Il mio incontro con Bilotti è stato
profondamente segnato da fattori territoriali, biografici e intellettuali, i
quali mi hanno, all’inizio, consentito di penetrare quelle radici umane, che
sono all’origine della sua poesia, come dimostra una mia monografia a lui
dedicata.
Sin da questi primi incontri e dalla
conoscenza progressiva della sua biografia intellettuale e poetica, ho
avvertito le notevoli potenzialità che la sua vita e la sua opera conquistavano
all’interno di un contesto ambientale e letterario, nazionale e internazionale, che nel tempo si sarebbe
naturalmente amplificato e arricchito di tematiche, ma soprattutto di intime e
intense proiezioni poetiche; risultato, si direbbe, biologico di una personalità,
che non poteva essere condizionata dai pur ragguardevoli risultati di una
tradizione ligure consolidata, ma con inquieta intelligenza e sensibilità,
cercava e trovava orizzonti più vasti, che rinvenivano il loro focus e il loro
slancio nella scontrosa, ma fertile, socievolezza della sua personalità, la
quale nella poesia aveva finalmente scoperto l’isola del tesoro, sepolto e
sommerso da un mondo, nei confronti del quale egli assumeva un atteggiamento di
indipendenza creativa e critica, che inevitabilmente lo avrebbe coinvolto.
Il poeta vive nel silenzio e nella
solitudine di una vocazione autentica e assoluta, che offre a chi bene intende
e sente, nella speranza che il suo respiro venga riconosciuto nella sua
totalità e vitalità.
Già dalla prima silloge poetica La voce in antiorario (Padova 1977), non
a caso riedita nel 2021, Bilotti rivela la sua “antiorarietà” nei confronti di
una poesia contemporanea, che ben conosceva e che proprio in Liguria aveva
celebrato i suoi trionfi, com’è accaduto di rilevare in altre occasioni. Ma il
poeta — e qui consiste la radice più profonda del suo “caso” letterario — è
come, senza condizionamenti e compromessi, volesse cercare se stesso e dare a
questo personaggio, che la poesia gli avrebbe offerto, la possibilità di
indovinare e individuare un linguaggio che fosse tutto suo, perché scaturito
dai recessi della sua vita e della sua anima.
Le prime raccolte di Bilotti affondano, sin
dai titoli eloquenti, le radici in quel vissuto biografico, segnato da eventi
determinanti, da luoghi e persone che hanno dato una o più svolte alla sua o
alle sue vite. Come un fiume può nascere da una polla per farsi mare, così il
poeta, con una filologia sentimentale ardua e fedelmente aderente a quei
“sentimenti”, che, come ha ben notato Alberto Zattera, costituiscono le voci
originarie della sua vita e, inevitabilmente, occorre aggiungere, la sua
poesia, da devoto e discreto figlio e nipote, come dimostrano le poesie
riportate, diventa marito, padre e nonno amoroso, seguendo un corso
profondamente umano, che si rispecchia fedelmente nella sua poesia e che
troverà nella scoperta dell’amore per Mariangela una luce nuova.
Da critico, anche classicista, a parte le
intime interferenze emotive ed esistenziali con il mondo classico, messe fino
ad oggi in parte in luce soprattutto dall’acribia di Paolo Bertini, mi sembra
di potere per la prima volta affermare, anche e soprattutto sulla scia di
quanto qui documentato, che Giovanni Bilotti si sia, efficacemente ed
esemplarmente, creato un Pantheon familiare, al quale si rivolge, per trovare
la forza di vivere, per amare, sognare, scrivere. Leggendo, con particolare
partecipazione queste raccolte, sembra attraverso le parole, e, io aggiungerei,
le voci, dei vari personaggi, il che potrebbe rappresentare un suggerimento
scenografico, di assistere, in un teatro greco dall’acustica perfetta, alla
interpretazione di parti legate ai singoli personaggi, che hanno
miracolosamente e pirandellianamente trovato finalmente in Bilotti il loro auctor, termine, e lo dice un professore
anche di greco e latino, che non va banalizzato nell’automatica traduzione
italiana di autore, ma va ricondotta
alle sue più autentiche radici filologiche, dal momento che l’autore è colui che accresce, amplifica e
assolutizza le personalità e le loro storie, trasferendole dal mondo della
realtà apparente a quella dell’arte effettuale. E che cos’è la poesia,
scorrendo i tasti bilottiani, se non questa sconfinante esigenza di umanità,
che, proprio grazie alla parola, può farsi eternità?
Ma c’è ancora un altro aspetto critico, che,
in ambito classico, va evidenziato e che non si limita alla impostazione
strutturale dei componimenti, i quali nel tempo risentiranno, rinforzandosi, di
influenze anche orientali, ma è quel tu
del dialogo, che merita di essere sottolineato e che a volte sembra aspettare
la morte per essere proclamato e dare l’avvio a un dialogo, che non sempre la
vita consente. Compito della poesia, del resto, è quello di dire l’indicibile,
quello che non sempre si riesce a dire, ma, che, nel momento in cui viene
detto, conserva una tenuta salda nel suo mancamento.
