Pasqualino
Cinnirella:DICOTOMIE
NELL’ESSERE
Edizioni
Il Fiorino. Modena. 2014. Pagg. 36. €. 5,00
Qui
c’è la vita in tutto il suo dipanarsi zeppo di contraccolpi
Mi
sono giunte oggi 9 maggio due opere di Pasqualino Cinnirella: una, vincitrice
del Concorso Letterario “Il Cavaliere”, edita con i caratteri di Edizioni Il
Fiorino, Modena; ed una di poesie raccolte in fogli stampati senza alcun
riferimento bibliografico. E devo confessare che fin dalla prima lettura i
versi dell’autore in questione mi hanno subito attratto. In primis per il suo
messaggio umano, civile, memoriale e fortemente emotivo, trasmesso con tale
comunicabilità da lasciare di stucco: un messaggio vicino a tutti noi per le
questioni dell’esistere e per tutti quei perché che inquietano e che dal
particolare si traslano, agevolmente, in sfera universale:
Debbo capire questi miei
giorni a scalare
che senza appigli mi rotolano
dalle mani.
Debbo capire perché
il tempo non frena le
stagioni,
perché la notte non ha riposo
anche senza luna che da
lontano
svela al plenilunio
segreti d’ombre dagli anfratti
e abissi di pensieri dalla
mante insonne.
(…)
(Debbo capire).
E
penso sia proprio questa la marcia in più di Cinnirella. Un dire semplice e
privo di tutto quell’armamentario retorico, di tutte quelle contorsioni verbali
di stampo “modernistico d’assalto” che caratterizzano gran parte della poesia
contemporanea. Il Nostro non è interessato a una forma che si distingua per
falsa originalità; non va in cerca di voli pindarici formali che suscitino
meraviglia, e che poi, in definitiva, nascondono tanta vacuità. Qui ci sono proposte
chiare e convincenti ed è questo che vince e convince della sua poesia. Dicotomie nell’essere il titolo della
silloge in questione. Un’opera che contiene proprio tutte le dicotomie del
vivere. Le contrapposizioni della nostra vicenda umana. Affermava Vinicius de
Morales poeta brasiliano amico di Ungaretti che la vita è l’arte dell’incontro
e che vita e poesia sono la stessa cosa. Non esiste definizione migliore,
credo, per inquadrare la poesia del Nostro. Qui c’è la vita in tutto il suo
dipanarsi zeppo di contraccolpi. Parlare di polemos
degli opposti di memoria eraclitea non è certamente sbagliato, dacché sono
proprio le contrapposizioni dell’essere e dell’esistere a dare forza a
quest’opera; le sottrazioni e gli addii:
Dal bandolo rifuso
non scorrono che fili rotti e
nodi
coi loro inevitabili intoppi
e soste di tempo e noia…
assidue (Sono come Penelope).
(…)
Restano lamenti poi
e un grido muto in gola
che addolora- come un addio.
Resti pure immobile allora
e in ascolto… senti che
scardina l’io.
(…)
(Sogno),
e
ancora le notti e i giorni, l’oggi e il passato, la vita onesta e quella
disonesta, quella civile e quella incivile, quella felice – il più delle volte
con ritorni al memoriale – e quella ultimativa, da redde rationem, di cui il Nostro sente un gran peso e da cui
scaturiscono meditazioni di portata non solo poetica ma anche
filosofico-esistenziale:
Oltre i confini della sera
dalla memoria insonne
dove restano coattati
in involucri trasparenti
ricordi inalienabili e
rimpianti
(contati da tempo in nugoli di
sogni
sulle palme operose e stanche)
questi,
travasano in sintesi di niente
o in stille tremule insipide
(nella ciotola ampia degli
anni)
la tua storia minima
dai pochi capitoli… e dal
finale insulso (Oltre i confini della sera).
