appassionato del metro classico. Di non aver donato a mio padre la gioia di una
composizione in endecasillabi. La musica assordante di Federico Cinti è monito.
Mi sono ritrovata a fluttuare in un mondo quasi surreale e ho pensato al
sorriso di papà. La prima lirica ha il respiro della stagione in fiore: «Tiepida
l’aria, il cuore la riceve /nel suo respiro dolce di fragranza: /nella sua
nenia il sibilo di danza /all’urgenza del tempo troppo breve» (Primavera)
e dà la certezza che solo chi è capace di incarnare i crescendi pucciniani
saprà recuperare la parte di umanità che stiamo perdendo. L’Autore compone
testi in levare, che trascendono l’universo visibile, eppure sono calati in
esso. «Un caffè al bar. Due chiacchiere / assieme a un vecchio amico. L’impassibile
/ pomeriggio s’adagia / su ogni cosa. S’affoltano al semaforo// impazienti le
macchine /nella fuga dell’ora. Il Reno indugia /Oltre la strada» “Al caffè
Margherita). Il Poeta sembra dotato di un terzo occhio, in quanto noi nel
guardare spesso non riusciamo a vedere quello che vorremmo sentire. Questo non
vuol dire che nel profondo non si celi il mondo che vorremmo ascoltare.
Federico Cinti guarda con l’anima, ascolta con la sensibilità e vede in modo
diverso. La sua visione del mondo è specchio del pensiero di pochi uomini
superiori. «Nel lago /del cuore annega / il ricordo, ombra vaga tra mille altre
/ ombre. Il verde del muschio sotto il monte / sa di storie passate, sa di
giorni / persi, racconti /chiusisi dentro l’anima» (Canto d’aprile).
Scorro il cantico del Poeta e so che non il metodo, bensì la percezione
rappresenta la via della verità. Si tratta di uno stato di consapevolezza
irrazionale, duttile, non critico. Se le porte della percezione fossero sgombre,
ogni cosa apparirebbe com’è: infinita. E le metamorfosi sono intrinsecamente
legate alla capacità di sentire la realtà. Se grazie a esse si avverte lo
stupore e la serenità dell’Artista, non è a causa delle trasformazioni, bensì
grazie a ciò che muta dentro e dietro di lui e di noi. Esaustiva in questo
senso la lirica Miracolo: «Ti ricordi quel piovere? /Anche ieri pioveva.
In quel prodigio /la tua presenza eterea, / così consolatrice, così unica. //
Un alone di grazia / ti circondava, simile a una nebbia /aurea. Un sorriso
tenue /dietro quel velo timido, impalpabile». L’Autore viaggia sul registro di
tutti i versi, da funambolo del metro classico, e adotta le figure retoriche
con raffinata maestria, lasciando che diventino parte pulsante dell’eterea
atmosfera. L’enjambement, ovvero il procedimento che consiste nel separare due
parole concettualmente unite, collocandone una alla fine di un verso e l’altra
all’inizio del successivo, gli è particolarmente congeniale, forse perché giova
alla fluidità del ritmo delle liriche. Non a caso èra una figura retorica molto
amata dai grandi della nostra letteratura, come Torquato Tasso, Ugo Foscolo e
Giacomo Leopardi. In tempi difficili come quelli che attraversiamo una Silloge
come questa è balsamo per i cuori. In ogni metamorfosi c’è l’ombra di
un’illusione, ogni illusione è la proiezione di un sogno, in ogni sogno c’è la
possibilità di un risveglio, ma al tempo stesso l’eventualità di un altrove e
ogni altrove è annuncio di un viaggio … Non importa la meta, lo scopo del vivere
stesso è il cammino e Federico Cinti sembra scegliere di essere costantemente
altrove. «Siedo anch’io, in attesa /dell’ora che mi salvi. Il tempo inganna /la
mia speranza, ombra d’un frutto acerbo / che già rosseggia /lontano. Nell’azzurro
siderale /si placherà quest’ansia d’infinito» (Come sospeso). L’eterea
vertigine nella quale veniamo trascinati mi induce a riflettere sul fatto che
in fondo la patria da cui veniamo è altrove. Siamo tutti legati alle forme
d’esilio, inteso come allontanamento dalle origini, dalle isole della memoria.
I versi di raso della lirica Nel vecchio asilo sembrano darmi conferma: «Aleggia
il giallo tenue. Una vertigine /mi sorprende, stupita meraviglia / di quella
prima volta. /Tutto già fu. In un alito // dilegua la memoria. Lungo il ciglio
/del prato i miei ricordi si rincorrono / simili a bimbi». I versi di questo
Poeta che incatena i venti, fa tremare le nuvole, si fonde con la Natura, raggiungono in
certe liriche vette mai immaginate: «S’intravide la luna: in un pallore / di
perla sgranò lieve il suo rosario /di stelle e fiorì lieve lo stupore» (Sogno
d’una notte di mezza estate). Penso a Khalil Gibran che scriveva: «Un
sospiro dal profondo dei mari dei sentimenti, una lacrima dal cielo del
pensiero, un soave sorriso dal campo dell’anima». Il profeta si riferiva
all’amore, ma non è forse sublime tutto ciò che ci trasporta fuori di noi, in
quell’altrove immacolato, che è radice, essenza, limite e confine? Federico
Cinti ci allontana dallo scontato, ci trasporta in una dimensione che dà senso
al tempo, risarcisce e salva. «In alto il cielo in cui inoltrarsi liberi /Nuova
realtà ineffabile, // cadere profondandosi oltre i limiti /a noi concessi,
perdersi // e ritrovarsi. Placida vertigine / lassù: si fa possibile // un
sogno antico, l’unico sorridere / mistico dentro l’anima» (A ferragosto).
Una Silloge come Eteree metamorfosi attesta che, se c’è sulla terra e
fra tutti i nulla qualcosa da adorare, se esiste qualcosa di santo, di puro,
che assecondi lo smisurato desiderio dell’infinito e del vago che definiamo
anima… è solo la Poesia.
Maria
Rizzi
Nessun commento:
Posta un commento