Ed è forse qui il nucleo centrale della
poesia di Bilotti, che qui si espone, la quale, innanzitutto, si muove in antiorario, seguendo cioè
un’alternativa cronologicità emotiva, ma, elemento importantissimo, inverte,
con una libertà inventiva tutta sua, impossibile da cercare e trovare altrove,
i termini di codificati rapporti, creando una metaforologia, interna ad ogni
singolo componimento, ma capace di determinare una suggestione spiazzante, che
non si concentra, come generalmente accade, nel finale, ma si distende in tutto
il testo, con effetti senza dubbio personali e originali, che non hanno nulla
di artificiale, come per molti esperti poeti contemporanei, ma conservano una
sorta di indifesa verginità, una purezza emotiva ed esistenziale, che
giustifica pienamente il dérèglement, che il poeta opera senza chiedere
permesso a nessuno. Ed è, questa, una delle ragioni che ha indotto a ritenerlo
un caposcuola poetico, che non ha bisogno di ismi e di referenti vicinamente
lontani. Bilotti è Bilotti e basta e, pur non amando definizioni categoriche e
convenzionali, lo si può considerare un involontario maestro di poesia e di se
stesso, insomma un ineludibile simbolo poetico del nostro tempo.
A questa naturale predisposizione lirica,
dunque, non a caso, si congiunge un’altra più propriamente poematica, che
agevolmente rinvia a modelli della classicità, che Bilotti non ha mai
rinnegato, semmai consapevolmente valorizzato. Con moderna modestia, i suoi si
definiscono pseudo-poemi, che
prendono l’avvio da un testo esemplare La
farfalla, recentemente ristampato. Lo pseudo-poema dà l’avvio ad
un’autentica serie animalista, come documentano i titoli: Animali, Il cane che si morde la coda, che saranno raccolti nel
2021 con la mia prefazione. Non si tratta solo di una reale forma di animalismo
comunitario, tra l’altro familiare e realmente praticato in casa Bilotti e fuori,
ma della ferma persuasione ecologica di una animalità, che aiuta a penetrare la
pseudo-poematica dell’umanità, le sue fragilità, le sue intemperanze, persino
le sue criminalità nei confronti di un mondo, che ancora oggi dagli animali ha
molto da imparare. La farfalla, lieve e colorata, si posa sui suoi fiori e
rivela, nella brevità della sua esistenza, la bellezza del mondo, che noi
potremmo godere per un maggior tempo, ma che invece violentiamo e distruggiamo,
non traendo alcuna lezione da quegli animali che Bilotti e sua moglie
Mariangela amano e nutrono come amici fidati, a volte, più degli uomini.
Andando più a fondo, c’è in questo poeta, come ho amato spesso definirlo, scontrosamente
socievole, una ecologia dello spirito, ben diversa da quella sbandierata dai
mezzi di comunicazione di massa, che lo induce realmente ad amare la natura, a
rispettarla, a sentirla respirare dentro di sé e con essa i suoi ospiti, cioè
gli esseri umani, quelli che la abitano e la devastano, molto simili a un cane
che si morde la coda e scappa via.
È questa la poesia civile di Bilotti, nella
quale egli esibisce una serie di esempi sconcertanti, che dovrebbero far
riflettere uomini che non vogliono pensare ma solo vivere a modo proprio,
dimenticando il semplice fatto di essere parte di una società, cosiddetta
civile. E questa socialità, che ha fruttato il Nobel a molti poeti e scrittori,
dovrebbe costituire uno dei nuclei vitali di una poesia, che sente, come ebbe
modo di dichiarare apertamente Quasimodo, di non poter pensare solo a se
stessa, ma di doversi aprire al mondo e alle sue problematiche più deliranti e
urgenti. Sarebbero, queste, opere destinate alle scuole, che sembrano avere
dismesso il compito di impartire in maniera adeguata una educazione civica,
quella che, per la sua mancanza, provoca ogni giorno morti e violenze. Come si
può pensare, seguendo Bilotti, che la poesia sia inutile? Lo sarà, forse, per
alcuni suoi aspetti, ma resta comunque un bene inutile, di cui però non si può
fare a meno.
E, a tal punto, sembra opportuno inserire un
significativo spartito critico, dedicato alla narrativa di Bilotti per
l’infanzia, suggerita dal suo rapporto con il nipote Filippo e un giovane amico,
ma poi destinata ad assumere un ruolo strategico non trascurabile
nell’affermazione del valore inestimabile della cultura, ovviamente adattata
all’infanzia, forse anche per l’inconscia consapevolezza del ruolo
rivoluzionario dei libri svolto sulla sua formazione giovanile, grazie alla
mediazione dello zio Marco.
Non è certamente il caso di scomodare
autori, come Leopardi o Pascoli, per confermare l’idea ineliminabile che
l’infanzia è, in qualche modo, la stagione fondamentale dell’esistenza e, rincarando
la dose, che quanto resta è una sorta di rendita, che in letteratura capita
spesso di richiamare, come accade del resto allo stesso Bilotti, il quale in
diverse occasioni importanti del suo cursus
vitae, ha avvertito l’esigenza di ricomporre le radici e gli sviluppi della
sua genealogia familiare e personale.
