E ti rivissi, vita,con un sentire lieve e tanto amato che in ogni fatto lieto o meno lieto,ma scampato, vidi un superbo dono
Pagine
sabato 25 novembre 2023
Antonio Bologna legge: " Elegia per me stesso " di Rodolfo Vettorello
Considerazioni isagogiche
su
Elegia per me stesso
di Rodolfo Vettorello
Chi in punta di piedi entra nella poesia di Rodolfo Vettorello si trova
davanti un diagramma spaziale-evolutivo, che apre il lettore a una nuova
dimensione antropometrica, derivata, in gran parte, dal perenne assioma
ontologico, presente in maniera dominante nell’alveo della riflessione
tanatologica, nata dalla sempre presente, e ossessiva, lezione eraclitea. Questa
idea già presente, e ampiamente trattata da Leopardi e acutamente sviluppata da
Foscolo nel suo capolavoro lirico-poetico, trova degno e felice epilogo in
quest’opera di Vettorello, con la quale, in un avvenire non troppo remoto,
dovranno cimentarsi intelletti di ben altra levatura, per compiti ben diversi.
Se Foscolo nel carme Sui sepolcri
dal continuo fluire del tempo e degli elementi aveva tratto spunti di intenso
lirismo, che si possono riassumere in questa manciatina di versi:
e una forza
operosa le affatica
di moto
in moto; e l’uomo e le sue tombe
e l’estreme
sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo,
nei
quali serpeggia latente, ma terribilmente evidente col suo spettrale potere Thanatos,
nella silloge vettorelliana la morte è presente in quasi tutte le
liriche e convoglia l’animo e la riflessione dell’attento lettore verso
orizzonti pregni di infausti, ma reali presagi. Nel raffinato componimento
poetico l’autore non soggiace al trito e stucchevole sentire comune, ma da
considerazioni meramente riduttive come aquila si eleva, per spaziare dalla
cristallina purezza dell’infinito su quella forza operosa, cui soggiace
in modo ineluttabile l’uomo col suo destino.
Su una tomba nella chiesa
di S. Francesco, a Fondi, anni addietro ho letto con molta attenzione un
epigramma, che ha lasciato una traccia indelebile nel mio animo:
Tendimus
huc omnes: metam properamus ad unam;
omnia sub leges mors vocat atra suas.
Che si può rendere: «Tendiamo tutti verso questo luogo: andiamo
in fretta verso un’unica mèta; la tenebrosa morte raduna tutti i viventi sotto
le sue leggi». È, questo, il monito, che con cruda verità la Natura rivolge
all’uomo: all’ignoto autore non sfuggiva il potere tanatocentrico comunemente
concepito.
Dopo la lettura della significativa silloge, che invita a
riflettere su una realtà sempre presente, l’uomo sembra ebbro del nettare degli
dei omerici con aggiunta di nepente; e molti, impressionati dalla lirica
compostezza e dal messaggio, veicolato dal vigoroso afflato poetico, se ne
stanno tristi, cupi, preoccupati, come se fossero stati condotti via con la
orza dall’antro di Trofonio. Gli stretti vincigli della Natura, infatti,
angustiano il loro animo traballante, spaventato, incerto per la cupa
prospettiva del futuro non adeguatamente preparato dal presente, che, come
insegna Seneca, scorre incerto tra mille occupazioni, per lo più inutili,
perché nessuno è veramente padrone di sé e del suo tempo.
Immerso nel turbinio di
mille faccende, continua l’antico filosofo, nessuno dà giusto valore a tempo e
alla sua giornata, e non si rende conto come egli muoia giorno dopo giorno. L’uomo,
come ripete Vettorello, che certamente ha assimilato il dettato senecano, vive
nella continua illusione che la morte sia un evento destinato a un futuro lontano,
quando è sotto il suo sguardo, e gran parte di essa è già alle sue spalle.
Tutto il passato è in potere della morte. Ma Vettorello rende attuale l’antico
insegnamento, quando nella lirica La rimpatriata scrive:
Il
tempo che è passato da quei giorni
che
si giocava insieme nei cortili
ha
lavorato su di noi con cura
per farci diventare quel che siamo …
La
vita si costruisce e demolisce
le cose e le persone a suo piacere.
Nell’aria rarefatta del puro lirismo, che si infutura in
un archetipo spesso sfuggente ed evanescente, il poeta riporta il lettore alla
realtà del presente, che si potrebbe individuare, rovesciando in modo adeguato
i rapporti, nel carpe diem oraziano. È proprio questo tema di fondo che
inciprignisce e costringe il lettore a rugghiare per contrarietà, per lo più
mal gestite.
