13 POESIE
di
Giuseppe Sciarrone
Percorso lirico
a cura di
Paolo Bassani
Nel
luglio del 2000 ricevetti l’ultima lettera del poeta e scrittore Giuseppe
Sciarrone da Messina: una lettera che sarebbe divenuta il commosso addio di un
caro amico. Vorrei citarne soltanto un breve passo: “So che Lei, mio dolce caro
e fedele amico, non si dimenticherà di me. A Lei soltanto, io -che sono così
riservato- ho affidato il ricordo delle mie sofferenze fisiche e psichiche”.Ebbene,
oggi -proprio per onorare la memoria di Sciarrone- sento il bisogno di
divulgare qualche sua poesia. Per tale ragione è nato questo piccolo opuscolo. Incontrai
per la prima volta la poesia di Sciarrone nel 1978, quando membro di giuria del
concorso letterario nazionale “Il dono” promosso dall’AVIS, fui colpito dalla
sua composizione (completamente anonima) che terminava con i seguenti versi: “Non
attendere uomo, che vacilli/ la fiammella
del tempo,/ che i vivi siano morti/ ed i morti risorgano”. Si può
dire che da allora è nata la nostra amicizia, vivificata da un costante rapporto
epistolare durato fino alla sua morte, avvenuta nel 2000. Custodisco quelle
lettere religiosamente come preziose pagine di altissima poesia e, nondimeno,
come espressione viva di umanità e di un’amicizia che mi ha profondamente
onorato. Sciarrone è stato dunque per me un grande amico, diventando un vero
generoso Maestro. A Lui, la mia poesia deve davvero molto. Le presentazioni e
note critiche dedicate ai miei umili versi sono state la testimonianza più
ambita. Ma non soltanto per questo ho deciso di ricordarlo. Io credo che il
valore di Sciarrone poeta e scrittore, nonostante le centinaia di primi premi
vinti in concorsi nazionali, non sia sufficientemente noto. Purtroppo, gran
parte della sua produzione, è ancora inedita. Mi auguro che il tempo, se è
galantuomo, possa fare finalmente giustizia, dando a Sciarrone il merito che
gli spetta nella storia della letteratura del Novecento italiano. Questo
umilissimo opuscolo vuole esserne d’augurio.
Paolo
Bassani
PAROLA
Voce
d’occulto strazio,
estrosa,
delirante,
peso
di lava nera sopra il cuore,
ebbra
intossicazione.
PAROLA,
risacca
spenta
d’onda
alta e sonora
sopra
il mio capo.
PAROLA:
che
senso ha raccogliere
la
tua corolla di spuma
nell’oceano
dell’essere
e
lanciarla
sopra
l’ala del tempo?
Ho
costruito in tanti anni
una
povera trama
di
spazi vuoti.
Chi
sono stato?
Zeus,
Prometeo, Spartaco?
la
lancia d’oro d’un dio
spendente
in una nuvola?
un
titano confitto su una rupe?
o lo
schiavo impazzito
che
sbatte contro il muro
le
catene divelte?
o
piuttosto una lacrima
ch’ha
voluto soltanto
accendersi
di luce?
PAROLA:
mite
colomba, occulta
nelle
mistiche volte
d’un
tempio gotico,
fuga
azzurra di nuvole
sull’immoto
silenzio
della
pagina bianca
dove
tutto il mio sangue è una preghiera,
una
notte che attende
l’acqua
chiara del fiume delle stelle.
COME UNA VOLTA
Una
bianca fiorita
di
pace stanca
s’affonda
nel cristallo dei tuoi occhi.
Sei
ancora, madre,
quella
di sempre, dietro la mia porta,
in un
esule trepido silenzio.
Un
tremulo tintinno
d’un
cucchiaio che batte
sulla
tazzina colma di caffè
mi
dice che comincia un altro giorno,
che
tu sei viva
e che
sei qui, come una volta, ancora,
bianco
aroma dell’alba
dopo
le lunghe notti
di
veglia sopra i libri
in
attesa del pane
così
scontato, faticato, amaro.
