Origina
da lì ciò che chiami mistero,
forse
schiva del mondo la sua fine,
o
assapora la fatica, il sudore di andare
oltre,
in cerca di luce
che non trova,
di
parole che non sa.
Uno
sguardo ti lascia, di stupore,
tra la
moltitudine di giorni tutti uguali,
ne
assapori in parte l’immagine lieta nel cuore.
Ti
fiorisce l’anima in quell’anelito chiaro
che
senti arrivare a sfinirti.
Capace
di rischiarare solo il mondo,
o
forse resistere fino all’ultimo
embricare
del silenzio, nell’ultimo sguardo
di un
addio.
(i clandestini)
Eppure,
anch’essi amano la vita maltrattata,
derisa,
come le radici la terra
che li
accoglie.
Il loro spazio opaco è
fatto
di
fuliggine e catrame,
e
vivono il tempo inutile dei giorni spersi,
senza
calendario, al solleone, alle nuvole sparse:
ripararsi
è ciò che viene loro consentito
negli
androni di periferia, nei sottopassi
del
metrò...e poi saltare il pasto
per la
stessa ragione di un congedo;
un’attesa
che portano nel cuore
mentre
l’estate li abbaglia, e li sfianca
il
peso del dolore.
Tutto quello che
hanno
è una
sorte: senza amore né onore.
Che struggente malinconia! Che sottofondo di pietà consumata, eppure rassegnata portano i testi della prof. Busà. Da veterana della poesia sa dare al verso il taglio di una pietra preziosa che emana i suoi riflessi e abbaglia per la precisa connotazione della luce che vi s'imprime...è sempre un privilegio leggere poesia come questa. Grazie
RispondiEliminaMirella Zangheri