Significativo, quindi, è il titolo Elegia per me solo,
che Rodolfo Vettorello ha voluto dare alla pregevole silloge. Il critico, per
lo più, concentra l’attenzione sul primo lessema elegia e cerca di
trovare agganci e riferimenti con la poesia fiorita in Grecia e il Roma. Sotto
questo aspetto, degna di nota è la dotta e ben documentata Prefazione,
vergata da Santo Gros-Pietro, che va, necessariamente, tenuta presente per la
profonda dottrina e lo stile impeccabile; può bastare a sollecitare il lettore
per un primo approccio, per contestualizzare un genere letterario, che
nella tradizione letteraria ha trovato geniali esponenti e visioni diverse, pur
nell’inveterato solco della tradizione.
Per Vettorello l’elegia non è flebilis,
secondo la felice intuizione di Ovidio, perché non effonde lacrime di dolore
per l’abbandono della donna amata o per un amore non corrisposto. Il poeta
svuota il lessema dall’interno e lo riporta a origini e luoghi più remoti nel
tempo e nello spazio, da dove è partita, per giungere prima in Grecia e, successivamente,
a Roma. In questo senso, almeno esteriormente, si potrebbe accostare a Callimaco,
ma il discorso condurrebbe molto lontano e metterebbe in ombra lo sforzo e
l’originalità del poeta, il quale si riallaccia direttamente al genere della
lamentazione, presente in tutte le letterature orientali, come quella, più documentata,
ugaritica ed ebraica.
Tralasciando disquisizioni
storico-letterarie, si richiama l’attenzione del lettore sulla natura
antropologicamente dialettica della poesia vettorelliana, che già nella lirica
incipitaria, Le infinite agonie, traccia l’iter del percorso
poetico, nel quale pone in piena evidenza la sua polarità perfettamente
speculare rispetto ad altre raccolte, pur pregevoli. Il carme, sapientemente
intessuto con accorta e ben studiata disposizione metrica, nella quale sintagmi
e lessemi formano figure indelebili e sfumano nel non troppo velato lamento
sulla fuga del tempo e della vita; condensa in un’amara sequenza di versi il
già riportato sintagma foscoliano:
Agonie
della vita;
un
giorno dopo l’altro si consuma
una
nuova agonia,
una infinita
di
anelli una catena disumana.
La
morte ci umilia e ci devasta
annulla
ciò che siamo
e
le memorie
di un velo di silenzio le ricopre.
Il poeta non a caso apre
la lirica, e con essa la silloge, con un sintagma estremamente significativo,
l’agonia, gli attimi che precedono il trapasso e avviano in modo irrimediabile
alla fine della vita terrena. Già da questo primo accenno, cui bisogna necessariamente
sottendere un velato pessimismo di derivazione leopardiana, nella tanatocrazia
vettorelliana, come nel suo referente immediato, è del tutto assente quanto ha
caratterizzato e plasmato la cultura italiana ed europea negli ultimi due
millenni: la speranza e la credenza nella vita oltremondana. Questo
concetto, molto dibattuto sotto l’aspetto sia filosofico che teologico negli
ultimi due secoli, anche se non è mai accennato in modo esplicito, di tanto in
tanto emerge e rivela, seppur velata, l’intima aspirazione di un ego,
che si dipana nei rivoli dell’umana sofferenza e cerca una pur terrena
immortalità. Per cui molta attenzione richiede l’anaptitico emistichio e le
memorie, che, in un intenso endecasillabo fratto, rivela l’intima
sofferenza, causata, come dirà qualche verso dopo, dal
sottile malessere
gentile
ch’è malattia del
vivere, assassina.
In questo distico, preceduto da acute riflessioni sullo
svolgimento quotidiano della vita, si avverte in modo palese l’ormai noto, e
abusato, sintagma montaliano, che tanta fortuna ha incontrato presso ingegni,
che potrebbero starsene tranquilli nella fresca grotta di Trofonio e mettere da
parte il nepente.
Come per Montale, anche per Vettorello il percorso della
vita è piuttosto accidentato, per la continua presenza di dolori, di
sofferenze, di imprevisti. Tra gli altri, la vera poesia si assume il compito
di analizzare e portare a conoscenza di tutti la sofferenza, che travaglia
l’animo dell’uomo, nella segreta speranza che trovi la possibilità di porvi rimedio.
Ma questo, di solito, non avviene, perché non esiste una ricetta o una formula,
che, per mezzo del linguaggio poetico, di solito scarno ed essenziale, possa
risolvere il dolore o la conseguente crisi esistenziale.
