Maria Rizzi su “Storie di una ragazza qualunque” di Luca
Manfredini - Graus Edizioni
Ho ricevuto in dono il romanzo di
Luca Manfredini, “Storie di una ragazza qualunque”, Graus Edizioni, referente I.P.la C. - Insieme per la Cultura - della Toscana
alta, per la precisione della Versilia, che lavora da moltissimi anni come
educatore e coordinatore di servizi in ambito sociale presso diversi centri di
aggregazione per minori, ed è socio fondatore delle Società Cooperativa CREA.
La storia è narrata in prima persona da Francesca, una ragazza che l’Autore ha
seguito ‘con atteggiamento paternalistico e protettivo’, come egli stesso
asserisce nell’epilogo del libro. La vicenda risulta di altissimo interesse per
comprendere i disagi dei giovani, dei nostri figli, forse anche i nostri.
Ritengo di particolare rilevanza che a scrivere questo libro sia stato un uomo.
Per quanto si tratti di una persona calata da sempre nel sociale, infatti,
Manfredini avrebbe potuto scegliere la vicenda di un ragazzo, non per maschilismo,
ma per la maggiore capacità di calarsi nei panni di un individuo del suo stesso
sesso. Nelle pagine conclusive il Nostro parla di Francesca e della sua libera
scelta di aprire le pagine della sua giovane, complessa esistenza per
condividerla con noi lettori, ma l’aspetto fondamentale del romanzo non credo
sia da cercarsi nella veridicità della storia, bensì nel fatto che, narrandola,
la protagonista abbia dato “un senso a quella maledizione che si chiama
vissuto”. La presentazione della giovane è dettagliata dal punto di vista
estetico e, soprattutto, dal punto di vista del suo mondo interiore. La nascita
è un paradosso: Mara e Piero, ricorrono alla fecondazione assistita pur di
diventare genitori e, il giorno del travaglio, il padre chiede al suocero di
farsi carico del viaggio e di assistere figlia e nipote. Lui è molto impegnato
con le partite della domenica, per cui si presenta in ospedale con un mazzo di
fiori quanto tutto è compiuto. Nel corso della crescita l’assenteismo dell’uomo
e la fragilità della madre rappresentano le problematiche costanti di
Francesca. Si sente diversa dalle coetanee, cerca disperatamente un surrogato
della figura paterna e del senso di famiglia nei genitori della migliore amica
e nel nonno paterno, che diviene il suo unico punto di riferimento fino al
giorno in cui si presenta a casa loro con un fucile per uccidere il figlio. I bambini cresciuti in famiglie
disfunzionali non imparano a riconoscere il proprio valore e a occuparsi dei
propri sentimenti. Il loro obiettivo diventa quello di proteggersi. La cattiva
comunicazione può essere la caratteristica più significativa di una famiglia
disfunzionale. Se, come nel caso di Francesca, uno dei due genitori è un
manipolatore, controlla nei modi più impensabili gli altri membri, facendo leva
sulla debolezza della moglie. Piero crea una barriera sociale tra lui e la
figlia imponendole sin da piccolissima di chiamarlo con il nome di battesimo e
non papà, e riempiendo la casa della sua assenza e del sentimento costante di
attesa diurno e notturno. Ovviamente si tratta di un individuo senza spina
dorsale, ma Mara è innamorata e in balia dei suoi comportamenti, e la figlia è
troppo piccola per comprendere: può solo sentirsi tagliata fuori dai sentimenti
di entrambi, anche se con il passare del tempo finisce per assumere un ruolo
protettivo nei confronti della mamma. Francesca si definisce in più
occasioni ribelle, in realtà è solo corazzata e sviluppa inevitabilmente
problemi comportamentali, ricorso ad alcool e sostanze stupefacenti, attaccamento morboso nelle relazioni
sentimentali e amicali. Manfredini ci conduce attraverso il viaggio nella
dolorosa storia della giovane scrivendo accanto a ogni capitolo un aforisma
tratto da canzoni, da espressioni di anonimi o di nomi celebri. Superba la
massima di Richard Bach, che introduce il capitolo “My family”: “Il legame che
unisce la tua vera famiglia non è quello del sangue, ma quello del
rispetto e della gioia per le reciproche vite. Di rado gli appartenenti ad una
famiglia crescono sotto lo stesso tetto”. La frase non è adatta solo a
Francesca, credo possa considerarsi specchio per noi lettori. Anche coloro che
sono profondamente legati agli affetti di sangue possono allargare la famiglia
tramite persone con le quali creano maggiori affinità. La ragazza cerca di
fronteggiare l’ingorgo affettivo che vive in famiglia ricorrendo anche alla
Parrocchia, dove incontra l’uomo definito solo come il Lui, che “diviene il suo
padre spirituale”. Francesca di lui “si fidava come si era fidata del nonno
paterno.” L’uomo si rivela un essere viscido e morboso come troppi e la
protagonista afferma: “E’ strano constatare che chi subisce un abuso si senta
in qualche modo colpevole.” Una verità dilaniante, che riguarda moltissime
donne e che spinge Francesca a non troncare il rapporto. Considera comunque il
Lui l’unico “padre che è riuscita a conquistare” e vuole provare a se stessa
che deve assolvere alla propria responsabilità non negandosi. La citazione che
Manfredini adotta per questa vicenda miserrima è di Albert Einstein e termina
con le seguenti parole: “Nella lotta per il bene morale, i maestri della
religioni debbono avere la capacità di rinunciare alla dottrina di un Dio
personale, vale a dire rinunciare alla fonte della paura e della speranza, che
nel passato ha garantito ai preti un potere così ampio.” Nell’ambito del
romanzo la vicenda di Francesca con il Lui riporta alla disfunzione familiare.
