UNA GRATA E UNA STECCA
I giovani degli anni ’60 erano
un misto di innocenza infantile, di brame ostinate e tormentose, di appetiti
sessuali incontrollati e quasi da esaurimento nervoso, un ribollire di
sessualità in dosi, per fortuna, ben controllate dai genitori, i quali
faticavano a stare al passo con quei figli protagonisti della prima generazione
che non doveva lottare per la sopravvivenza e che, perciò, si rivolgeva ad
obiettivi di adempimento personale o di convivenza senza preoccupazione con gli
altri coetanei.La sala, per così dire, sotterranea del Cadorna, oltre che ad
offrire a noi giovani l’attrattiva del biliardo, delle boccette e dei giuochi
con le carte, costituiva un forte richiamo di carattere leggermente morboso a
chi si compiaceva nello spiare, non visto, l’intimità altrui.
Infatti, una porzione d’angolo
del soffitto era formata da una grata che dava sul marciapiede su cui il
passaggio dei pendolari diretti o provenienti dalla stazione era molto intenso
e frequente a tutte le ore del giorno.Tale struttura di elemento metallico
assicurava la chiusura di quel punto della sala senza impedire il passaggio
dell’aria e della luce. Attraverso i pertugi di quell’inferriata risultavano
ben visibili gli arti inferiori dei passanti e delle passanti. E’ noto come, in
quegli anni, l’uso dei pantaloni da parte delle donne non fosse diffuso come al
giorno d’oggi, essendo la gonna o, per le più giovani, la minigonna,
l’indumento più comunemente utilizzato. In tal modo quella grata del Cadorna
era diventata una specie di sala cinematografica affollatissima, nelle ore di
punta del pomeriggio, da molti di noi che, col naso all’insù, potevamo
scarrozzare con lo sguardo fino ad individuare il colore delle mutandine di
quante fanciulle, ignare d’essere poste sotto stretta osservazione, dovevano
transitare da quel tratto di marciapiede.
Alcuni di noi, dotati più degli
altri di formidabile colpo d’occhio, arrivavano al punto di identificare le
generalità della passante grazie alla conformazione più o meno allettante dell’arto
inferiore compreso tra il ginocchio e la coscia. L’approssimarsi della sera e
della conseguente oscurità poneva momentaneamente termine a quella che poteva
considerarsi una delle prime proiezioni a “luci rosse”.
Oltre quegli spezzoni di film
vietati ai minori di sedici anni, il salone sottostante il Cadorna offriva
degli appassionanti e frequentissimi tornei di biliardo a cui partecipavano
giocatori di tutte le età dotati di grande abilità con la stecca.
Tra questi primeggiava un certo
Renè, di cui tutti noi conoscevamo solo codesto soprannome. Renè, di
professione era sarto per uomo, attività che svolgeva in un bugigattolo posto
in un quartiere popolare in periferia di Saronno. Lì aveva una piccola camera
da letto con annesso cucinino e servizi ed un locale adibito a laboratorio dove
approntava pantaloni, camicie e giacche ad una ristretta clientela da lui
selezionata che gli consentiva un modesto tenore di vita. Sapeva destreggiarsi
con la macchina da cucire con incredibile perizia, tale da superare molte donne
sarte che attendevano a lavori di taglio e di cucito per la confezione di
abiti.
Ma la sua grande passione era
il teatro, che asseriva di aver fatto per diverso tempo qualche anno prima in
una compagnia della famiglia Rampoldi-Rame, la quale girava nei teatrini della
provincia di Varese e Como, rivestendo il ruolo femminile di Madame Pompadour.
Renè, frequentando il Cadorna, era entrato nelle simpatie di molti di noi per
la sua spassosa disinvoltura nell’assumere atteggiamenti e moine femminili,
grazie alle quali sapeva creare un’atmosfera di festosa ilarità, senza celare
in alcun modo la sua dichiarata omosessualità che, strano a dirsi, non ci dava
assolutamente fastidio. A tutto ciò si aggiungeva un certo livello culturale
che gli permetteva di discutere con noi di ogni argomento, arricchendolo con i
suoi moti di spirito non disgiunti da un’innata vis comica.
Alla clientela più avanti di
età del Cadorna non era tanto ben visto proprio per l’etichetta che si portava
dietro di pederasta incallito, la quale suscitava tanta disapprovazione da
parte di molti che arricciavano il naso di fronte alle pose così
dichiaratamente provocatorie di Renè.
Siciliano di nascita, ma da
molti anni residente nel nostro borgo, Renè, pur non essendo molto alto, esibiva
un fisico piuttosto asciutto che si completava con un viso espressivo in cui
gli occhi, agitati con moto circolare, la facevano da padroni. Sua
caratteristica inconfondibile era l’uso frequente di un intercalare pronunciato
per rafforzare certe sue affermazioni:
“Siete tenuti ad ascoltare e
non a credermi!”.