Per esprimere questo male e per portarlo alla conoscenza
del lettore trofoniano, Vettorello si serve dell’anafora, della climax per lo
più ascendente, della metafora, dell’anastrofe e dell’allitterazione. Nel
calcolato gioco di luce e ombra, negli sfumati chiaroscuri, nelle fuggevoli
reticenze, in modo non diverso da Montale, Vettorello con visione e intento
innovativo propone la sua elegia sull’essere contemporaneo, che sfida
l’ardua scalata della vita, con la certezza che la sua fine è imminente, perché
la morte gli è accanto e cammina con lui.
Più difficile, almeno per
chi non è aduso a leggere la poesia, è cogliere l’io lirico, introiettarlo
e assumerlo come oggetto di riflessione, di meditazione, di miglioramento: è un
efficace antidoto contro la sofferenza, che in modo più o meno palese striscia
tra le pieghe della psiche umana. Solo in questo modo l’oscura e incombente
tanatocrazia perde il suo mordente e sfuma come nebbia del mattino nell’alba
luminosa della propria coscienza di essere esistente, parlante, cogitante. La
fiducia in sé sostituisce la fede in Dio e Dio stesso, come nella
medesima lirica incipitaria il poeta, non senza rancore e delusione, dice con
orgoglio:
Dio se
mi ascolti
lascia
che ti dica
che
ti respingo.
voglio
che mi basti
la mia coscienza libera e nient’altro.
Il poeta, con determinata decisione,
rivendica la propria libertà di coscienza, cui si accompagna, come corollario
necessario, la libertà di pensiero e di religione. In linea con le più recenti disposizioni a riguardo,
stabilite da autorità internazionali e adottate, in linea di massima, da un
nutrito gruppo di nazioni, Vettorello si inserisce in quest’alveo, per
determinati aspetti, ancora vergine e si rende interprete di un messaggio, che
travalica i confini personali e internazionali, e diviene, nella pletora
ciangottante di buffi e coprolitici verbigeratori il corifeo dell’eguaglianza
tra gli uomini, perché la morte è, per se stessa e per ciò che rappresenta,
l’uguaglianza personificata. Alle ingiustizie della vita, prima o poi, rimedia
la morte, che non guarda in faccia a nessuno, non per vendetta, ma per la sua
disposizione naturale. Blaise Pascal, infatti, nel dotto e istruttivo volume, Pensieri,
nei riguardi della morte scrive: «Tutto quel che so è che debbo presto morire; ma quel che
ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare». L’Uomo,
infatti, come si evince dalla lettura della silloge vettorelliana, vive come se
non dovesse mai morire e, forte della sua presunta supremazia sui propri simili
e sugli altri esseri, si abbandona senza remore a ogni sorta di violenze e
villanie, che non commetterebbe, se si fermasse un attimo a riflettere che a
breve deve presentarsi davanti all’inevitabile tribunale della morte, la quale
non concede sconti a nessuno.
Nella sua speculazione
filosofica, anche se rudimentale e appena accennata per non incidere in modo
negativo sulla sensibilità del lettore, Vettorello connette la morte alla
riflessione filosofica e cerca di edulcorare, pur con un linguaggio scarno e
realistico, il problema e della morte e del destino. Difatti la riflessione
sulla morte, come evento naturale non diverso dalla nascita, è stata il
principale stimolo per molti filosofi. Arthur Schopenhauer, ne Il mondo
come volontà e rappresentazione, che Rodolfo Vettorello
ha certamente letto, scrive che la cognizione sperimentale della morte, non
dissociata dalla vista del dolore e della miseria, che caratterizza la vita di
tanti esseri indifesi, ha
senza dubbio impresso l’impulso più forte alla riflessione filosofica e alle
spiegazioni metafisiche del mondo. Del resto se la nostra vita fosse senza fine
e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo
esista e perché sia costituito proprio così, perché tutto cadrebbe nella
banalità e nell’ovvietà.
Movendo su questo sentiero, per certi
aspetti impervio e di difficile soluzione, Rodolfo rinnova il concetto di elegia
e le apre un altro orizzonte, in parte ignoto sia ai Greci, sia ai Romani. Per
avere un’idea delle innovazioni apportate al genere letterario dal poeta
milanese, accanto all’io lirico, che scandisce il ritmo espressivo e
compositivo prima del verso e, in un secondo momento, della lirica bisogna
sfilacciare la tramatura narrativo-semantica ed esaminare i singoli lessemi,
inglobati in strutturati e sostanziosi sintagmi, resi fluidi e fruibile
dall’impeccabile struttura metrica, per la quale si può considerare il
navalastro della più alta espressione poetica contemporanea.