Ma lo spazio critico che si intende qui
riservare alla complicità letteraria che nonno Giovanni è riuscito
narrativamente a stabilire con il nipote Filippo acquista una rilevanza non trascurabile
sia per la sua continuità sia per la sua creatività. Bilotti, innamorato della
letteratura, ha voluto fermare e raccogliere momenti irripetibili di un
incontro, fertile per le parole ma anche per le immagini che ne sarebbero
scaturite, mostrando una sorta di concordanza appunto creativa, capace di
rinsaldare i rapporti affettivi e mentali tra nonno e nipote, rivelandosi in
questo un efficace pedagogo, che ancora affida alla letteratura il compito di
connettere anime e storie, ma, allo stesso tempo, ha mostrato di assorbire, con
umiltà e amore, i segnali, gli stimoli, che questo incontro generava nel suo
animo poetico, il quale è particolarmente esposto a cogliere e maturare i germi
che gli vengono sottoposti, animando, arricchendo, in qualche modo,
ringiovanendo felicemente la visione del mondo, che solo i ragazzini, con la
loro fantasia esuberante e la loro segreta saggezza riescono a dare a un mondo
spesso in letargo, che ha bisogno di scosse vitali per potersi risvegliare,
come hanno mostrato scrittrici, dalla Morante a Maraini e, per il mondo
maschile, il geniale Rodari. L’esperimento di Bilotti è, tuttavia, ancora una
volta, originale e significativo, perché non è l’adulto che si assume il
compito di insegnare, attraverso il racconto favolistico, la vita, peraltro a
lungo vissuta, ma accade paradossalmente il contrario, dal momento che è come
se lo scrittore si facesse umilmente da parte per lasciare tutto lo spazio
creativo e critico a quella infanzia, che, anche negli anni più avanzati, ha sempre
qualcosa da suggerire, da insegnare.
E qui si inserisce, secondo la metodologia
adottata, ad incastro, sul quale la critica non sembra essersi sufficientemente
soffermata, il surrealismo del nostro autore, che sarebbe agevolmente
correlabile alle immagini suggestive e spesso spiazzanti contenute anche nei
libri per l’infanzia.
L’amico e collega Giorgio Barberi Squarotti,
in una delle molte missive, inviate al nostro autore, evidenziava la
particolare validità letteraria di un’opera narrativa, anch’essa recentemente
ristampata, I Celestini, la quale
conferma in pieno quanto si sta tentando di dire, in relazione a un surrealismo
letterario, che tuttavia sempre rinvia a ragioni reali, anche se le vicende
avvengono in un mondo iperuranio: prima fra tutte la lotta ciclicamente
ineliminabile tra bene e male. Il richiamo surreale affascina tutta la
produzione bilottiana, compiendo il miracolo, evidenziato in altra sede, di
accomunare e accostare prosa e poesia, secondo un procedimento, che sarebbe letterariamente
agevole rinviare a una metodologia di marca simbolista di derivazione non
nostrana, ma che, nel caso di Bilotti, si abbarbica tenacemente a una teoria di
umani sentimenti, che conferiscono ai suoi racconti una carica di umanissima
interdipendenza tra parole e voci, tra le cose che si dicono e quelle che si
immaginano, si sognano, in un rapporto estremamente dialettico e stimolante tra
realtà e surrealtà, tra ciò che si tocca e si vede e ciò che rischia di essere
relegato, come notava Pirandello, in una dimensione energicamente misteriosa.
Ed è forse qui il nucleo della questione, che autorizza a considerare il nostro
autore tra i più acuti e originali del nostro tempo, per la capacità di evitare
un corto circuito tra realtà e surrealtà, riuscendo a estrarne il valore etico
ed esistenziale e ad assimilarle quindi ad una dimensione estetica, la sola
capace di proteggerle da una contrapposizione disperante. Bilotti dimostra che
la sintesi è la più alta forma di congiunzione tra critica e creazione e basterebbe
questa intuizione per qualificarlo tra i più rappresentanti testimoni e
interpreti del nostro tempo.
Si resta, a volte, sorpresi che autori, i
quali non hanno pubblicato con grandi case editrici, non hanno partecipato e
ricevuto premi di risonanza nazionale, abbiano però recato un contributo di
rilevante spessore alla letteratura del proprio Paese, il quale va però
scandagliato, con onestà intellettuale e partecipazione passionale,
generalmente bandita dai critici di professione, nei gangli, nei passaggi,
nelle intersezioni delle loro creature. Ecco perché ho ritenuto di dover
suggerire a una casa editrice, generosa e intelligente, anche per lunga
esperienza, di restituire a scrittori, come Bilotti, ciò che hanno donato con
disinteresse e amore.
Anzi, dal momento che l’occasione si offre
propizia, bisognerebbe insistere non tanto e non solo sulla fatica dello
scrivere ma, nel caso specifico di Bilotti, su una encomiabile maniacalità, che
accompagna la sua scrittura, la quale non conosce la staticità e la immobilità,
ma rincorre le parole, perché conquistino lo spazio perfettamente
corrispondente al pensiero e al sentimento dell’autore. Un lavoro — e mi fermo
qui — silenzioso e solitario più degli altri, che impegna contemporaneamente il
corpo e la mente. Gli scrittori partoriscono parole e il loro percorso creativo
è molto più tormentato ed esaltante di quanto possa apparire. E anche questo
per Bilotti andava detto, data la concordanza di un lavoro, che lo porta
tenacemente ad elaborare nuove opere, mentre è faticosamente intento a
perfezionare le precedenti. Forse è l’unico caso italiano in cui la
bibliografia, nonostante gli sforzi dell’ottimo Zattera, suo quotidiano
compagno di viaggio e avventura, sia in continuo, stimolante movimento, creando
una sorta di compagnia di trovatori, votati alla scrittura e alla critica, alle
quali hanno dedicato una parte non trascurabile della loro vita.