Come
una volta, quando questo figlio
era
un globo iridato nel tuo sogno,
un
petalo di fiore sul balcone,
proteso
verso il vento.
Questo
tuo figlio coi capelli bianchi
sulle
spalle ingobbite
e con
gli occhiali spessi di cristallo
sempre
chini sui compiti di scuola.
Tutte,
madre, le stelle del tuo cielo
si
sono incenerite sul torpore
di
questi segni rossi e azzurri, uguali,
che
traccio sopra i fogli.
Fra i
tuoi occhi pietosi e questa mia
plaga
inerte di vita,
l’implacabile
tempo e lo squallore
di
corrosi orizzonti.
Madre,
eterna fanciulla,
con
le braccia cadute
su
fulgenti mosaici di speranze.
Madre
che forse ancora,
come
una volta,
inventi
sul mio capo
girotondi
di nuvole,
spandi
odore di resine
e
risusciti il volo
di
farfalle accecate
nel
rassegnato carcere dell’anima.
Madre
che scagli ancora
dalla
vergine luce
di
lontananze ignote
il
tuo sasso d’amore
sulla
nebbia dei vetri del mio sonno,
angelo
muto dietro la mia porta
con
la piccola tazza di caffè
che
trema fra le mani.
LA BUONA TERRA
C’è
qualcosa di te fra queste zolle
addentate
dal morso
di
gramigne e di cardi,
qualcosa
che respira,
che
batte, che s’affanna
per
tornare alla luce.
Un
bottone di rame
con l’àncora
della Marina,
affiorato
dall’erba,
mi
ridesta il tuo sogno
tra
le brume dell’onda,
sopra
l’angusta tolda
intrisa
di salsedine,
sotto
le grandi stelle
di
stranieri orizzonti,
sogno
lungo, tenace,
d’un
ritaglio di terra
dove
il tempo s’allenta nella pace
di
più certe promesse.
Era
la “buona terra”
(così
tu la chiamavi),
la
terra salda contro i venti, amica,
ancestrale
richiamo del tuo sangue.
Quando
fu tua, la prima volta,
ti
togliesti le scarpe e vi passasti
a
piedi nudi, silenzioso, assorto,
come
chi scioglie un voto
sulle
lastre di marmo d’un santuario.
Così
tornasti contadino
nella
china degli anni
e
tornarono le pergole, i roseti,
i
filari degli alberi,
i
fiori del miosotis, il sambuco.
Tornò
l’amore antico dello sguardo
sulle
gemme dischiuse, la carezza
trepida
delle mani
sulle
primizie tenere.
Le
vidi, le tue mani,
che
ogni giorno segnavano una croce
sui
bordi del calendario,
più
scarnite, più pallide,
annaspare
una volta dietro i vetri
in un
ultimo addio.
Chi
sa, padre, se sotto queste zolle,
tra i
roseti selvatici, in un guscio
di
lumaca corroso,
si
nasconde una goccia
del
tuo stanco sudore
pietrificato
in gemma!
Ma
sui solchi distrutti è solo l’ombra
delle
tue mani inquiete dietro i vetri
della
finestra ora, per sempre chiusa
sulla
tua “buona terra”.
QUANDO LE OMBRE
PASSANO SUL MURO
Quando
gli antichi dei
reclinano
la fronte
sul
granito dei templi, e sale il treno
col
suo tremito lungo
nell’assorta
agonia
della luce,
una
folata d’ombre ricompone
immagini
sul muro:
passano
lente ondate di millenni,
cadono
senza suono
come
foglie tra l’erba.
Sulla
calce corrosa ora è una fuga
di
saette d’uccelli,
un
ansito di passi, un trasalire
d’improvvisi
ritorni, il filo bruno
d’un’antica
sorgiva dissepolta.
E tra
i cocci dei vetri sopra il muro
posa
l’ala d’un sogno di colombe.