Consapevole dell’inesorabile
scorrere del tempo, Rodolfo vi ritorna con accorata insistenza in tutta la
silloge, come se il virgiliano «sed fugit interea, fugit irreparabile tempus» gli martellasse di continuo
nella mente e gli procurasse una certa ansia e inquietudine, come si può evincere
dal messaggio, che vivifica la lirica Non è giunta ancora, della quale
qui si riportano solo i più significativi lacerti:
Mi dico che sarà l’ultima volta,
me lo dico sovente,
come si fa con ciò che si vorrebbe
ripetere per sempre, all’infinito.
Andare via da questo luogo d’ora
avrà il sapore amaro dell’addio
ed ogni addio nasconde la paura
che andarsene sia un modo di morire,
sia pure solo un poco e a
poco a poco….
Potrei forse rinascere alla vita
se avessi la speranza che davvero
l’ultima volta non è ancora
giunta.
Anche a un’attenta lettura
della lirica, riferita solo in parte, sembra che il poeta voglia richiamare
l’attenzione del destinatario con la martellante insistenza sull’imminenza
della morte e sull’intensità della sua bruttezza. Questa realtà, che l’uomo
sperimenta e tocca con mano in ogni momento della giornata, non viene collocata
in un ambente determinato, nel quale l’Uomo, oggetto e soggetto di questa
tremenda realtà, fornisce la misura per gli altri. Essa diventa tramite d’una
realtà e intensità febbricitante. La sua rappresentazione, reiterata con crudo
realismo e un sotteso e nervoso timore dell’aldilà, si insinua sensibilmente
nell’anima e crea sconcerto, confusione, incertezza; diventa una straziante
lamentazione nel bugno della silloge, che avvince il lettore in attesa di
luminosi squarci di cielo. Ma anche l’aspetto della bruttezza, che turba i
sogni soprattutto di chi ha varcato una certa età, rivela momenti di intensa
liricità, che schiudono la mente a respiri liberatori soprattutto quando alle
sofferenze ordinarie non si riesce a trovare una via d’uscita. E domina in
questi casi la bellezza, che permette di percepire il profondo e rasserenante
respiro della Natura, per lo più intesa e proposta in senso leopardiano. Sono,
questi momenti, residui reali dei veri componimenti poetici.
Non solo nella silloge in
oggetto, ma in tutte le raccolte poetiche di Vettorello si riscontrano belle
pericopi, accattivanti per le immagini o anche per il canto della lingua.
Sorprende, però, che essi non stanno soli, non formano un unico in sé, ma sono,
necessariamente, parte di un’unità nella quale il poeta fonde pressanti
richiami alla fugacità della vita e alla bruttezza del male di vivere. Bello e
brutto, sebbene siano nella loro obiettività categorie opposte, nella poesia di
Vettorello non forniscono stimoli contrastanti e inquietanti, perché sono
accantonati, come la differenza tra vero e falso.
Lo stretto ed inevitabile
accostamento del bello col brutto produce un’illuminante dinamica di contrasto,
che diviene di volta in volta l’elemento più importante, l’asse che unisce
mittente e destinatario. È ovvio che in Vettorello il brutto, la visione
pessimistica della vita, il costante richiamo alla morte, diviene il tramite,
col quale con innata maestria e mano sicura conduce sull’eccelsa vetta del Parnaso,
a diretto contatto col puro cielo della divinità ispiratrice.
Il lettore, dopo pochi versi,
si accorge subito che il brutto di Vettorello non è il grottesco o l’orrido,
che ha caratterizzato per un certo periodo la letteratura italiana, e non solo.
Si pensi al Tersite dell’Iliade o all’Inferno di Dante, alla
produzione poetica dell’alto medioevo, la quale raffigurava brutto chi non
entrava nel novero dei cortigiani. Il diavolo, ovviamente, era brutto, e rimane
ancora brutto. Vettorello, inserendosi sulla scia di Novalis prima e poi di
Rimbaud, il brutto diviene un tramite interessante e necessario, per andare
incontro e comprendere l’intensità e l’espressività della volontà artistica,
che con la sua meliggine vellica il potere indagatore e immerge l’io lirico
narrante nell’animo del fruitore. Con la sua assiologia la poesia di Vettorello
ora serve, ora desta, ora allontana l’energia sensitiva, che aspira a una
lettura obiettiva del reale e del sensibile, cui si avvicina e cerca di
avvicinare. La produzione lirica contempla tanto i contenuti, quanto, e
soprattutto, le relazioni, che ingenerano tensione sovraoggettive. Accenna al
brutto della morte, perché con esso, come sfida al naturale senso del bello,
insito nella vita, produce quella drammaticità sorprendente, che deve
stabilirsi tra l’io lirico del poeta e il lettore.
