Dopo la splendida combinazione di Luna Blu e di Superluna regalataci nei cieli delle ultime due notti d’agosto, addentriamoci in una breve escursione dei suggestivi pleniluni letterari di Federico García Lorca. Che sia “spalancata”, “gitana”, “di pergamena”, che abbia “denti d’avorio”, “seni di duro stagno”, o addirittura abbia “comprato quadri alla Morte”, la luna lorchiana, duplicatasi nello strano titolo rituale della Romanza della luna, luna (in Romancero gitano), impregna e diremmo in un certo senso narcotizza l’intera produzione, sia poetica che teatrale, dello scrittore granadino. Divinità cosmica e ctonia, nulla serba più della splendente Selene dei romantici, ghermendo all’essere umano ogni barbaglio di agognata felicità. Triste, sola, perversa, ammaliatrice, nefasta, ossessivamente associata al colore verde, che in Lorca è premonitore di morte, la luna dei suoi versi e del suo teatro esige incessanti sacrifici, e, quale divinità esoterica avida di sangue, si adopera, ossimoricamente “lubrica e pura”, affinché il destino dell’uomo s’intrecci senza sosta con una dimensione mitica per ostacolarne il libero cammino, diventando protagonista antropomorfa tra i gitani ipnotizzati dal suo potere malefico. La correlazione costante tra i due piani della realtà lirica del grande poeta spagnolo, il piano cosmico e quello umano, attua un indissolubile, inesorabile legame sinistro e perpetuo con la luna, legame che a livello strutturale si traduce nello snodarsi di coppie oppositive in epifora (“Il bimbo la guarda, guarda. /Il bimbo la sta guardando”, “L’aria la veglia, veglia. / L’aria la sta vegliando”, ad esempio, nella celebre Romanza della luna, luna) e, a livello tematico, nel ricorrente stato di sonnambulismo in cui versano i personaggi lorchiani, marionette manovrate dalla volontà annientatrice di questo simbolo archetipico non certo estraneo alle credenze gitane di cui si alimenta Lorca e che l’indagine antropologica ci addita largamente diffuso in molteplici culture. Basti pensare al motivo dell’uomo-lupo, al “mal di luna” con cui si designava l’epilessia, o all’origine stessa della parola “lunatico” che esprimeva una forma di sovreccitazione nervosa derivante dall’esposizione prolungata alla luce della luna. Perfino nella Bibbia è adombrato il nefasto influsso del nostro pianeta il cui splendore si riteneva potesse essere causa di cecità. Non a caso Jung e Kerényi definiscono con il termine “mitologema” il principio primo, l’archetipo, la sostanza di una “primordialità senza tempo”, di un simbolo trasversale a più culture e a più culti in virtù delle sue “rinascite eternamente ripetute”. Ma, senza volerci addentrare in affascinanti implicazioni antropologiche o mitologiche, è chiaro come erompa in Lorca questo substrato di irrazionalità e folclore ancestrale, laddove “folclore” rappresenta l’antitesi esatta che al termine attribuivano i romantici. La luna lorchiana preannuncia eventi luttuosi, saturando con una colorazione non solo bianca, ma più spesso verde o nera o rossa, l’intera natura che a poco a poco scatena la sua volontà fino ad annichilire il libero arbitrio dell’uomo. Ecco che quindi l’Andalusia di Lorca si fa terra visionaria, atemporale, universale, “anti-pittoresca” (come lui stesso la definì), antitetica a smaccati bozzetti cartolineschi di posa flamenca. Un’Andalusia vegliata dalla personificazione di una luna trina (come trina essa era nella mitologia greca, nella triplicità di Artemide, Selene ed Ecate) che al suo aspetto falsamente materno sovrappone lussuria e crudeltà infera, rapendo e immolando bambini al suo divino “candore inamidato” (di nuovo la Romanza della luna, luna, retaggio di remote credenze popolari che attribuivano alla luna il rapimento di innocenti). Lorca ci narra di una luna che mai sazia di sangue si tinge di rosso reclamando a viva voce il sacrificio cruento: “Ma che non s’attardino troppo a morire. Che il sangue / mi sciolga tra le dita il suo delicato sibilo” (Nozze di sangue).
Né d’altro canto è
casuale la simbiotica interferenza ravvisabile nell’opera lorchiana tra la luna
e il toro. Il toro, animale sacro nell’antica civiltà tartesica (l’odierna
Andalusia) e notoriamente presente nella mitologia greca con l’episodio del
ratto di Europa, attua a Creta una fusione con la luna, e, in quanto
vittima-divinità sacrificata dal cui sangue si origina la fertilità della
terra, si dipanerà poi nel rituale sanguinario della “corrida”, evoluzione
iberica della “tauroctonia” praticata nella religione mitraica. Ma non essendo
certo ora nostro obiettivo lo studio stratificato di antichissimi culti
serpeggianti nella tanto discussa arte della tauromachia, limitiamoci, come
poc’anzi suggerito, alla inattesa contaminazione tra toro e luna che affiora
nei versi lorchiani, a volte mutuata dal simbolo parallelo della “vacca”, come
nei famosi versi dedicati all’amico torero morto nell’arena: “La vacca del vecchio mondo / passava la
triste lingua / su un muso di sangue / sparso sull’arena”. E, in
contrapposizione, “Di’ alla luna di
venire / ché non voglio vedere il sangue / di Ignazio sull’arena” (Lamento per Ignazio Sanchez Mejias).
Altrove, nella sua fase di falce calante o crescente, la luna è assimilata
simbolicamente al corno del toro. “Nella
luna nera, / un grido! e il corno / lungo del falò. / Cavallino nero. / Dove
porti il tuo cavaliere morto?” (Canzone
di cavaliere). Ma sempre, a raggelare natura ed esseri umani, il potere
invincibile della luna opera uno stato d’incantamento, come esplicitato nel
titolo della bellissima, enigmatica Romanza
sonnambula nella quale, con tono fantasmagorico che dissolve lo stesso
ritmo narrativo della lirica, si profila la morte aberrante della giovane
gitana che, dondolando inerte sulle acque di un pozzo, è stata immolata dalla
divinità lunare: “Verde che ti voglio
verde. / Verde vento. Verdi rami. / La barca sul mare / e il cavallo nella
montagna. / … / Verde che ti voglio verde. / Sotto la luna gitana, / le cose la
stanno guardando / e lei non può guardarle. / … / Sul volto del pozzo, /
ondeggiava la gitana. / Verde carne, capelli verdi / con occhi di freddo
argento. / Un ghiacciolo di luna / la sorregge sull’acqua / … / Verde che ti voglio verde. / Verde vento.
Verdi rami. / La barca sul mare / e il cavallo nella montagna”.
Il maleficio lunare si è ancora una volta compiuto nel suo
oscuro rituale.
Angela Ambrosini
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