Il travaglio aspro eppur suggestivo e fecondo dell’esistere nella
poesia di Giovanni Tavcar
Il
solido impianto concettuale che sostiene e caratterizza l’elaborazione
artistico-letteraria del poeta triestino si obiettiva, nei versi della più
recente raccolta significativamente intitolata Tra speranza e angoscia, nell’esplicita rivendicazione
dell’essenzialità dell’atto del pensare,
nella sottolineatura della primarietà della riflessione critico-intellettuale
quale tratto qualificante la vicenda storica e morale degli uomini: “Nessun pensiero/che attraversa la nostra
mente/lo fa per caso(…) Perché esistere vuol dire/pensare,/soppesare, scegliere, decidere/e così formare la
nostra/autocoscienza./E nell’autocoscienza/ il nostro io vive l’audace/avventura umana,/ illuminata dal luminoso faro del pensiero” (Pensare). I miei corsivi intendono innanzitutto porre in risalto la
perizia compositiva di cui l’autore dà prova in un testo dal suggestivo
equilibrio circolare e contraddistinto dall’impiego meditato dell’enjambement e dalla predilezione della serie enumerativa, una peculiarità linguistico-espressiva, quest’ultima,
ricorrente nella ricerca lirica di Tavcar: “ Spesso/ ci lasciamo incantare/ da
chimerici castelli/di cartapesta,/da luccicanti illusioni,/da baluginanti
lustrini,/per sfuggire/alle ansie della vita,/ ai buchi neri disseminati/ dal
nostro essere opaco/ e stravolto” (Illusione); “L’armadio che non si apre,/ l’orologio che
continua il suo sonoro/ e snervante ticchettio,/ i tarli che rodono il legno,/
il computer che non si accende,/ gli appunti illeggibili,/ la radio che
gracchia,/ il rubinetto che perde,/ la vicina che strepita e urla,/ la lametta
consunta del rasoio/ che mi regala abrasioni,/ l’asciugamano pulito che non si
trova…” (Grigia previsione).
Il
titolo del libro vale poi l’indicazione “avantestuale” della fondamentale ambivalenza propria di una concezione
della realtà intimamente bilicata fra la dura, impietosa constatazione del “mal
di vivere” - con le ansie, i dolori, le
frustrazioni logoranti, lo sconforto che affligge e costerna -, e,
contrastivamente, l’adozione di un atteggiamento fiducioso, l’affermarsi di un animus positivo e persino appagato,
nell’alternanza di taedium e di amor vitae.
“Stare dentro l’angoscia/ è una situazione/
che rode e divora./ Un rotolìo furioso/ di cieli contrariati,/ di venti
mordaci,/ di perse ragioni./ Singulti di ore che scompigliano/ passi senza
domani,/ recinti inossidabili./ Un consumarsi continuo/ che spegne/ i già
deboli e rari barbagli di luce” (Angoscia)
; e in un rapido moto diadico, in un sorprendente rovesciamento sentimentale e
ritmico: “Amo i colori, la musica,/ la luce,/ i cosmici respiri/che alimentano
la mia sete/d’infinito./ La bellezza m’incanta/ e mi fa cantare/all’unisono con
i suoni,/ mi fa volteggiare/ come un albatro/ nell’immensa superficie/ dei
mari,/ mi fa riposare sui declivi/ della mia sorte” (Sto aspettando), con il correlativo apprezzamento della serenità, della giovinezza, dei momenti di gioia
che per “miracolo” scaturiscono dal mistero
dell’esistenza: “ Sotto la spinta/ dei sogni/ il risveglio si è rivelato/
stamattina/ roseo e incantato./ Immagini/ colorate e fiorite/ mi saltellavano
intorno (…) E la mia giornata/ si è miracolosamente/ rivestita/ di insperate
gioiosità” (Insperate gioiosità).
Risulta
pertanto del tutto consequenziale nella struttura dei testi la diffusa
formalizzazione dei contenuti etico-culturali attraverso la figura dell’antitesi e agevole sarebbe
l’esemplificazione; in questa breve nota mi preme segnalare il nesso oppositivo
costrizione/libertà : “Itinerari di passi/senza mète/smembrate fantasie,/echi
di nuove paure./Talvolta smarriamo/la giusta direzione/ e ci troviamo
impantanati/ in limacciosi grigiori/ dai quali/ è molto difficile uscire” (Talvolta).
Nel
campo della coazione è la triste
esperienza dello spazio chiuso e soffocante, della deiezione spirituale,
dell’inaridimento interiore; in quello dell’autonomia
sono la spazialità aperta, l’aspirazione all’autenticità e la speranza della felicità: “Rinchiuso/ tra
le quattro mura/ della mia stanza/ penso e rimugino sul senso/ della vita,/
vigilo, fisso lo sguardo/ sulle case/ e sulle vie che mi circondano,/ ma non
aspetto nessuno./ Eppure so che prima o dopo/ qualcuno verrà,/deve venire,/ a
ristorare le mie pene,/ a perdonare/ le mie mancanze,/ a guarire/ le mie
ferite/ e mi trasporterà/ verso orizzonti senza/ confini,/ verso dimore senza
mura./ So che qualcuno verrà./ Sicuramente” (Qualcuno verrà).
E’
arduo, pure per un artista sensibile e generoso come Giovanni Tavcar,
raggiungere un punto di stabile sintesi fra tali spinte confliggenti; e la
composizione può talora darsi, piuttosto che in una condizione di armonia
psicologica e affettiva pienamente realizzata, nella sofferta tensione
propositiva, nell’impegno idealmente costruttivo avvertito quale compito
storicamente e precipuamente assegnato alla specie umana: “Se facessimo
conto/di tutte le cose che non tornano,/allora dovremmo dichiararci/ battuti,
vinti, sconfitti./ Ma la nostra coscienza/ ci dice/ che dobbiamo insistere,/
proseguire/ nel nostro cammino,/ alimentare/ la gioia del nostro sorriso,/
affinché si diffonda/ e divampi/ anche sui volti/ di chi ci attornia./ Solo
così/ porteremo a compimento/ il compito/ che ci è stato affidato/ in questa
vita” (Compito).
Floriano Romboli
Giovanni
Tavcar, Tra speranza e angoscia, Guido
Miano Editore, Milano, 2021, pp. 82 ISBN-
978-88-31497-85-5.
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