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martedì 31 maggio 2022

ANGELA AMBROSINI: "MANICHINI E MASCHERE"


FOTOGRAFO: FABIO SERCIA
l'articolo è stato pubblicato nel numero 184 - maggio 2022, del Bollettino Lunigiana Dantesca del CLSD.


                                                          FOTOFRAFO FABIO SERCIA:

l'articolo è stato pubblicato nel numero 184 - maggio 2022, del Bollettino Lunigiana Dantesca del CLSD.


ANGELA AMBROSINI

 

MANICHINI E MASCHERE

Le identità nascoste

 

MEMORIE DI UN MANICHINO


Anima era in me

e sogno d’ampi azzurri

e vento ai sensi parlava

di boschi e rive quando

sussurravano gli anni nelle crepe

quiete del corpo che pena batteva

di lucenti marosi.

Guscio di stelle tenero incideva

rotte al mio andare

lento e un punto io mi fingo

ancora, un punto di diamante

in questo cielo che un tempo anch’io

temevo di fato gravido.

Perduta è ormai traccia

d’ogni suo tepore e gelo,

ma non memoria delle carezze

loro, né bufera di quel dolore

che inconsumato annida

sotto il mio guscio duro,

ora che agli occhi io

più lacrime non ho

e inabitato in sfida sto

sotto lo sguardo

imperscrutabile

di Dio.

 

MASCHERE

 

Sta. Appoggiata al buio

che infuoca dietro la colonna

di pietra chiara. Ora che la folla

rapida frange e incide calli

e ingorga canali dipinti

tra cangianti spume,

lei sta.

Avara di gesti, scrigno

muto dell’anima che maschera

di trine e piumaggi scroscia

in tacito volo a nasconderle

il volto. D’alabastro il mento

nell’ebano inquieto del manto.

Sto. Cerco la celata pupilla,

il sepolto sorriso nel labbro

di pensieri bordato, ma livida

m’accorgo che specchio lei mi è

come tarantola a mordere

il viso mio nudo.

Sto. E vena di pianto

mi lapida il cuore.

Intorno, ride Venezia.

in Angela Ambrosini, Ora che è tempo di sosta, CTL Editore, 2017

in Angela Ambrosini, Ora che è tempo di sosta, CTL Editore, 2017

   Questi scatti del fotografo veneto Fabio Sercia sono la riprova di come la relazione immagine-poesia nelle liriche del mio libro Ora che è tempo di sosta (direttamente ispirate a opere di linguaggi visivi) non avvenga, come spiego nella Premessa dell’autore, attraverso un processo di meccanica sovrapposizione, tipico dell’ecfrasi, bensì di “accostamento, in una dialettica articolata che si propone di superare, quindi, la forma di partenza agganciandosi a una dimensione amplificata nel sottinteso, nel taciuto, nell’adiacente, in una direzione che vada ‘oltre la soglia’ tanto dell’immagine che della parola”.  Nella fattispecie, limitarsi a “descrivere” poeticamente queste due immagini sarebbe stato arduo, proprio in forza del senso di negazione e di dilavamento di identità che esse esprimono. La foto del manichino, ad esempio, è deliberatamente antiestetica, il soggetto è non-bello, quanto meno cupo e urticante e risulta chiaro come la sua osservazione abbia in me innescato considerazioni ed evocazioni di sentimenti che esulano dalla foto stessa, così può evincersi dall’incipit della poesia che, in funzione antitetica, recita “Anima era in me. La scelta della modalità in bianco e nero di molte foto di Sercia coincide con la mia inclinazione, come accennavo, verso un enunciato lirico sottotraccia, un non detto che tende a prevalere sull’esplicito, orientamento che il fotografo ha dimostrato di recepire con acuta sensibilità nella realizzazione dei suoi video scaturiti da alcune mie poesie, in un percorso pertanto diametralmente inverso a quello che soggiace nelle mie poesie ispirate alle sue immagini. Spunto letterario per la poesia Memorie di un manichino è stata la celebre lirica di T. S. Eliot, Gli uomini vuoti (“Siamo gli uomini vuoti, siamo gli uomini impagliati”) nella quale il grande poeta statunitense denuncia il vuoto di valori dell’uomo contemporaneo “figura senza forma, ombra senza colore, forza paralizzata, gesto privo di moto”. Di qui la mia attrazione-repulsione per la portata allegorica di questo manichino senza trucco né parrucco, abiti e identità sessuale, la negazione stessa di una qualunque entità umana, un tronco morto, qui palesemente di plastica o di PVC a giudicare dalla lucentezza con cui riflette la luce. È un burattino che imita tragicamente un vuoto, una specie di Pinocchio senza vita dell’industria della moda. Nella mia poesia ho invece voluto ribaltare i termini proposti nella storia di Collodi, immaginando un moderno Pinocchio che ricorda l’epoca in cui, prima di anchilosarsi in una larva morta, fu essere umano, animato per di più da un incoercibile afflato di spiritualità. Molto efficace nel video (che qui purtroppo non possiamo apprezzare) la scelta del fotografo di visualizzare il titolo della poesia componendolo proprio al ritmo del ticchettio della macchina da scrivere, evocando così l’atto stesso della scrittura: è il medesimo protagonista che ricorda ciò che un tempo fu.