Tutto
resta sospeso tra due voli,
coagulato
nel giro d’una breve
metamorfosi
d’ombre,
nel
segreto
d’una
vita celata
come
i muti riverberi del cuore,
del
gran cuore del Sud.
Poi
ritorna la notte,
la
mendica velata con la sua
fonda
coppa grondante di silenzio
e i
segni misteriosi delle stelle.
Poi s’alza
dietro i monti
la
gran torre del sole
sfavillante
di specchi, e il vento scuote
i
singhiozzi sommessi del carrubo.
Il
muro ridiventa una barriera
alta
compatta immota
sull’argine
d’un fiume
risucchiato
dal greto.
Sullo
schermo di luce, il buco nero
d’un
uscio che si schiude,
una
sedia, uno scialle,
ed un
vecchio che guarda,
come
in un pozzo vuoto,
nei
solchi delle mani
una
cenere d’ombra
LA RACCOGLITRICE D’OLIVE
Sei
lì dall’alba, povera formica,
incrostata
alla piaga sanguinante
dell’antica
miseria,
la
tua fronte canuta sulla terra,
una
pezza bagnata sulle grinze
della
nuca riarsa,
una
pena di secoli negli occhi.
Annaspano
tra l’erba,
storte
radiche nere, le tue dita;
trema
l’urna ricolma
delle
tue palme
sulla
bocca bavosa
del
sacco ancora vuoto.
Eran
così le mani di tua madre
poste
in croce sul petto,
sotto
il cielo
stupefatto
di niente,
le
sue logore scarpe rabberciate
con
filo di ferro,
accanto
al letto, presso il canterano
colmo
di stracci.
Era
così, ferrigno, nel tramonto,
il
sacco delle olive:
una
gola d’imbuto avida, nera,
sotto
il torchio dei giorni.
Eran
così le albe,
i
meriggi di fuoco,
i
gomitoli avvolti di silenzio
delle
donne in ginocchio presso i tronchi,
l’ali
delle farfalle irrigidite
nella
morchia dell’olio,
il
santino di carta sopra il cuore.
Era
così la fame, senza artigli,
una
sentenza millenaria, amara,
come
il pane scontato,
una
scaglia di sale sulla piega
livida
delle labbra,
e la
vita una trottola aggrappata
alla
china, ronzante sotto il volo
alto
degli angeli.
Ora
così, da sempre,
lenti
i ragni risalgono, la sera,
lungo
i fili, sui rami.
Ora
così, da sempre,
sola
rimane, occulta, inaccessibile
dietro
un fruscio di lamine d’argento,
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sull’albero
ormai spoglio,
come
nuda parola di Giustizia,
l’ultima
oliva
che
nessuno ha raccolto.
LA PASSEGGIATRICE DEL
PORTO
Piccola
donna
del
volto scarno e duro
che,
a tarda notte,
ancora,
sulle
lastre del molo
stai
aspettando qualcuno.
Gli
urli delle sirene
delle
navi che arrivano
sono
alti sopra il tuo capo:
non
ti chiedono nulla,
non
ti danno nulla.
E a
te nulla più importa
di
chi parte,
di
chi arriva,
di
chi resta,
di chi
sputa il suo scherno
sulle
ginocchia livide,
sui
tuoi fragili stinchi di bambina,
di
chi squarcia ancora
le
ferite dell’anima.
Anche
gli angeli passano alti
nelle
notti d’inverno, sopra i moli:
non
stendono la mano
a
coprire dal vento
quel
falò di giornali
che
arde fra due pietre
e
accende d’un riverbero di fiamma
le
tue unghie laccate
sulla
borsetta vuota.
Ora
non hai più forza
di
passeggiare.
Come
tralcio estenuato
il
tuo gracile fianco s’abbandona
sul
palo d’un lampione.
Alto,
freddo, lontano
è
quel globo di luce
fasciato
dalla bruma.
Anche
tu sei lontana:
una
scoria di vita
ove s’accoglie
la
stanchezza delusa
di
tutta questa nostra
povera
carne umana
aggrappata
nel tempo.