La
bruttezza e la deformità della morte, quale si riscontra nella poesia di
Vettorello, è tratta dalla realtà, dalla diretta esperienza ricavata
dall’esistenza quotidiana di un mortale qualsiasi, il quale vede la nascita
d’una nuova vita e, in controluce, la morte, che accompagna il neonato fino al
suo trapasso. Mancano nella silloge gli Esseri plurali del dovunque e del
sempre: protagonista è l’uomo, la donna, il bambino, che non sono scheletri
informi e cupi, ma persone vive e palpitanti, come quando, parlando in prima persona,
il poeta dice in Ingannare la morte:
Amo i
sogni di altrove
e cambiare ogni volta orizzonte
per riuscire a ingannare la morte.
Non mi trovi, se spera
di trovarmi nel luogo che
crede…
Tutto questo soltanto
per eludere ancora la morte.
L’io lirico si esprime,
in questo caso, con scherno, con disprezzo, con stizzosa alterigia davanti a
una realtà assiologica, che viene calata nella quotidianità con un’efficace
dissonanza tra la melodia e l’immagine, tra il possibile e il reale, tra il caduco
e l’eterno. Il lettore in questo breve stralcio assapora i residui del bello,
ma vede in controluce la tristezza della realtà, la bruttezza della morte, il
dolore causato dal suo arrivo. Il poeta si sofferma con compiaciuta insistenza
sulla dissonanza di quanto evoca e diventa egli stesso dissonante, quando
unisce nella tramatura lirica primordiali potenze liriche e osservazioni, che,
solo nell’apparenza, sembrano banali.
Commisurare i contenuti
figurativi vettorelliani alla realtà non può avere che un valore euristico.
Quando l’ermeneutica spinge il lettore a penetrare nel profondo, questi deve
riconoscere di non esaurire la conoscenza lirica con concetti meramente legati
al reale o all’irreale, ma col riferimento a valori immutabili insiti nell’ens
cogitans, che diviene motore immobile di un processo analitico strettamente
personale.
Nella
silloge Elegia per me solo non esiste traccia di realtà deformata, anche
se molto spesso il discorso declina verità per lessemi ben orchestrati, che
confluiscono in sintagmi specifici, nei quali ogni singola parte o parola ha
una qualità netta, sensibile. Tuttavia siffatti sintagmi combinano ciò che è
realmente conciliabile sia con l’esperienza sensibile, sia con la logica
aristotelicamente intesa. Con l’alta qualità delle immagini e con la loro
strutturazione sul piano narratologico il poeta intesse un fitto dialogo sulla
realtà, che cade sotto il vigile sguardo dell’interlocutore. Esse, e per
qualità e per quantità, superano di gran lunga quella particolare libertà, che,
grazie alle forze metaforiche fondamentali della lingua, sono magistralmente
coniugate con immagini contemplabili. E ciò può avvenire solo nella poesia, mediante
la quale riescono a trasmettere un’efficacia più tagliente alle caratteristiche
presenti nelle realtà stesse, e tuttavia la loro direzione non è rivolta verso
un ideale, bensì segue una dinamica riflessiva, la quale, per così dire in
mancanza dell’Ignoto invisibile, rende il reale stesso un ignoto, sensibilmente
eccitato ed eccitante mediante la dissoluzione dei confini tra le figure,
mediante il logico accostamento degli estremi. Nella composizione lirica Vettorello
cerca di scandagliare l’ordinamento reale, pur restando nel reale e nel
sensibile, mediante procedimenti noti alla precedente poesia. In ogni lirica
della silloge, però, si trova per lo più in germe a quanto nelle altre raccolte
è pienamente sviluppato, per rendere la realtà più sensibile e pregna d’una
semplicità d’urto, come si legge nella lirica conclusiva, La cagna rossa:
domani sarà il giorno del trasloco,
andremo via di qua per altri luoghi.
mercoledì 22 novembre 2023
Gian Piero Stefanoni " Deposizione "
DEPOSIZIONE
dall'affresco presso la cappella di Santa Giuliana Falconieri in via dei quattro venti a Roma
Ne sollevano le braccia.
Ne piangono la morte.
Ne contemplano
e ne distendono il nome,
del corpo mistico le membra.
Reclamata la carne,
consunti al volto
apre la luce il silenzio.
Ma il peso è della madre.
Roma, 12-14 novembre 2023
Lettura della silloge “Fiore di vetro” di Stefano Massetani a cura di Patrizia Stefanelli
L’amore è un bisogno? è illusione, corpo,
realtà o sogno?
Desiderio e consapevolezza dell’amore
che si perde, sembrano viaggiare all’unisono cercando il punto
di congiunzione tra l’inizio e la fine. Eros e Thanatos lavorano in continua
reciproca tensione riuscendo a tenere in equilibrio il piacere amoroso e la
malinconia vera o presunta della perdita: “Quando la luce del nostro sole
volgerà al tramonto…”; “basterà la speranza di un solo tuo sorriso, ed io ci
sarò.” (Io ci sarò pag. 15).