C’è un altro aspetto della personalità e
della produzione di Bilotti, che merita di essere evidenziato ed esaltato,
perché generalmente compiuto a sue spese. I liguri sono falsamente celebri per
la loro parsimonia, Bilotti ha dimostrato in letteratura il contrario,
valorizzando proprio la territorialità storica e culturale de La Spezia e di
quella Lunigiana storica, sulla quale si è efficacemente accanito, producendo,
con il relativo aiuto di coloro che gli sono più vicini e che avrebbero
talvolta voluto fare di più, opere testamentarie, destinate a durare e ad
entrare anch’esse nella più ampia e articolata bibliografia nazionale. Ci si
limita a un testo che ha generalmente dato spazio alle personalità degli autori
presi in esame: dall’Antologia poetica “Il Torretto” (1990), ma poi, in
mirabile sequenza, La Spezia letteraria. Profilo
storico della poesia e della narrativa spezzina (2002); Storia della letteratura spezzina e
lunigianese (2007); Ciao, Paolo
(2012), opera dedicata al poeta Paolo Bertolani; La letteratura della Lunigiana storica, in ben tre corposi volumi,
e infine, ma solo per il momento, il Dizionario-bibliografico
degli scrittori spezzini, immodestamente dedicato a chi scrive, con il
quale ha intrattenuto, come con Giorgio Barberi Squarotti, una fitta
corrispondenza, entrambe pubblicate, questa nostra, con i testi critici a lui
dedicati.
Lo scrittore, come nel caso di Bilotti, se è
dotato di una vocazione operativa, deve metterla in pratica, cosa che egli ha
regolarmente fatto. Ma un’altra caratteristica del nostro autore è quella di
avere favorito collaborazioni tra personaggi consentanei per formazione e
produzione, sempre in nome di una territorialità, che, come dimostra la nostra
collaborazione, è giustamente proiettata a valorizzare il proprio territorio e
a farne diventare figli adottivi studiosi, come chi scrive, tenacemente convinti,
come sosteneva Vinicius de Moraes, che la vita e, bisognerebbe aggiungere, la
letteratura, la scrittura è l’arte dell’incontro, che sarebbe un’occasione
mancata non coltivare, in nome di una comune passione, che, come l’amore, può
unire due culture, due menti, due cuori.
La Spezia e il suo territorio, diventato
anche un po’ mio, devono dunque rispetto e gratitudine a un uomo che, come un
gigante solitario, un gladiatore invincibile, si è battuto per restituire alle
sue terre, alle sue genti, quella nobiltà, che ad esse spettava per diritto di
sangue (si pensi alla straordinaria presenza dantesca) e che un presente,
egoista e distratto, ha rischiato di rimuovere in nome di falsi miti.
Ma c’è un altro leitmotiv, sul quale la
critica non sembra essersi soffermata adeguatamente e che potrebbe rivelarsi di
notevole momento per penetrare il segreto laboratorio creativo del poeta e
rinsaldare la definizione di caposcuola di una nuova linea, che ho ritenuto di
dovergli attribuire, anche e soprattutto sulla base di specifiche aperture, che
senza rinnegare ovviamente la tradizione ufficiale di una consolidata
sperimentazione poetica novecentesca, riescono a rivelare l’influenza anche di
altre insospettabili esperienze poetiche, le quali proiettano la sua poesia in
una dimensione internazionale, conferendole un respiro del tutto particolare,
pienamente confacente alla sua vocazione letteraria.
Aggirandomi nella sua biblioteca, affollata
di testi fondamentali della letteratura di tutti i tempi e tutte le nazioni,
fui colpito da splendidi volumi di autori orientali, di alcuni dei quali ero
stato in precedenza indotto ad occuparmi per la intensità e originalità della
loro ispirazione, a volte monotematica, altre ecletticamente argomentativa.
Quelle incursioni mi convinsero ancora di più della necessità di una critica,
che non continui a percorrere accertati sentieri, autorizzati dagli stessi
autori, ma a meglio scandagliare terreni vergini, capaci di alimentare nuovi
solidi arbusti.
In verità, sia Bertini che Zattera, per le
loro specifiche aree di competenza, avevano suggerito percorsi intertestuali,
confortati da referenti filologici e ideali di sicuro interesse, ma qui si
intende soprattutto segnalare la sostanziale attrazione che Bilotti, ancora una
volta, mostra verso insospettabili esperienze, capaci di alimentare e
rinsaldare la cosmica identità della sua poesia.
Già, in altra occasione, mi capitò di
accennare a una sorta di esoterismo, che mi indusse a ricordare il geniale
Battiato, invaghito dell’universo orientale. Il referente è significativo,
perché congiunge vita e morte, e consente, come nel caso emblematico dei Celestini, di accostare, con consapevole
coscienza critica e originale capacità narrativa, Cielo e Terra. Il poeta, lo
scrittore resta uno speleologo del mistero, che è chiamato a interrogare, per
provare a sfiorare l’assoluto, l’infinito, che egli rincorre e che resta
l’anima più autentica della sua vocazione alla parola, alla voce, che spesso ha
fatto risuonare, con affabile armonia, persino nel titolo delle sue opere, le
quali, com’è possibile verificare, ora si distendono ora si restringono nella
ricerca di una essenzialità esemplare, che rifiuta ogni facile orpello.