E noi che, per partito preso,
eravamo sempre in una posizione di controcorrente rispetto a certi modi di
pensare da parte di alcune persone più anziane del Cadorna, non condividevamo
tali forme di bacchettoneria quasi elevata a sistema di vita. Cosicché
giudicavamo Renè come una persona del tutto normale, astenendoci dall’entrare
nel merito delle sue atipiche tendenze, in quanto ritenevamo che esse facessero
esclusivamente parte della sua sfera privata di vita. Per di più era uno
spettacolo guardarlo giocare a biliardo, dove manifestava la sua più elegante
perizia e rara maestria al punto che, anche Ottavio e Massimo, tra i più bravi
di noi in quella disciplina, finivano sempre soccombenti nel corso delle gare e
tornei che, di volta in volta, venivano organizzati. Renè maneggiava la stecca
con delicatissima eleganza, mimando e ripetendo sempre la sua consueta formula
che ci faceva sbellicare dalle risa:
“Vedete ragazzi, la stecca va
come lisciata, passandovi sopra ripetutamente le mani, va vezzeggiata
insistentemente avanti e indietro, avanti e indietro, ma con quella morbidezza
doverosa come se si dovesse procurarle una specie di piacevole orgasmo e poi la
sua punta avvolta dal gesso celeste deve sentirsi oggetto di un manifesto
contatto labiale”.
Una sera capitò che Renè si
trovasse ad affrontare il Forloni.
Costui era un rozzo
industrialotto del luogo arricchitosi con la produzione e la vendita di scatole
di latta a produttori di dolciumi, biscotti e caramelle. Si vociferava che,
prima del ’45, fosse stato un esponente di spicco del fascio saronnese, per
farsi poi notare con il fazzoletto rosso al collo subito dopo il crollo del
regime. Era notoria l’avversione, l’ostilità incoercibile, e la ripugnanza che
provava per Renè, perché lo considerava un diverso ed un sottoprodotto della
specie umana, esternando apertamente in pubblico tali sue convinzioni.Con una
certa ostentata presunzione più volte aveva affermato di considerarsi il più
bravo giocatore di biliardo esistente, non solo al Cadorna, ma anche nel
saronnese. Come sogliono fare i villani rifatti, gettava sul panno verde una
cospicua mazzetta di mille lire, guatandosi intorno se mai ci fosse qualcuno
disposto a mettere sul tavolo un’analoga somma per disputarsela in una partita
secca al cinquantuno.
Renè si fece avanti tra la meraviglia di
tutti noi, ponendo in una buca del biliardo tutto il denaro che aveva e che,
forse, avrebbe dovuto utilizzare per pagare il trimestre di pigione di quel suo
laboratorio.
Senza darlo a vedere, Massimo,
Ottavio, io e tutti gli altri facevamo un intimo tifo per Renè.
I due cominciarono a giocare
molto cavallerescamente, mentre, in disparte, con rispettosa curiosità, stavamo
in grande ammirazione di Renè che riusciva a far carambolare le biglie,
determinando abbondanti bevute di punti da parte del Forloni. Se si tien conto
che il Forloni, ad inizio partita, aveva dichiarato che giocatori come Renè se
ne potevano bere un paio al giorno come uova fresche, è comprensibile la stizza
e la viva irritazione da lui provata, avendo ignominiosamente perso cinquantuno
a trentotto. Gettò con violenza la stecca sul biliardo, buttando quasi addosso
a Renè la mazzetta delle mille lire. E qui Renè superò se stesso, raggiungendo
il più altro grado di sublimità, con lo stringere la mano al Forloni come si
usa al momento delle presentazioni:
“Piacere e grazie, signor
Forloni, lei è stato sconfitto da Madame Pompadour!”.
Dopo aver gratificato di
parecchi insulti Renè, con termini indecorosi per un industrialotto ancorché
arricchito ed accennando a parti del corpo umano poco nominabili, il Forloni se
ne andò fumante di rabbia. Mentre saliva la scala, sentimmo che, a voce alta,
diceva a papà Aldo:
“Tipi di questo genere non ne
dovete far entrare al Cadorna. Questo è un posto per veri signori e non per
lavativi e facce di palta come quello che giocava con me!”.
Nel salone esplose una generale
risata liberatoria da parte di tutti noi e Renè mise a disposizione la somma
vinta per offrirci toast, panini e birra nel mezzo del tripudio generale che
accompagnava la sua trionfale uscita dal Cadorna, durante la quale, per non
smentirsi, si accomiatò da noi, pronunciando una delle sue frasi di rito:
“Buona sega a tutti!”.
Fummo universalmente concordi
nel considerare quella straordinaria serata come una singolare lezione di vita
perché poco bastava a farci sentire tutti egualmente entusiasti nel pianeta
illusorio degli anni ’60.
BREVE BIOGRAFIA DELL’AUTORE
Con la casa editrice La Riflessione ,
Davide Zedda – Cagliari , Dario Ghiringhelli ha pubblicato:
·
Una vita qualunque (2009).
·
Era un'alba o era un tramonto (storie di provincia negli anni '60) (2009).
·
Ambigui intrighi di provincia (2009).
·
L'amica scomparsa (2010).
·
Facezie, intemperanze e astruserie di famiglia (2010).
·
Una minuscola chiave (2010).
·
Due inseparabili vedettes (2010).
·
Crimini in palcoscenico (2011).
·
Bizzarrie famigliari (2011).
·
Delitti in fuorigioco (2011).
·
Sentimenti e delitti (2011).
·
Un liceo e velenosi misfatti (2011).
·
Un ricordo per mio papà (2012).
Attualmente l'autore sta completando un romanzo
ambientato in una casa di riposo per vecchie signore dove il commissario Del
Vecchio riscopre un rapporto di parentela con una zia affievolitosi negli anni.
La morte improvvisa della zia fornisce il destro all'investigatore per scovare
un assassino che agisce nell'ombra.
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