LA BALLATA DELLE MADRI
Un testo fin troppo espressivo ed
efficace nel suo messaggio lanciato ad una Roma periferica, reso costantemente
attuale ed evocativo di una figura di donna assai ricca di storie e di poesia.
Una lucida e violenta analisi dell’Italia
offertaci da Pier Paolo Pasolini che, nell’intera raccolta “Poesia in forma di
rosa”, offre a noi lettori l’opportunità di aprire gli occhi grazie alla sua
arte non del tutto fine a se stessa. Un ritratto delle nostre madri, elogiate e
dipinte con tratti variopinti che contrastano col grigiore della quotidianità
cui siamo dediti. Madri lontane dalle visioni di creatrice, scrigno d’istinti e
di amore concepito, quanto piuttosto madri come frutto e strumento di una
società borghese e che quindi, contro i loro ideali, contro la loro volontà e
contro il loro passato di bambine umili, educano alla crescita una nuova
generazione di mediocri, timorosi e famelici uomini borghesi.
Madri vili, madri mediocri,
servili e feroci. Madri che amano, immerse nel nostro odio, nei nostri
compromessi nella nostra viltà che è sempre alle nostre spalle pronta a
conoscerci. Madri quindi rese povere, deturpate e invecchiate dalle loro paure,
dal continuo timore per la loro impotenza e che amano “i resti della festa” che,
forse involontariamente, offriamo.
Madri che diventano feroci nel
momento in cui trovano un adattamento ad un ambiente che non compete loro e lo
rammentano ai loro figli, gelose di conservare un segreto nel loro petto degno
di una “integrità di avvoltoi”, un’anima non compromessa da nascondere e da
difendere per sfruttare il nostro diritto di camminare. Vili perché ci
preferiscono “superbi”, ambiziosi e orgogliosi piuttosto che dimessi e immobili
nelle nostre lacrime; uomini che rispondono alle domande dell’esistenza vivendo
in una realtà che ha fatto della vita un dolore, il “selvaggio dolore di essere
uomini”.
RAMPINI-COMMENTO
Potrebbero esserci mille motivi per cui
stasera ce l’ho tanto con voi, vi sento intenti scrivere a macchina nei vostri
uffici, con le vostre sigarette e le vostre maniche di camicia. Il vostro
sorriso quando vi incrocio nei corridoi sembra conciliante e cordiale, ma
quando vi osservo e non ve ne accorgete voi avete lo stesso aspetto amichevole
della mia ulcera. Mi chiedo spesso che razza di uomini voi siate.
Ma soprattutto mi chiedo: che madri avete
avuto? Se ora le vostre madri vi potessero guardare in questo vostro mondo a
loro sconosciuto e lontano, perché la maggior parte delle vostre madri sono
rimaste al paese o in campagna, non hanno idea di quel che siete diventati, di
cosa fate, perché lo fate e cosa pensate. Quale sarebbe l’espressione dei loro
occhi, se fossero lì proprio ora mentre scrivete i vostri “pezzi” imbevuti di
maniere eleganti, scorrevoli e densi come il miele solo per chi per il vostro
interesse amate lisciare, ma così ruvidi, spietati e ciechi contro chi non la
pensa come voi? Voi scrivete queste amenità e passandole ai vostri redattori
per la stampa, secondo gerarchia, mi chiedo se le vostre madri capirebbero chi
siete veramente.
Le vedo come se fosse ora le vostre madri,
esse hanno la viltà disegnata nel viso, ma non una viltà qualsiasi che ognuno
può riconoscere facilmente per le strade, negli ospedali, nelle scuole o negli
uffici, ma una viltà scolpita dal tempo in ogni ruga del loro viso. Ed ora le
facce pallide delle vostre madri appaiono come sfingi, impenetrabili e
disperatamente lontane da ogni ragione del cuore, sedimentate sotto chilometri
di cieco e aprioristico moralismo.
Poverine, queste vostre madri, così
preoccupate che i loro figli si sottomettano con cura quando vanno a chiedere
un posto di lavoro, che non alzino mai la cresta, che non abbiano a suscitare
invidie, perché in fondo bisogna sempre guardare alla pagnotta, ma soprattutto
per imparare a farsi scudo di ogni sentimento che permetta almeno un lampo
fortuito di pietà.
Sono così mediocri queste vostre madri,
sempre così pronte a darvi quegli esempi che esse stesse hanno imparato con la
remissività di dolci bambine, che da sempre guardano il mondo nella loro
crudezza e non si chiedono mai se nell’esistere possa esservi gioia o
dolore. L’ho ben presente la mediocrità delle vostre madri, voi bambini davanti
ai loro visi seri l’unica forma d’amore che avete conosciuto è quello muto
delle bestie, che pure le bestie un cuore ce l’hanno, guardano i loro cuccioli
e li accudiscono con tenerezza. Ma sappiate che il cuore ammutolito delle
vostre madri ha sempre avuto buone orecchie, perché per avere un cuore di
pietra devi pur sapere cosa vuol dire un cuore tenero, quindi avverti anche tu
i suoi richiami, ma vi assisti impotente, schiacciata da una volontà superiore.
Per questo vi dico che le vostre madri
sono abituate da secoli ad essere serve e a chinare il capo. E’ vero, per fare
un figlio è necessario fare l’amore, ma per queste vostre madri il fare l’amore
è sempre stato come nutrirsi di nascosto degli avanzi della festa, mangiare in
fretta e poi scappare via per la vergogna. In questo modo vi è stato insegnato
come il servo possa essere felice solo facendo le scarpe al suo simile, ed è
peggio di una guerra tra poveri, perché infine anche i poveri riescono a
dividere qualche misero resto. Ma chi non ha mai conosciuto altro che l’essere
servo tradisce in silenzio il suo vicino, e lo fa con la gioia e la sicurezza
di chi è convinto di esser nel giusto.