   Al tema del manichino si sovrappone il ben più antico tema antropologico della maschera. In una sequenza della videopoesia di cui sopra, il fotografo ha inserito manichini con maschere, l’acme dell’assenza e della perdita di identità. La seconda poesia, Maschere, è direttamente ispirata alla bella foto di Fabio Sercia che ritrae una maschera veneziana in atteggiamento assorto, quasi in agguato, come pare trapelare anche dal titolo che il suo autore ha voluto attribuirle, Sulla soglia, nel deliberato intento di spostare l’attenzione dell’osservatore dall’esteriorità della maschera alla sua intenzione nascosta, quasi ostile. Questo per lo meno è ciò che ho percepito io, sensazione enfatizzata dall’ambientazione urbana di una Venezia non storicamente nobilitata dai suoi celebri edifici, ma catturata in un’istantanea di ordinaria periferia. La stessa scelta del bianco e nero contraddice la celebrazione convenzionale dello splendido repertorio artigianale carnevalesco (non certo ignoto al nostro fotografo veneziano) annullandone la policroma versatilità in una formula criptica e allusiva, anzi deliberatamente “elusiva” rispetto al volto che si nasconde dietro. “Non dal volto si conosce l’uomo, ma dalla sua maschera” affermava Karen Blixen, forte della sua esperienza di vita in Africa e sarebbe impegnativo ora, anche se doveroso, chiamare in causa il nostro Pirandello con la sua celebre Teoria delle maschere.

   Il termine maschera deriva forse, secondo alcuni studiosi, dal preindoeuropeo masca, che significa “fuliggine”, essendo usanza rituale nelle società arcaiche imbrattarsi il volto di fuliggine per occultare le proprie fattezze rendendole irriconoscibili al fine di invocare spiriti ed energie cosmiche. La maschera ha tradizionalmente costituito non solo uno dei primi oggetti liturgici nei rituali sacri delle culture tribali, ma anche il primo strumento scenico per eccellenza nella tragedia e nella commedia classiche. Pensiamo alla parola latina “persona” (poi diramatasi in italiano, francese, spagnolo, portoghese, inglese) che etimologicamente designa proprio la “maschera”, l’intercapedine che gli attori usavano sulla scena non solo per coprirsi il volto allo scopo di assumere altre identità nel ruolo loro assegnato, ma anche, come l’origine della parola suggerisce, “per-sonare”, cioè per amplificare la voce durante la recitazione in epoche in cui non esistevano certo impianti di amplificazione del suono. Altri termini dalla nomenclatura scenica classica sono entrati poi nella lingua con diverse accezioni.  Persino la parola “ipocrita” è desunta dal lessico teatrale, alludendo l’etimologia del lessema greco ypocrites (cioè “spiegare–sotto”) all’attore, a colui cioè che interpreta scenicamente il ruolo di un’altra identità. La maschera denuncia la privazione della propria identità con il conseguente appropriamento di un’altra, di qui che sia con frequenza assimilata anche al repertorio demoniaco o, più semplicemente, induca inquietudine, invitando allo sforzo accorto di perforare le apparenze per intraprendere il processo di disvelamento della realtà ad esse sottesa. Non a caso, asseriva Nietzsche, “tutto ciò che è profondo ama la maschera”. O, come nel caso dei miei versi, teme la maschera.

 Angela Ambrosini

Pubblicato nel n. 184 del Bollettino Lunigiana Dantesca del Centro Lunigianese Studi Danteschi

1 commento:

  1. La tua Opera "Manichini e maschere" corredata di fotografie artistiche e presentata in questa pagina magica in ogni sua sfaccettatura ha un fascino raro, cara Angela. Tocchi tasti allegorici - soprattutto le maschere - con versi straordinari e nella tua esegesi metti a fuoco vari concetti, per esempio che "La maschera denuncia la privazione della propria identità con il conseguente appropriamento di un’altra, di qui che sia con frequenza assimilata anche al repertorio demoniaco o, più semplicemente, induca inquietudine, invitando allo sforzo accorto di perforare le apparenze per intraprendere il processo di disvelamento della realtà ad esse sottesa". Mi hai spinto sui passi del grande Vittorio Gasman che asseriva che "Non si recita per guadagnarsi il pane, si recita per mentire, per smentirsi, per essere diversi da quello che si è; si recitano parti di eroi perché si è dei vigliacchi, si recitano parti di santi perché si è delle carogne, si recita perché si è dei bugiardi sin dalla nascita, e soprattutto si recita perché si diventerebbe pazzi non recitando". La storia dell'esistenza, amica mia. Si finisce per sentirsi veri solo dietro alle tante maschere che si indossano. E il manichino rappresenta un altro simbolo importante. Reciti:: "Anima era in me / e sogno d’ampi azzurri /
    e vento ai sensi parlava" con metafore di raso, e affreschi la vita desiderata. Roberto Bottari in una mostra che ho visitato giorni fa descriveva i manichini proprio come i simboli dell'attuale società. Come nelle foto postate da te erano in bianco/nero classico, reso ancoro più freddo dalla stampa su specchio, e mettevano in risalto gli sguardi diretti nel vuoto, riflessi simbolici di noi tutti, della nostra mancanza di una vera visione, privi di speranza o forse, solamente, in attesa di risposte. Grazie Angela di questo ennesimo diamante incastonato nell'Isola del nostro Vate. Vi abbraccio forte entrambi.

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