E
d’altronde questa è la vita: e questo è
il sale e il pepe della sua essenza. Una simbiotica fusione di contrapposizioni
vicissitudinali che ne fanno un terriccio fertile per una buona confessione. Un
buon alimento per sostanziare una narrazione. E cosa è in fin dei conti la
poesia se non che il repêchage di momenti vissuti e decantati, vogliosi di
tornare a vivere? e cosa è se non che il rientro del nostro animo da una fuga
in spazi di fiorite primavere, o di decadenti autunni tanto vicini al nostro
esistere? e che cosa è se non che l’esternazione del melanconico sentimento del
correre di un tempo che implacabilmente tutto fagocita? e che cosa, alfine, se
non che quel tentativo di fuga e di affrancamento dalla precarietà del nostro
essere umani?
I fanciulli giocano alla
strada
lieti, ignari del tempo
che con fare impercettibile
li percuote… ci percuote
(…) (Nel
mio tempo di uomo).
E tanti i motivi ispirativi di questa vicenda
che in gran parte sembra distendersi su una strada da via crucis. Su un percorso che nasce dal dolore, e dal gioco dei
ritorni: melanconia, taedium vitae, pensamenti e
ripensamenti, illusioni e delusioni, e amore, tanto amore in queste pagine:
Non ebbi che uno squarcio del
tuo cielo,
un solo parallelo del tuo
mondo,
un lembo di te stessa.
Non mi fu concesso osare,
varcare confini
di quel poco io che mi donavi.
(…)
(Storia).
Amore in tutta la sua polisemica significanza,
in tutta la sua pluralità: per la donna, per la natura, per il Supremo, per
l’età dell’oro dove l’uomo era uomo, e rispettava quelli che erano e che
dovrebbero essere i canoni del buon vivere. Insomma un amore a tutto tondo.
Perché in fin dei conti anche quando il Nostro sembra scivolare in uno stato
d’animo di certo pessimismo sul vivere - mai comunque eccessivo -, è pur sempre
un sentimento che nasce dal rispetto e dall’amore per la vita. Per questa
meravigliosa avventura in cui crede ed ha sempre creduto. E da cui ha preso
sempre ispirazione per il suo canto. Un substrato questo che corre come un
fiume carsico ora sotterraneo ora in superficie; ma pur sempre ricco di acqua
fluida e cristallina a dissetare in un poema ricco di sano umanesimo, e di
slanci lirici di rara fattura:
(…)
M’accoglie questa luce
nell’aria
che l’anima schiude come le
corolle
dai calici verso il sole.
E levo piano le mie mani al
sole
e canto alto alla vita un inno
un salmo – che invento dal
profondo (Portato dai fogliami il vento).
E
anche quando la coscienza della precarietà umana e dello spazio ristretto in
cui siamo destinasti a vivere sembra prendere il sopravvento, c’è sempre una
virata in questo “poema”, una virata che ri-porta il poeta a credere. E lo fa
anche affidandosi all’atto onirico, a quell’azzardo che fa dell’uomo un essere
votato all’azzurro. Sì, uno slancio verso mondi che superino lo spazio
ristretto del nostro soggiorno, e che avventurino le nostre memorie in alcòve
di edenico sapore, in alcòve rigeneranti:
(…)
Coglieremo nella quiete,
nell’angolo in penombra sul
sofà
grappoli di sogni appesi alla
memoria
tra pampini d’attesa
e brilleranno le iridi che
sanno ogni cosa
del mio travaglio a vivere ( Se
con me rimani),
dacché il sogno fa parte della vita come ne fa
parte la morte. E chi dice che non sia proprio l’idea della fine, della
sottrazione ultima a dare vitalità e consistenza all’idea stessa della vita.
Una vita che spesso trova rifugio in rievocazioni che equivalgono tanto ad una
volontà di prolungare il cammino di questa nostra esperienza terrena. É lì che
spesso il Nostro si rifugia: in tempi e luoghi dove il rispetto e la
fratellanza fra gli uomini aveva delle salde radici; dove la madre eterna, che
in ogni poeta ha sempre avuto consistenza ispirativa, era sacra e intoccabile, e a lei si chiedeva aiuto come
ad una sacra divinità; e lo fa con un confronto impietoso misurando il tutto
coi tempi attuali, in cui si è perso il senso del bene e del male e dove la
natura è vissuta solamente come territorio da sfruttare:
(…)
Sull’orlo sferico del globo,
dove l’uomo su l’uomo
s’avventa,
solo Caino si rinnova,
per rendere ancora vano
quel grido d’amore similare
che dal Golgota… ci fa eco… a
Calcutta (Meditazione).