Credo che la poesia di Stefano
Massetani, adottando un linguaggio espressivo efficace, riesca a far obliare alcune
delle stranezze compositive attuali, spesso senza alcun costrutto o evocazione.
Al di là della retorica su quanto e come debba “arrivare” una poesia, a quali
materne radici debba allattarsi il verso, questa poesia supera, con la sua semplicità,
attraverso regole semantiche e sintattiche e con l’eleganza del sentimento,
ogni plausibile divergenza strutturale. Il suo è un linguaggio che coniuga
realtà e simbolo con preziose analogie: “È stato come pioggia fredda che ti
sorprende senza scampo in mezzo alla campagna.” (L’abbandono pag. 18). Il suo stile di scrittura combina il
linguaggio poetico, che è fatto di musicalità e immagini, alla narrazione riuscendo
a coinvolgere emotivamente il lettore. S. Massetani usa la lingua colloquiale
quotidiana ricca di metafore e di correlativi oggettivi, così come ci insegna T.
S. Eliot, per parlarci d’amore. C’è bisogno di poesie d’amore. Di un amore che
rispetti le scelte dell’altro, che si slarghi oltre i confini dell’ego in
un’osservazione che si fa ascolto dei particolari. Questa sinestesia è evidente
nella poesia “Controluce” in cui la luce
del sole è il correlativo oggettivo della conoscenza. Ma la conoscenza è
frugale e limitata; così come la notte segue il giorno essa lascia l’esperienza
interna del Nostro e poi ritorna per altri luoghi, per anafore ed epifore: “quella
luce che mi illuminava il passo,/ ma che ormai si allontana,/ lasciandomi in
penombra, con gli occhi gonfi, /sconfitto come un pugile al tappeto e solo,/
infinitamente solo,/ come soltanto io so di essere.” (Giorno dopo giorno pag. 35). E ancora: “Quando ho capito che anche
l’amore può morire,/ ho visto il sole spegnersi all’improvviso,/ ed ogni
riverbero di luce sparire…” (Anche
l’amore può morire pag. 45). Nella sua poetica il tema dello sguardo è onnipresente
a significare la solitudine interiore; l’io lirico riflette e narra l’essenza percepita
del mondo: “La luce dell’alba che sorge alle mie spalle,/ riduce, inesorabile,/
tutte le ombre del mondo che appare davanti agli occhi.” (Impronte sulla sabbia pag. 38).
La poiesis procede per immagini che sono
parole e prendono vita da una memoria primigenia interagente con esse, anche in
contraddizione. È così che si creano le figure fondanti la composizione poetica:
“Si mescolano e cozzano tra loro, nel vano tentativo di uscir fuori,/col
crepito sordo che fanno i sassi agitati in un barattolo.” ( Le parole non dette pag.27).
Il climax delle poesie che
vanno a chiudere questa raccolta sorprende nelle chiuse. Ad un incipit crudo in
cui la consapevolezza della perdita,
esperienza universale, conchiude il senso del vuoto e del lutto amoroso,
subentrano tentativi di rinascita e la speranza di andare avanti nonostante il
dolore personificato dalla polvere [lenta
ed inesorabile…] che si posa, nei versi di Voglio innamorarmi ancora.
Premio Letterario Nazionale Massenzio
Comune di San Cesareo
II edizione
Gemellato con
il Premio Letterario Nazionale La Tridacna
Città di Colonna
AVVISO PUBBLICO
MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE
Possono partecipare testi in lingua italiana e vernacolare di autori che abbiano compiuto il
diciottesimo anno di età alla data di scadenza del bando.
Art. 1: Le opere potranno essere edite o inedite, nonché premiate o non premiate in altri concorsi
letterari. L’autore dichiara, altresì, che l’opera proposta è di propria stesura/realizzazione, e non lede
in alcun modo i diritti d’autore ed editoriali propri e/o di terze parti.
Art. 2: Sono previste tre sezioni:
Sezione A: Poesia in lingua italiana: max 30 (trenta) versi formato word (non sono ammessi invii di
libri). Il concorrente può partecipare con un numero massimo di 2 (due) opere, edite o inedite a tema
libero.
Sezione B: Poesia o breve testo in vernacolo: max 40 (quaranta) versi formato word per la poesia e
max 5.000 battute per il testo (non sono ammessi invii di libri). Il concorrente può partecipare con un
numero massimo di 2 (due) opere, edite o inedite in dialetto con relativa traduzione in lingua italiana.