Ed è qui che bisogna individuare una
matrice, che si definisce generalmente orientale e testamentaria, nella
capacità della parola di dare sostanza al mondo e di illuminarlo, perché, come
accade nella tradizione occidentale, non si innamori di se stessa.
E Bilotti, anche nelle composizioni più
intime, conserva sempre il presunto distacco del grande poeta, dell’artista,
che, nonostante la inevitabile partecipazione emotiva, attribuisce alla parola
tutto il suo valore semantico, senza cedimenti o abbandoni, dimostrando quella
magistralità, che appartiene a coloro che scrivono non solo per sé ma anche per
gli altri e quindi aderiscono a una democrazia dello spirito, che la parola deve
avvalorare e mai barattare o sciupare.
Chi percorre la poesia orientale, si accorge
di questo processo di complicità e di distacco del poeta, in nome di una
visione noumenica, che può divenire gnomica, del fare poetico. Ecco perché
alcune esemplari composizioni bilottiane sembrano talvolta accostarsi a degli
haiku, epigrafi dell’anima, la cui voce ha spesso bisogno di poche parole, che,
sgorgando dalle intimità più segrete, acquistano un valore indispensabile,
persino sacrale. Il poeta, del resto, e Dante ampiamente lo dimostra, come ho
tentato più volte di mostrare, è un sacerdote della parola, laicamente offerta
come espressione di una umanità totale, nella quale sono chiamate a convergere tutte
le espressioni di una creaturalità, che si propone come ostia offerta alla
storia.
Ed è in questo preciso momento che non si
può non richiamare la religiosità, libera e felice, del nostro autore, di cui
la sua poesia offre molteplici occasioni di verifica. L’attraversamento della
vita nella poesia coglie i suoi magici momenti di sublimità, che annunciano una
eternità, che ancora una volta la parola riesce a fermare e a non far
trascorrere come atto precario e provvisorio. Machiavelli invitava a non
lasciarsi sopraffare dalle apparenze; lo sforzo, talvolta eroico, dei poeti
consiste proprio nello sconfessare ciò che il senso comune ritiene miticamente
ineguagliabile. La religione di Bilotti è quella che crede in Dio e,
soprattutto, e qui il poeta non può fare a meno di confessarsi, nella eternità
dei sentimenti più puri e profondi.
Forse per questo, insieme ad altri, pochi e
veri poeti, può essere considerato un fratello d’anima, con il quale
condividere alcune delle stagioni più autentiche e avvertite della nostra
vicenda culturale.
Il profilo tracciato lo pone quindi in prima
linea nella faticosa esperienza di una poesia che nella parola non vuole mai
tradire la vita, la sua essenza di solitudine e comunità. Chi non frequenta la
cultura, rischia di non cogliere il titanismo di una esperienza, il più
possibile, totalizzante, per sé e per gli altri. Per questo va riconosciuto a
Bilotti l’alloro petrarchesco del poeta, amato e onorato, per la sua umile
grandezza di uomo e la consapevole compiutezza di poeta.
All’interno della poesia contemporanea, che
continua a perseguire strade solitarie e non sempre conosciute nelle loro
possibili corrispondenze, Bilotti percorre una strada maestra, che lo conduce
ad elaborare una poesia alternativa, che affonda le radici nel suo essere più
verace e lo fa con un linguaggio, che, pur attingendo alle parole della
tradizione, come in una enigmatica scacchiera, le dispone secondo schemi, ogni
volta dettati da metafore e sinestesie inedite e impreviste, che il lettore
deve saper cogliere con la stessa attenzione che il poeta pone nel formularle,
secondo un sistema, che si potrebbe definire filosoficamente poetico, in cui
ragione e sentimento riescono a convivere armoniosamente.
L’armonia, che la vita non sempre concede,
Bilotti la cerca e la trova nella poesia, la quale appare intimamente percorsa
e segnata ora da una intimità sentimentale prorompente ora da una civile
partecipazione alle problematiche più coinvolgenti del nostro tempo, ma sempre
secondo una espressività armonica, capace di dominare le intemperanze della
parola e della vita stessa. Anche in tal senso, egli si rivela maestro accorto
e consapevole, capace di ritmare prosodia e metrica ai sussulti dell’anima e
della mente, evitando sperimentalismi e giochi linguistici, a cui la poesia
contemporanea si è troppo abituata con risultati non sempre convincenti e
soddisfacenti. La vera sperimentazione per il nostro poeta avviene
nell’infinito dell’anima, che non conosce confini e ama aderire costantemente a
quella identità dell’essere, di parmenidea memoria, che la scrittura del
Duemila mostra talvolta di avere smarrito, in inevitabile complicità con
l’accidia e la dispersione emotiva, che sembrano caratterizzare il nostro
secolo.
Bilotti, al contrario, vuole faticosamente
ricomporre i frammenti volanti di una Odissea dello spazio e del tempo, dopo
avere pensato e sofferto, per restituire alla poesia il suo valore etico ed
esistenziale, come antidoto epocale a quel male di vivere, che va ben oltre la
montaliana memoria e sembra infiltrarsi sempre più negli interstizi dell’anima
contemporanea.