É da qui che si snocciolano versi di un realismo-panico
di tale potenzialità creativa da offrire sinfonie di struggente resa lirica.
Ho sognato fuochi sull’aia.
Erano quei falò di festa
nelle sere estive con canti e
risa
intorno al gioco vivo della
fiamma.
Remota realtà fuggita e mai
goduta tutta
come i bei sogni nei mattini,
sveglio d’improvviso
(…) (Ho
sognato fuochi sull’aia).
Il
poeta ci prende per mano e ci porta su aie dove i falò nelle sere estive erano
esplosioni di gioia; feste genuine e vitali, di risa e sorrisi, di abbracci e
di gioie; di ammicchi e sorprese; mentre ora l’uomo si avventa sull’uomo, e
solo Caino si rinnova.
Un
poema di polisemica valenza dove il verso con tutte le sue varianti metriche
ritratta timbricamente gli input
emozionali e tutte quelle cospirazioni intime tese a convertire in gaudio le
lacrime. Così si alternano con certa eleganza e padronanza prosodica misure
brevi a misure più ampie per dare consistenza alla duttilità del sentire; per cristallizzare
in poesia una natura che con i suoi magici poteri ha un ruolo determinante nel
rivelare i panici sperdimenti esistenziali del poeta:
Porta dai fogliami il vento
l’odore dell’erba
e dei pollini annuso i profumi
vaporosi
nll’aria sparsi dalla brezza d’aprile.
Godono gli uccelli questi
spazi tiepidi planando
e canti hanno nel migrare
dolcissimi.
(…)
(ibidem).
E
anche se l’Autore, cosciente della vicenda umana, si congeda con versi intrisi
dell’ultimo sole di ponente :
Sento che non ci sto più
dentro le file.
Solo fra gli altri che mi
travalicano ai lateri
sto a guardare ormai il mio
sentiero che abbandono
irto a questo peso di carne
che s’aggrava nei giorni
mentre brilla ancora dalla
vetta
la mia chimera impossibile
all’ultimo sole di ponente.
(…)
(Congedo),
lo
fa affidando alla poesia il compito di tramandare ai posteri almeno i pochi
monili del cuore appuntati… alla sua roccia friabile. Lo fa affidandole il
compito di sfiorare cime dove poter trasferire il carico della vita:
Amorosa pena, felice strazio
che ti neghi
al mio sogno nell’ora, essenza
che
divelti e scardini il ceppo
su cui poggia il mio dissenso
a vivere
e la noia… se tu per sempre
alla mia mente muori
(Amore e poesia).
Nazario
Pardini
17/05/2014
Carissimo Prof. Pardini sono talmente frastornato per tutto quello che a momenti ho letto, che non so come dirLe quel più sentito grazie di cuore. Non credevo, anche se lo speravo, suscitarLe tanto e tale interesse nelle mie poesie. Lei ha il dono incommensurabile di critico vero, puro, chiaro e profondo. Mi sono rispecchiato fedelmente nella sua disamina dei miei versi. Grazie, grazie e ancora grazie; andrò a letto con il cuore che mi sorride. Pasqualino Cinnirella
RispondiEliminaLa lettura delle poesie di Pasqualino fatta dal prof.Pardini è completa ,profonda ed empatica.Pur conoscendo le sue opere,non sarei stata in grado di farne una disamina così attenta e critica, che condivido in pieno,pertanto non posso non complimentarmi con il Professore per le belle parole che gli ha dedicato.
RispondiEliminaA Pasqualino rinnovo i miei affettuosi complimenti per il premio e tutta la mia stima
Graziella Carletti