Sezione C: Racconto a tema libero: max 20.000 battute spazi inclusi formato word (non sono
ammessi invii di libri). Saranno valutate a insindacabile giudizio del presidente del concorso opere
che sforano leggermente le 20.000 battute. Il concorrente partecipa con un solo racconto, edito o
inedito, a tema libero.
Non sono ammessi testi inneggianti alla violenza, razzisti, sessisti, né blasfemi.
Art. 3: Il carattere da utilizzare per la scrittura delle opere è il Times New Roman 12 in formato word
su foglio standard A4, interlinea 1.0.
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sezione sul modulo d’iscrizione.
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Art. 7: Il materiale dovrà essere inviato entro e non oltre il 25 novembre 2023, unicamente a mezzo
e-mail a premioletterariomassenzio@comune.sancesareo.rm.it insieme alla scheda di partecipazione,
compilata in ogni sua parte in stampatello e firmata, più attestazione del contributo di partecipazione.
Art. 8: I premi in denaro non ritirati personalmente durante la manifestazione di premiazione
rientreranno nella disponibilità promotrice del Premio che provvederà a spedire solo la targa e la
motivazione. Salvo diverse indicazioni del promotore del concorso.
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accetta integralmente e incondizionatamente il contenuto del presente Regolamento comprensivo di
10 (dieci) articoli che potrà, in caso di necessità ed al solo giudizio dell’organizzatore, subire qualche
variazione. Nel qual caso a tutti i partecipanti verranno fornite con ampio preavviso tutte le
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possono partecipare anche a tutte le sezioni versando le relative quote.
L’iscrizione andrà fatta tramite Bonifico bancario intestato a:
Comune di San Cesareo
IBAN: IT17D0359901800000000139168
causale: iscrizione (cognome e nome autore) Premio Letterario Nazionale Massenzio
Premi
Per tutte le sezioni si provvederà ad attribuire i seguenti premi:
1° premio – € 150,00 con targa e motivazione della Giuria
2° premio – € 100,00 con targa e motivazione della Giuria
3° premio – € 50,00 con targa e motivazione della Giuria
Una targa con motivazione verrà offerta dal Premio Letterario Nazionale “La Tridacna Città di
Colonna”. Verranno altresì assegnate ulteriori targhe, pergamena d’encomio, menzioni d’Onore e
Segnalazioni di Merito a opere ritenute meritevoli.
La cerimonia di premiazione si terrà nel mese di gennaio 2024 in San Cesareo (Roma), salvo diverse
indicazioni. La classifica finale dei primi tre vincitori di ogni categoria verrà comunicata durante la
premiazione, mentre gli autori premiati con targhe menzioni e segnalazioni saranno avvisati in
precedenza.
I premiati compresi i primi tre classificati (indicati in ordine alfabetico) saranno informati entro il
mese di dicembre 2023.
Le comunicazioni saranno effettuate tutte via e-mail.
Ai sensi del DLGS 196/2003 e del Regolamento Europeo n. 679/2016, i partecipanti acconsentono al
trattamento, diffusione ed utilizzazione dei dati personali da parte dell’organizzatore, e della Casa
Editrice per lo svolgimento degli adempimenti inerenti al concorso e altre finalità culturali afferenti.
Presidente del Premio: Antonella Gentili (Storica, Scrittrice)
Il Presidente ed i Membri di Giuria verranno designati e resi noti alla scadenza del termine di
presentazione delle domande di partecipazione.
venerdì 17 novembre 2023
Riccardo Mazzamuto:" Patria metallo dell' inganno....."
Una vera denuncia contro l’uranio impoverito fatta con sentimento
e riflessione: morte, testimonianza di
un padre che si rivolge al figlio con
animo afflitto, con passione di padre (figlio mio), contro tutti coloro che,
con documenti e testimonianze di tutto
rispetto, niente hanno fatto per far emergere la verità. Sono questi i fatti di
questa silloge, veramente nutrita di rancore e di rabbia per la sorte di coloro
che hanno creduto. Riccardo Mazzamuto un soldato che ha dato
tutto il proprio impegno per il proprio
lavoro. Una vera denuncia con elementi alla mano, documenti che fanno tremare il polso. Un diario di
guerra che denuncia la guerra, l’inutile barbarie di una civiltà poco civile.