La poesia, come la vita, se vuole avere un
futuro e se vuole finalmente penetrare la sostanza della società, deve, come
Bilotti docet, impegnarsi ad essere
se stessa in tutte le forme che la parola detta, senza inganni e simulazioni,
che già la cronaca allinea quotidianamente, ma soprattutto le imperdonabili
violenze del passato e del presente, che non dovranno mai diventare futuro. La
poesia resta la consapevole frontiera da non superare per non perdersi nel
baratro di una disumanizzazione incombente e inarrestabile.
Le molteplici notazioni, qui raccolte e
offerte a tutti coloro, che vorranno occuparsi della sua opera, confermano una
rara sintonia tra l’uomo e il poeta, verificata direttamente sul campo dal
critico che le propone e confermano soprattutto la sua funzione di guida etica
ed estetica, che lo impone come antesignano di una nuova possibile linea, che,
sulla base dei dati evidenziati, supera una statica idea di ligurità per
schiudersi ad orizzonti, che, a volte, anche la poesia contemporanea più
consapevole non è riuscita a raggiungere.
Per poterlo fare, come Bilotti dimostra, pur
nel sacro rispetto delle radici, bisogna che l’albero della vita, come della
poesia, attinga ad humus diversi e
convergenti, i quali daranno nuovi frutti, da cogliere, come nel caso del
nostro poeta, quando avranno raggiunto quella maturazione, che il nostro autore
mostra di avere raggiunto. Si consideri questo saggio come doveroso attestato a
un uomo, che alla letteratura ha consacrato la propria esistenza, evitando
rigorosamente compromessi, a rischio di esporsi a una solitudine creativa e
critica, e che, allo stesso tempo, quando ha voluto e potuto, ha saputo
scegliere, con libertà e sincerità, i propri compagni di viaggio e di
avventura, come basterebbero a dimostrare i suoi molteplici testi collettanei,
gli epistolari, quegli scambi giusti, che salvaguardano e assicurano i lavori
letterari, evitando sempre possibili incidenti di percorso.
Attraversando la bio-bibliografia
letteraria, contenuta nel recente Dizionario
degli scrittori spezzini, si riporta la piena consapevolezza di una
coerenza e di una fedeltà a una idea di letteratura, che onora il territorio e
insieme lo proietta, come già accennato, in una dimensione internazionale.
Potrebbe apparire un miracolo, ma non lo è, perché la storia non fa miracoli.
Basta aderire alla sua pelle, con fatica, con sudore, ma anche seguendo
quell’antica vocazione, dalla quale può nascere uno dei poeti, narratori,
operatori culturali tra i più creativi e originali della sua e nostra
generazione.
Essergli amico e vicino, come mi è accaduto,
in varie riprese e in diversi modi di dire, di dichiarare, mi ha consentito di
addentrarmi in una avventura territoriale, che ha abbondantemente valicato i
suoi confini, confermando che la poesia, l’arte, la letteratura costituiscono
la vera arte dell’incontro, il quale non dovrà mai essere frettoloso e
superficiale, a rischio di ripetere schemi già precostituiti, soprattutto non
dovrà confondere, come in un ring, maggiori e minori, ma deve, con onestà
intellettuale e modestia critica, scoprire nuove isole, nella speranza che
possano diventare arcipelaghi di creatività e vitalità.
Bilotti si è rivelato un maestro, prima di
se stesso, che poi è il metodo più naturale per esserlo di altri, e poeta di
alto rilievo e degno di essere criticamente scalato in tutte le stazioni del
suo totalizzante percorso letterario.
***
È stato detto che ogni critico si occupa di
autori con i quali stabilisce una consonanza emotiva ed estetica, per un comune
modo di sentire, per una complice visione dell’arte e della sua funzione sia all’interno
dell’esistenza, sia della società, per il suo riverbero su ispirazioni e
azioni. Mai, come con Bilotti, credo sia esistita tale consonanza e, forse,
proprio per questo, addentrarmi nel suo spazio poetico, letterario, ma anche
esistenziale, mi ha restituito la consapevolezza del miracolo che l’arte riesce
a compiere, se nasce ed è realizzata in maniera del tutto autentica e,
soprattutto, fuori da ogni cristallizzazione, che la imprigioni a un ismo,
impedendole di crescere e di agire oltre ogni schema precostituito.
L’arte di Bilotti, oltretutto, da come si è
potuto desumere da quanto detto, presenta una poliedricità sorprendente e una
pluridirezionalità, che crea di per sé una fluidità e una percorribilità che,
pur traendo dalle radici liguri la sua ispirazione più naturale, direi
primigenia, arriva lontano e apre prospettive, forse ancora non del tutto
esplorate e ricche di soprese creative e critiche.