Per
la tua muta sofferenza, avvolta
in
fredda solitudine lunare,
ti
amo.
UN VOLTO SOPRA IL
VETRO
Sale
il treno del Sud
trainato
da lunghe
tese
funi di vento, e tutto fugge
da
una solitudine all’altra.
Nell’aria
dissanguata della luce
cadono
l’ore anonime del sonno:
solo,
a tratti, il sussulto
d’uno
scialle doppiato sopra il petto,
la
lama illividita d’un pensiero
che
scende dalla fronte
sulle
labbra riarse di calcina,
il
tremito sommesso
d’una
bottiglia vuota.
E tu
vegli, arenata nel profondo
silenzio
dei tuoi occhi.
Immota
si ritaglia sopra il vetro
la
stremata dolcezza del tuo viso:
palpita,
si sbiadisce, s’avvicina,
balza
incontro dai tunnel,
arde
con voce d’anima.
Di là
da quello specchio è la gran notte,
la
bufera ritmata di ferraglie,
i
monti che corrono,
ali
nere che inseguono,
l’eco
insonne, straniera,
di
porte che si chiudono.
E tu
vegli. Il tuo viso
è il
fiore della zagara
fermo
su un fiume fondo di memorie,
è la
bianca preghiera mormorata
tra i
propilei d’un tempio,
il
respiro dell’erba, nella sera,
sopra
i tetti d’ardesia,
la ràdica
del cuore
che s’affonda
impaurita nei chiodati
giorni
del Nord
pieno
del suo presente.
E’ la
chiusa corolla
d’ingoiati
singhiozzi sulle frane
dei
sentieri del sole.
Ed
ora, nella favola dell’alba,
tutto
il treno del Sud
è il
pallore d’un vetro
ovattato
di brina, col tuo volto
di
fanciulla poggiato sulla mano.
LA STANZA ACCANTO
Forse,
nella
stanza accanto,
c’è
un calendario al muro
che
nessuno più sfoglia,
un
fiore che appassisce,
l’ostinato
respiro d’un profumo
sul
guanciale del letto sprimacciato.
Forse
c’è
un vecchio, solo,
con
uno scialle nero sulle spalle:
quello
che si fermava per le scale,
gradino
per gradino,
con
il fiato spezzato
e ti
guardava
mentre
salivi in fretta.
Forse,
muto,
inchiodato alla finestra,
quell’emigrato
lacero
col
suo tanfo di treno e di sudore,
che
ti sorride timido e, impacciato,
ti
domandò qualcosa.
Forse
quella
donna dai grandi
occhi
scuri cerchiati di viola
che
ti si fece incontro
dal
profondo
del
corridoio buio,
la
vestaglia discinta.
Sempre,
nella
stanza accanto,
c’è un
brandello di pena
appeso
a un gancio
dell’armadio
serrato,
una
sedia in un angolo che aspetta,
l’ingorgo
d’una lacrima che anela
d’essere
luce
sopra
il tralcio fraterno d’un sorriso.
Mai
tu
varchi la soglia
della
stanza accanto,
e
rimangono sole
le
gocce della pioggia
sulle
lastre dei vetri
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nella
gelida nebbia allucinata
dello
squallido albergo della vita.
CIMITERI DI GUERRA
Forse
per un’occulta
volontà
d’espiazione
a voi
basta soltanto
dare
il povero senso della vostra
misura
umana
a una
landa di cenere sepolta
di
giovinezza lampeggiante d’oro,
ricomporre
lo strazio
delle
nostre ferite
nell’illusoria
pace
d’un
gelido reticolo di tombe.
Nessuno
sente il tremito convulso
fendere
le nostre ossa
quando
suona la tromba del silenzio,
nessuno
mai discende nel profondo
dell’attesa
dei morti
a
dirci il nome e il volto
dell’ultimo
caduto.
Strappate
le nostre croci
e
lanciatele insieme
contro
il cuore del tempo:
un
distante bagliore d’ali bianche
d’innocenti
colombe crocifisse
si
poserà sul mondo
e il
vortice della vostra storia
sarà
lo spazio vuoto
d’un
occhio allucinato.