Leggere queste poesie è come sentirsi male. Giovanni Falcone: “si muore perché si è soli,
o perché si è entrati in un gioco più grande di noi. Si può morire spesso perché
non si dispone delle necessarie alleanze perché si è privi di sostegno” : questo
è quello che scrive Falcone con la penna
di Mazzamuto. Tanti sono i documenti che danno
corpo a questa silloge di rancore e di guerra. Documenti che hanno
portato sostanza alla silloge con poesie di grande levatura prosastica e
contenutistica: “Inseguire ideali
inutilmente”, “Ottobre 1993 anime allo sbaraglio “, “Un padre”. Una silloge
ricca di riferimenti contenutistici che spaventano per la loro crudità e per la
loro verità. Tante le poesie di denuncia e di risentimento per non avere dato
quello che è determinante per la patria. Un insieme di componimenti che fanno
brillare gli occhi per la loro verità. Chiudere
la mia breve riflessione riportando queste parole “….rispettando il giuramento sognavo
quella meticolosità…..” significa cogliere il
momento più tragico della silloge.
Nazario Pardini
“La dimensione umana dell’esistere” di Nazario Pardini e Patrizia Stefanelli. Relatore Paolo Stefanini. Biblioteca Comunale Peppino Impastato Cascina (PI) 25 ottobre 2023
Quest'incontro suscita almeno
due forti motivi di interesse (e per quanto mi riguarda anche di apprensione).
Il
primo è la stessa levatura dei due autori: Patrizia Stefanelli, qui
fisicamente presente, non è solo la poetessa pluripremiata e plurirecensita che
conosciamo, ma è anche scrittrice di teatro, critica, regista e infaticabile operatrice
culturale (sua è l'associazione e suo è il premio “Mimesis”). Aggiungo infine
che è poetessa dialettale (questo mi tocca il cuore). Nazario Pardini,
anche lui comunque presente fra noi è un emerito italianista della nostra
Università, poeta, critico, generoso fondatore e animatore della rivista web
“Alla volta di Leucade”, che spesso ha ospitato anche alcuni di noi. A lui
Patrizia Stefanelli si rivolge chiamandolo Maestro e credo che tutti come tale
lo riconosciamo.
Il
secondo motivo di interesse è la novità assoluta, perlomeno per i nostri tempi,
di questo dialogo in versi: Nazario Pardini Patrizia Stefanelli – La
Dimensione umana dell'esistere. In esso i due autori, tramite mail
(stupendo l'incrocio fra un genere antico, dimenticato e strumenti moderni)
riversano in otto giorni di comunicazione poetica, il proprio patrimonio di
conoscenza reciproca, di stima, di
consonanza di pensiero, di comune
sentire, di affetto. Lo fanno certamente per loro, ma dichiaratamente anche per
noi tramite la pubblicazione. Di cosa parlano? Non è il caso di
anticipare, magari male, quello che sentiremo, ma si può comunque dire che si
tratta dei grandi temi della vita e fra questi ci troviamo anche la poesia!
Piuttosto è opportuno dire come ne parlano e quindi fare un breve
riferimento alla loro espressione poetica, si badi bene anch'essa
reciprocamente consonante, tanto dare l'impressione di un unico corpo
stilistico e rendere quindi possibile il
riferimento paritetico ad entrambi gli autori. In questo dialogo la poesia, seguendo
una tematica davvero varia, intreccia con altrettanta variabilità le componenti
essenziali del linguaggio: la semantica e l'orfica-allusiva. Ovviamente prevale la prima nell'espressione di concetti
filosofici e la seconda nel richiamo di sensazioni, affetti, memorie. I versi
sono quelli della grande poesia italiana a cominciare dagli endecasillabi
sciolti, intercalati talora da versi più brevi, ma quasi sempre dispari in
virtù della loro maggiore duttilità ritmica.
Per finire consentitemi una nota in merito alla mia esperienza di lettore, augurandomi che la vostra possa essere altrettanto significativa: in questo dialogo ho trovato una sincerità totale di sostanza e un'autorevole sicurezza nell'usare forme che si vorrebbero ormai superate, forse da parte di qualcuno addirittura bandite. Ho trovato la riprova che la poesia non è votata esclusivamente alla breve scossa dell'emozione, forse abusata in questo tempo visivo, di relativismo etico e di consumo, ma anche a trasmettere convinzioni, pensiero, riflessioni, insomma a fare filosofia... come già in altri tempi è stato. Ho poi trovato in questo dialogo, e concludo, tanta eccellente poesia, quella, per dirla con Montale, con quel “quid”, che solo la poesia può rendere.
Chiudo con alcuni versi di Nazario, quasi una chiave di lettura, che magistralmente danno dignità a “quella parte illogica di noi” (scrive Patrizia) che è poi quella più libera e creativa.
Nazario ore 17:24
“Eppure
chi ragiona veramente
è proprio quella parte
illogica di noi”. È proprio vero è
il cuore che ti chiede
di seguire gli impulsi che la ragione
esclude
e che esso s’impunta di affrontare
con tutta la libertà e la malia
che sono proprio le virtù dell’essere.