Sia, a questo proposito, ben chiaro un
concetto: ogni autore va sicuramente contestualizzato nella sua epoca, e
Bilotti appartiene per certi aspetti, come del resto chi scrive, al nostro glorioso
Novecento, e nel posto che non solo gli ha dato i natali e soprattutto dove ha
vissuto, ma è altrettanto innegabile che i grandi maestri, e Bilotti come ho
più volte ribadito in questa sede lo è, nella loro istanza di aprire nuovi
cammini, pur respirando il loro tempo e il loro spazio, creano una forma di
distanziamento, che li porta ben oltre i confini spazio-temporali, alquanto
limitati, della biografia intellettuale, dal momento che la loro poesia, la
loro opera parlano universalmente all’umanità di ogni tempo e di ogni regione e
ad essa propongono, da un lato, la revisione di schemi ormai desueti o
addirittura inautentici; dall’altro
l’apertura di orizzonti inediti o imprevisti, che ne fanno esemplari maestri
nazionali e internazionali.
Dopo aver ripercorso, dunque, anche
attraverso alcune opere fondamentali, il cammino artistico di Bilotti, vale
forse la pena, proprio per la ricchezza di contenuti e di novità che esso
propone, di focalizzare l’attenzione su alcuni punti di notevole importanza,
che meritano di essere imposti a una critica, non sempre affidabile.
Bilotti, nella cui poetica si respira una
biologicità naturale, intrinseca a un suo stesso modo di essere e quindi di
fare poesia e letteratura, non solo rifugge da ogni artificiosità ma, a
differenza di molta poesia contemporanea, troppo spesso nutrita di cripticità,
di intellettualismi, all’insegna di stravaganze concettuali e dissonanze
ritmiche, sa esprimere una forte emozionalità con la naturale chiarezza, che
non è solo della classicità, ma anche, e lo abbiamo sottolineato a chiare
lettere, del mondo orientale, che potrebbe persino condurre agli haiku
giapponesi, chiari, profondi, intrisi di simboli, di metafore, di cui anche la
poesia di Bilotti è estremamente ricca. Ma c’è di più: lo sguardo del poeta,
che, come la nottola, vede attraverso il buio della notte, compie una crasi tra
la bontà, che nulla ha di banale, di veraci sentimenti e la bellezza che si
legge nell’universo, perfino nelle cose e negli esseri più umili, ai quali il
mondo non sempre dedica attenzione e amore, non escluso il mondo animale.
Abbiamo, in tal senso, accennato a come in Bilotti mondo umano e mondo animale
si integrino e si confondano; anzi, si ribalta la gerarchia comune ed è dagli
animali, dal loro comportamento naturale che l’uomo, spesso malato di
onnipotenza, può e deve trarre insegnamento per un corretto vivere.
Universo classico, inoltre, derivante dalla
formazione mai rinnegata, e universo orientale, etica ed estetica sono solo
alcuni degli elementi, che, nella loro diversità, Bilotti fa convergere e
convivere, nel miracolo di un’arte che non vuole percorrere strade già
ampiamente battute, ma ha voluto e vuole invece, con il coraggio della
inevitabile solitudine che ne può seguire, sperimentare sentieri ancora tutti da
inventare e da scoprire. Del resto, questo è il cammino di un Maestro, che
avverte i segreti e le potenzialità della parola e specie della parola poetica.
Ed è in questa autenticità dei sentimenti, in questa profondità del sentire, in
questo bagaglio tecnico, che piega e dilata la parola ad ogni espressione, che
si delinea e si afferma il poeta, come accennato, spesso ignorato anche da
certo mondo editoriale, affamato di mercato e poco incline a fiutare, per usare
un termine che ci riporta al mondo animale, il vero, grande talento.
Ma, tornando alla capacità di Bilotti di
sintetizzare gli opposti o, comunque, le diversità, vale la pena di ribadire
altri due aspetti interessanti e significativi della sua poliedrica arte, che,
per quanto possano sembrare antitetici, finiscono col diventare anch’essi
complementari: una dimensione esistenziale e familiare e una dimensione sociale
e civile.
L’attenzione all’infanzia, di cui si è
parlato nella prima parte di questo saggio, presenta, è vero, una lunga e
attestata tradizione, da Leopardi a Pascoli a Pavese, e si potrebbe continuare
a citare esempi illustri e non solo italiani, come Wordsworth, ma l’argomento è
stato trattato da Bilotti nella sua prosa in modo del tutto personale, poiché,
riproducendo, sia pure con una inevitabile trasfigurazione letteraria, colloqui
amorevolmente familiari, non crea, come nei casi letterari segnalati, un mito,
da contrapporre all’infelice età adulta, ma la rappresentazione di una stagione
essenziale ed esemplare della vita avviene nella sua filosofica semplicità,
che, proprio per la sua naturalezza, attinge ed espone profonde verità, spesso
più vicine al bambino che non all’uomo adulto, il quale, come ha molto da
imparare dal mondo animale, altrettanto ha da apprendere da quello infantile.
Siamo, ancora una volta, di fronte a un consapevole capovolgimento del sentire
comune, secondo il quale l’adulto educa il bambino, quindi a un rovesciamento
della gerarchia precostituita, ad una biologica, appunto antioraria,
alternativa per affermare una nuova, autentica sapienza.