Spezzate
le nostre lapidi
la
sonora menzogna delle epigrafi
sopra
i bronzi ed i marmi.
Ammucchiate
le nostre ceneri
in un
cumulo solo
al
centro della terra.
Rompete
l’urna del pianto
di
tutte le madri:
si
schiuderanno i semi
del
nostro sangue
nella
rorida luce d’una nuova
primavera
d’amore,
e il
sigillo dell’ultima parola
impietrita
sulle nostre labbra
si
scioglierà nel vento
in un
fraterno palpito
di
mani che si stringono.
Soltanto
allora nella nostra notte
discenderà
la pace delle stelle
e,
pietosa, la morte avrà il sorriso
dolce
d’una fanciulla
con
un fascio di rose sopra il seno.
CANTO DI COSE SPEZZATE
Tutte
le cose spezzate
hanno
radici d’aria,
foglie
vive di luce,
si
tengono per mano
sul
balcone del tempo
e
cantano.
Ho
sentito una corda di violino
gemere
nella polvere,
un
occhio di bambola
nel
vischio dell’asfalto
imprigionare
melodie di cieli,
cori
azzurri di nuvole:
un
frammento di specchio
riflettere
il sorriso d’un bambino.
Anche
i giorni spezzati
hanno
un suono:
tutta
la vita è il suono
d’una
lastra di vetro che si rompe
dietro
il nostro cammino,
ogni
istante.
Anche
il silenzio è il suono
d’una
cosa spezzata:
un
pianto, una preghiera,
uno
squillo di gioia
che
battono nel fondo
d’una
campana di cenere.
Suoni
segreti passano sul mondo,
si
calano in ogni angolo,
scrosciano
in una nuova
ricomposta
armonia.
Basta
sol che tu tenga
la
tua mano serrata sopra il cuore
e
ascolti.
Il
Nulla è il cerchio oscuro
di
chi non ha mai amato.
L’ULTIMO ASINO
Ora è
scesa
l’ancora
del silenzio
sulla
ruggine viscida dei vicoli.
Non s’ode
più, nel vento della sera,
l’ansito
del tuo fiato sotto il peso
di
fascine fruscianti sopra i muri,
il
tonfo del tuo raglio sulla quieta
danza
delle colombe.
Te ne
andasti anche tu,
così,
come
se ne va l’ultima favola
nell’infinito
murmure dell’onda
d’una
conchiglia fossile:
anche
tu, senza addii,
senza
fardelli grevi di memorie,
senza
annusare l’erba
ai
margini del sentiero,
senza
voltarti indietro,
senza
chiedere nulla,
senza
aspettarti nulla.
Te ne
andasti anche tu,
un
mattino,
col
mansueto stupore
della
tua testa pendula,
col
ronzio delle mosche
sul
tremito più stanco
della
tua schiena piagata,
tra
il cinguettio dei passeri
e il
respiro
bianco
dei fiori.
Nessuno
si fermò a guardare
i
tuoi garretti gonfi,
i
solchi della frusta sul tuo petto.
Nessuno
ti chiese quante volte
tu
cadesti in ginocchio sulle pietre.
Nessuno
raccattò
quelle
cose che lasciasti,
povere
cose
stritolate
dal tempo:
un
sonaglio di bronzo,
gli
sfilacci d’un fiocco,
il
ferro d’uno zoccolo lucente,
la
tua cavezza logora.
Qualcuno
ti sospinse,
21
con
un ultimo calcio, nella gabbia
d’un
metallico carro,
e fu
l’estremo addio.
Ma ci
sarà, romito fra le stelle,
ci
sarà pure un angolo d’Eterno
per
il pianto nascosto dei tuoi occhi,
per
il sangue che l’uomo
t’ha
rubato ogni giorno.
UN VOLTO DIETRO L’ANGOLO
Lo
vedi scivolare nella notte
come
il vento di luce
dei
fari d’una macchina
in
attesa sull’angolo.