Quindi madri feroci, impegnate
costantemente a difendere il poco che hanno, e quel poco che hanno dà loro una
gioia borghese, che dà loro un confortevole senso di normalità ed uno stipendio
che arriva regolare ogni 27 del mese. E lo fanno con pervicacia, con una rabbia
assurda e sproporzionata come di chi si vendichi di un sopruso o sia stretto
sotto chissà quale assedio. Queste madri feroci vi hanno inculcato ben bene che
l’unica cosa importante nella vita è sopravvivere ad ogni costo, di pensare
solo a voi e di non avere mai pietà per nessuno. Perché se un avvoltoio prova
pietà per la sua vittima è certo che presto o tardi morirà di fame. Anche gli
avvoltoi hanno un loro senso morale e voi dovete custodirlo con cura!
Ora eccole là le vostre madri: vili,
mediocri, serve e belve feroci, è per questo che non si vergognano nel sapervi
impegnati in ogni specie di ignominia. Anzi, esse vanno fiere di voi e così
deve andare il mondo, senza mai una speranza di cambiamento. Un luogo di eterni
dolori, in cui si è resi fratelli da un comune senso di distruzione, di lotte e
guerre sanguinose, e dal rifiuto ormai diventato viscerale di tentare una volta
tanto un modo diverso di essere uomini. Perché in fondo un modo ci sarebbe:
sarebbe sufficiente imparare a vivere il nostro “selvaggio” istinto naturale.
Ma non ne siamo capaci, il Potere e il Conformismo ci danno l’illusione di
poter vivere e morire con meno dolore.
SINATRA-COMMENTO
Dopo
aver letto più volte la “Ballata delle madri”, ho riflettuto sulla possibilità
che essa debba essere considerata in relazione ad un “contenitore” molto più
ampio. Mi spiego meglio. Leggendo questa poesia mi è venuto in mente il
discorso fatto quel giorno a lezione sul contenitore e sull’importanza di
imparare a starci dentro. Ma quale contenitore? Perché la mia sensazione è che
stiamo parlando di più contenitori collocati uno dentro l’altro come una
matrioska.
A
questo ricordo ne ho associato un altro. Il professore, quel giorno a lezione
(il 2 novembre), ha fatto una premessa alla poesia. Egli ha preferito leggerci
Pasolini quella mattina piuttosto che l’articolo pubblicato su “La Repubblica”.
A
questo punto, scelgo di scrivere un resoconto sul perché mi siano venute in
mente queste cose.
Chi
sono le madri a cui si riferisce la poesia? Sono madri giudicanti, preoccupate,
vigliacche, codarde, fredde, impotenti, protettive, egoiste. Chi sono i figli
di queste madri? Sono schiavi, servi, persone accondiscendenti, egoiste.
Ma
di quali madri stiamo parlando? Come Edoardo ha scritto nel suo resoconto, è
irritante questa generalizzazione. Non rivediamo le nostre madri in quelle
descrizioni, neanche le nostre nonne. Forse qualcuno, però, ne ha rivisto dei
tratti comuni.
Ma,
nell’ultimo capoverso, Pasolini dice:
“È cosi che vi appartiene questo mondo:
fatti fratelli nelle opposte passioni,
o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
a essere diversi: a rispondere
del selvaggio dolore di esser uomini.”
Certamente
è una critica, un giudizio aspro che Pasolini rivolge nei confronti della sua
epoca, espressione dello sconforto per una civiltà perduta. Penso che nella
nostra società odierna, questo stato d’animo che ha ispirato Pasolini, possa
essere rivisto in molti italiani delusi da una politica fallimentare, da un
economia in bilico, da una cultura fin troppo accondiscendente e tesa a “non
offendere anime privilegiate” e caratterizzata dal “rifiuto profondo a essere
diversi”, dalla non accettazione della diversità.
Non
siamo, forse, tutti inseriti in un contenitore molto più grande chiamato
Italia? Facciamo tutti parte di questo contenitore. Questo mondo ci appartiene
e siamo protagonisti delle vicende che accadono al suo interno. Il nostro
relazionarci con il contesto inevitabilmente ne determina dei cambiamenti. Così
la politica e le elezioni; l’economia e la nostra “abitudine” a non chiedere la
ricevuta fiscale; i tassi che cadono in picchiata minacciando i nostri conti
correnti; sono tutti effetto delle nostre relazioni. Mi viene in mente
una nostra precedente lezione con il professore Montesarchio in cui si parlò di
“cultura mafiosa”. Forse bisognerebbe iniziare a rifletterci. Riflettere quindi
sulle nostre modalità di stare dentro il contenitore Italia. Un Italia questa,
di cui noi siamo i figli.
In
precedenza avevo accennato ad una matrioska. Penso che all’interno di questo
grande contenitore, esistono altri contenitori più piccoli, ma facenti parte
del sistema, del contenitore culturale più grande. Mi riferisco all’Università,
alle lezioni. Noi che ci definiamo “un gruppo in formazione”, facciamo fatica a
capire che siamo noi a dare senso al contenitore cui apparteniamo. Siamo noi e
le nostre relazioni nel blog a dare senso al contesto. Credo che sia questa
l’importanza di commentare i post del gruppo, cosa che fin’ora io non ho fatto
ma che mi propongo di fare. Una riflessione, questa, propositiva riguardo alla
possibilità che noi abbiamo di intervenire nei contesti in cui viviamo tramite
la relazione.