Tuttavia, è proprio questa visione alta,
sapienziale della letteratura, a generare l’esigenza di non ignorare le
problematiche sociali, che, del resto, non possono non riverberarsi e influire
sul quotidiano personale e familiare; ergo, le due dimensioni sono più
strettamente connesse di quanto si possa immaginare. E, se Quasimodo, nel
dopoguerra, fece una scelta radicale, e anche politica, che comportò
l’abbandono della poesia esistenziale per una più schiettamente civile, grazie
all’idea sacrosanta che il poeta, con il suo canto, può cambiare e modificare
il mondo, il nostro Bilotti si salva da una scelta tanto drastica, pur convinto
dell’alta funzione della poesia sulla realtà circostante; e si salva perché una
dimensione non contrasta l’altra ma la solitudine, il dolore, ma anche l’amore,
ossia tutti i sentimenti umani non fanno dell’uomo un’isola ma trovano in ciò
che accade intorno, nell’universo circostante, una fonte a cui dissetarsi o un incendio, come le
guerre, in cui bruciarsi. L’intuizione che entrambe le dimensioni si completano
in un interscambio continuo è ciò che permette al nostro autore di farsi
cantore di entrambe con uguale passione e profondità.
Passione e profondità che Bilotti ha profuso
e profonde ininterrottamente anche nella conoscenza e nella diffusione della
letteratura territoriale, di cui si è parlato. Non si può non dargli atto e
merito indiscusso di avere consentito al resto dell’Italia, e non solo, di
entrare nelle pieghe di un territorio non sempre conosciuto, eppure ricco di
sostanza letteraria, dai tempi lontani del Medioevo — non a caso si è citato il
sommo poeta Dante —, di percorrerlo con una guida sicura ed esperta per gustare
un’avventura culturale di sorprendente e straordinario valore. Solo un maestro,
un letterato, che crede fortemente nel valore salvifico della letteratura, può
evidentemente compiere un cammino simile, dilatando, come in tanti cerchi
concentrici, la sua attività instancabile: dal personale al territoriale, al
sociale. Siamo veramente di fronte a una dimensione universale dell’arte, della
cultura, totalizzante, come ho più volte affermato, dell’arte, della cultura,
che in un Paese diverso dall’Italia, non sempre molto riconoscente al talento e
alla fatica, avrebbe mietuto a tal punto allori, lo ripeto; sembra che solo una
critica giusta possa e debba testimoniarne il valore, anche e soprattutto se
ignorato superficialmente da molti.
Da quanto esposto fin qui, si deduce che la
qualità, che è poi anche la cifra, dell’opera di Bilotti, è la costruzione naturale,
ma allo stesso tempo sapiente, di un’armonia compositiva, sia sostanziale che
formale, raramente raggiunta nella poesia, se non in quella appunto dei grandi,
che trovano posto nella nostra letteratura, dove, lo ribadisco, se ci fosse un
valido metro di giudizio, meriterebbe di assumere un ruolo di rilievo, non solo
nazionale, come qualche critico ha sostenuto, anche il
nostro autore.
Siamo alle ultime battute di questo saggio,
che ha provato a fare luce sull’opera e sulla personalità di un letterato a chi
scrive molto caro, ma c’è ancora da chiarire in maniera diretta ed esplicita un
concetto sostanziale: seguendo l’iter
progressivo, evolutivo di Bilotti, risulta lampante la ricerca di una identità
poetica che, senza rinnegare la tradizione, trova la sua autenticità e la sua
unicità in una naturalezza mai scontata, in un’antiorarietà pienamente
consapevole, ossia in un percorso spesso controcorrente, per tutte le ragioni
ampiamente spiegate, al fine di creare un’armonica architettura, una morfologia
tutta nuova, tutta da scoprire.
La personalità, la produzione di Bilotti
interrogano e fanno riflettere su questo nostro tempo, cinico e troppo
barbaramente tecnologico, sulla funzione del poeta e sul valore della poesia.
Se la poesia, così poco letta oggi, specie dai giovani, può davvero, come crede
chi la crea e anche chi la gusta,
leggere oltre il leggibile, infilarsi nelle pieghe della realtà e
cogliere quello che occhi comuni non vedono per miopia o per superficialità, e,
quindi, stravolgere con un esperto e coinvolgente bagaglio di figure di
significato e di suono la percezione dell’universo, allora il lavoro, di
portata internazionale, del nostro autore non solo non può definirsi inutile e
superfluo per l’economia del mondo, ma può fare da apripista ai credenti nella
potenza della parola, di quel verbo, da cui del resto tutto è iniziato per la
stupenda avventura della vita e a cui tutto ritorna.
Francesco D’Episcopo
*Per una bio-bibliografia del nostro autore,
si consulti l’ottima scheda di Alberto Zattera, contenuta nel volume Dizionario bio-bibliografico degli scrittori
spezzini, a cura di Giovanni Bilotti, Egidio Banti, Alberto Zattera,
Accademia Lunigianese di Scienze “Giovanni Capellini”, La Spezia 2024, pp.
138-150.
Leggere una recensione simile è nutrimento per l'anima. Il professor Francesco D'Episcopo tesse una lunga, dettagliata disamina delle caratteristiche del poeta e critico ligure Giovanni Bilotti, e gli rende un meritato tributo. L'autore asserisce che "La personalità, la produzione di Bilotti interrogano e fanno riflettere su questo nostro tempo, cinico e troppo barbaramente tecnologico, sulla funzione del poeta e sul valore della poesia" e consente a noi lettori di addentrarci sul terreno minato di simili riflessioni e di molti altri contenuti eccellenti. Lo ringrazio e lo saluto con infinita stima.
RispondiEliminaMaria Rizzi