Le è stato inculcato che i suoi sentimenti non contano, quindi non vale, forse
non esiste. I predatori hanno campo fertile di fronte ai bimbi e ai ragazzi
cresciuti secondo questo assunto e mostrano la loro viltà, la loro natura di
vampiri affettivi. Drammatico e di autentico impegno civile il testo del Nostro
rivela quanto sia importante crescere in un ambiente sano dove esistano empatia
e relazioni emotive. La vergogna diviene il sentimento dominante nei figli che
hanno avuto famiglie assenti, anaffettive. Di fronte al male pensano sempre di
essere inferiori, indegni. Francesca a causa della tossicodipendenza viene assegnata
a una Cooperativa d servizio che le offre un lavoro nel sociale e la salva
dagli altri, ma soprattutto da se stessa. La ragazza soffre anche di anoressia,
malattia che diviene una cicatrice sul cuore, resta in eterno. A volte brucia,
ma se si riesce a guarire, non può riaprirsi. Inutile dire che l’anoressia e la
bulimia rappresentano sintomi di un dolore che non si vede, di un disagio
psicologico lungamente incubato, segno di una crepa nella vita familiare. Le
persone affette da questi gravissimi disturbi alimentari soffrono la fame
d’amore e non accettano il cibo come surrogato materiale del sentimento. Ed è
nella sessualità che emerge il principio al quale obbediscono le donne che
rifiutano di mangiare, tramite il sesso si illudono di avere tutto in pugno.
Francesca, infatti, lesbica sin da bambina, è incostante e affamata d’amore. Riguardo
alla sua natura evito ogni commento… mi limito a dire che mi sembra
sconcertante che ci fosse più libertà in materia di sessualità nel IV secolo
avanti Cristo. Heathcote Williams ha detto:“Esci da una donna e
spendi il resto della tua vita cercando di tornare di nuovo dentro.” La
nostra protagonista predilige le donne più grandi, ma si lascia trascinare
anche dalle coetanee, confondendo spesso il bisogno d’affetto con la storia che
può cambiarle l’esistenza. Cade nelle trappole che alcune donne le tendono,
senza rendersi conto che nessun rapporto la sta risarcendo del bene perduto.
Rossana le chiede prestiti cospicui che non le restituisce e la casa che riceve
in eredità dai nonni si trasforma in una comune. Francesca è generosa,
vulnerabile e tesa ad arco verso gli altri, ignara che gli amori non
corrisposti sono come i peggiori vizi: se non se ne prende la distanza
rovinano. Nonostante il vuoto vissuto nell’infanzia è accanto alla mamma quando
muore. Le chiude gli occhi e sopporta le pietre aguzze nel cuore, l’incapacità
di piangere, di perdonarla e di perdonarsi. Al padre riserva parole incise con
il fuoco: “se ci sono riuscita io, se sono sopravvissuta, se tu comprendi le
parole taglienti che ti sto regalando, puoi farcela e potrai farcela anche in
futuro. Anche senza il mio appoggio. Sì, potrai farcela anche tu Piero,
settantenne con il cuore di latta.” Francesca trascorre le stagioni inseguendo con
i piedi piagati, una storia che non sia di carta velina, e Manfredini le fa
asserire: “Devo bruciare tutto velocemente come in una maledizione e
l’impressione è che sia una modalità che cattura anche gli altri”: Trova pace
al Sert, servizio per le tossicodipendenze, dove trova una figura materna
reale, Enry, che nonostante una famiglia numerosa, riesce a giganteggiare nella
vita di Francesca, impedendole di lasciarsi andare. Il romanzo è attuale,
didattico, aspro, forte, realista e non potrebbe essere altrimenti visto che
l’io narrante è la protagonista. Si possono cogliere perle di poesia oltre che
nelle citazioni già citate, in alcuni capitoli, in particolare in quello sui
tatuaggi che Francesca ama e che rappresentano il racconto in immagini del suo
vissuto. Le sono particolarmente cari “L’usignolo e la rosa” tratto dal
racconto di Oscar Wilde; le due linee e una stella, che rappresentano il
paesaggio conclusivo de “Il piccolo principe”e, come avviene a tutti i giovani
che scelgono il paesaggio dei segni, ha il corpo coperto di essi. Manfredini
con questo testo segna una svolta nella sua verve narrativa, in quella parte
della natura che equivale al respiro, alla circolazione del sangue. Mediante la
sua trascinante prova letteraria contribuisce a costituire il patrimonio di
memorie e di esperienze che definiscono un’intera tradizione culturale. Chi
conosce la natura umana sa quanto sia difficile raccontare delle esperienze
evitando il giudizio. Luigi Pirandello affermava che “Un romanzo si scrive o si
vive”. Mi sento di dire che l’amico Manfredini in questo romanzo compie
entrambe le esperienze in modo eccellente.
Maria
Rizzi
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