Lo
senti, quello sguardo,
appuntarsi
e fissarti sotto il sole:
è un
frammento di vetro che s’accende
nel
mosaico di cenere
dei
tuoi effimeri giorni disseccati,
una
spina di fuoco che trafigge
la
compatta crisalide
della
tua solitudine,
la
rivolta d’un attimo
contro
il tempo e la morte.
Ma tu
corri, e la fretta
ti
pugnala alle spalle.
Corri
nel solco oscuro
della
tua storia,
lacerando
la vita.
E non
sai che quel volto,
nascosto
dietro l’angolo,
sei
tu stesso
che
ti guardi smarrito dal mistero
del
Cristo immemoriale,
sanguinante
in un
anfratto muto del tuo cuore.
JESUS REVOLUTION
“E’
terribile cadere tra le mani
del
Dio vivente” ( S. Paolo, Ebr. 10, 31)
Cade
la Tua parola
risoluta
e innocente
come
fuoco di folgore
sulle
nostre certezze,
torchia
la nostra argilla,
ineffabile
appello nella notte
dell’asfittica
nebbia.
Essere
in Te, Signore,
è
sgranare la vita
dall’incastro
del tempo,
correre
sotto il vento
della
Tua primavera,
sentire
nelle vene
il
gorgoglio rovente del Tuo sangue,
scavare
nel macigno l’acqua viva
che
libera dal peso
le
ginocchia stroncate,
affilare
la punta che trafigge
l’astrale
solitudine del mondo.
Essere
in Te, Signore,
è
spezzare le funi d’ogni ormeggio,
è
drizzare la vela
nella
furia dell’onda,
è
tradurre il Tuo Verbo
nell’incendio
d’un canto,
è
aprire il nostro cielo
a un
torrente di rondini,
è
vivere, ogni istante,
la
tremenda
salvifica
rivolta del Tuo Amore.
INDICE
CANTO DI COSE SPEZZATE
CIMITERI DI GUERRA
COME UNA VOLTA
JESUS
REVOLUTION
L’ULTIMO
ASINO
LA BUONA TERRA
LA PASSEGGIATRICE DEL
PORTO
LA RACCOGLITRICE D’OLIVE
LA STANZA
ACCANTO
PAROLA
QUANDO LE OMBRE
PASSANO SUL MURO
UN VOLTO DIETRO L’ANGOLO
UN VOLTO SOPRA IL
VETRO
Conobbi Giuseppe Sciarrone nel 1980, a Taranto, in occasione del premio "Città dei due Mari", che lui vinse per l'inedito, io per l'edito. Ci rivedemmo poi ancora una volta ad Ischia, quando vinse il "Maria Francesca Iacono" (ero presidente della giuria che esaminò - come sempre- gli elaborati in forma anonima) e per un certo periodo abbiamo intrattenuto un' amichevole corrispondenza, scambiandoci lunghe lettere (ne conservo ancora alcune) in cui trattavamo tutti gli argomenti che ci stavano a cuore ed anche i problemi che ci affliggevano. Poi la corrispondenza si interruppe, per colpa mia. Ma sempre Sciarrone è rimasto vivo nel mio pensiero. Quante volte avrei voluto telefonargli, anche prima del 2000, ma mi ha trattenuto sempre il timore che non ci fosse più, che dall'altro capo del telefono arrivasse una ferale notizia! Tra l'altro egli era originario, per parte materna, del comune di Serrara-Fontana, nell'isola d'Ischia.
RispondiEliminaMa basta con le malinconie. Giuseppe Sciarrone è stato poeta di grande spessore, con alle spalle una notevole formazione classica (era professore di latino e greco nei licei) che ha agito con molta discrezione sulla struttura non solo formale delle sue liriche. La sua colta sensibilità e la profonda umanità hanno costituito l'humus di un mondo poetico e di un prodotto artistico che -sono d'accordo con Paolo Bassani- avrebbero meritato ben altre fortune letterarie.
Pasquale Balestriere