Aurora De Luca |
“[..] il suo continuo ardire e discoprire,/il suo coraggio eterno di sfidare/il mare nero, lo scoglio e le sirene,/ quella pazzia di un fuoco che ci fa/scintilla degli dèi, impronta del divino,/bocci di libertà.” (da Il volo di Icaro)
E’ la poetica del
tempo imperfetto, il canto lirico del passato in divenire, brumoso, opaco, il
verbo di una velata malinconia, dell’azione che faceva ed ancora fa.
Il primo testo, “Il
volo di Icaro”, ha la maestosità ritmica della poesia epica, ed è forse, per
mio modo d’intendere, la vela spiegata dell’intera raccolta: la giovinezza
dell’uomo è arditezza e follia, un “volo troppo arduo” che ci sperde in “cieli
fra le stelle”. Segue ad essa “Elegia per Lidia”, cos’altro se non il
sentimento? Si apre così già il tempo imperfetto “ed oltre i davanzali le tue
mani/coglievano gli steli delle stelle.” , l’azione che si perpetua dietro le
spalle. Quasi a dire la rapidità del tempo, un volo per l’appunto, una vista di
bellezza dall’alto, un balzo d’onnipotenza durante il quale la corporeità è
pari all’invincibilità dell’anima. Subito dopo il tempo imperfetto.
E iniziamo a
parlare chiudendo gli occhi, aprendo buchi da cui tirare fuori emozioni più
forti, immagini più vivide che promettano al futuro “avelli riempiti di colori”
dove “danzeranno beate le fiammelle,/ linguiformi falò, apriranno i cieli”. Che
ad un tempo imperfetto si accosti un tempo futuro è immagine poetica, di ciclo,
di superamento del limite.
I testi che seguono
si fanno pieni di belle immagini, di fragranze, di suoni, di echi che
ribattono, di schiamazzi e scalpiccii “E pensare, ricordi?, che riuscivo/ a
silurare il cielo colle pietre /convinto di bucare anche le nubi”. Belli gli
enjambement che lasciano al verso ancor più visioni: quel “riuscivo” gonfia la
chiusa dell’intera poesia e le dà il peso degli anni.
“L’albero gemma.
Inflorescenze candide/ si aggrapperanno ai rami come figli/ ai seni delle
madri. L’aria si apre [..] Ritornato/ sono per rivedere il primo verde [..] La
cimassa/ si rifletteva ai garriti delle rondini”: il poeta ritorna e ritorna a
Primavera, quando l’aria si apre. Presente, Imperfetto e Futuro giocano e
tessono con fili sottili, e non c’è più freno, il tempo dissolto vaga. Le
sonorità si fanno rotonde, l’andamento si dilata, le immagini rievocano.
Possiamo ben sentire il suono degli Zufoli e leggere nella mente i propositi
segreti della classe: siamo anche noi dissolti nel tempo, abbiamo alle spalle
le ali di Icaro, canne alle golene e “Davanti [..] c’è un guado,/ un guado che
riporta/ quest’uomo ormai attempato/ all’altra sponda.”
Ma se tutto sembra
navigare in cose che non hanno più presenza, che non sono più, ecco che “Il
peso delle pietre” ci fa riaprire gli occhi: “E ci portiamo dietro questo peso/
di pietre graffiate da nomi/ di padri e di madri/ volati all’azzurro/[..] Lo
porterò con me oltre quel fiume/ quel sacco di pietre aggrappato alle spalle, /
lo renderò leggero, lo renderò piuma [..]” Il poeta torna ad inneggiare ad
Icaro, alle sue ali, cui però pone il peso di un’intera vita, e all’audacia
giovanile accompagna sogni maturi, visioni di completezza : “Mi è nemica/ la
mancanza di forza e di energia/ che l’anima possiede e ne invola/ lasciando
attero a terra/ l’involucro che più ormai ne è vela”.
Il ritmo poetico si
è fatto sincopato, non rapido, né appuntito, quasi a seguire il battito più
forte di un cuore vivo. In particolare “Il peso delle pietre” e “Volerei felice
fra le reste” ( da cui ho tratto i versi precedenti) hanno l’andamento di una
canzone commista di violini e bassi, ma rap.
Il tutto si chiude
con “Fiume” e una domanda : “Lo sai tu dove corri?”, l’idea tanto umana che la
conoscenza difetta, e l’idea tanto divina che la conoscenza rende immortali.
DA "I CANTI DELL'ASSENZA"
Il volo di Icaro
Attratto dai richiami del meriggio
volò alto,
alto volò toccando cime immense,
azzardi che gli umani
cercano con l’anima e la mente;
ma ci si può bruciare
se il volo è troppo arduo,
si annullano in abissi senza fine
le nostre identità;
sperderci oltre la siepe,
o in cieli fra le stelle
è un naufragio per la nostra essenza.
E tu Icaro,
privo di remeggi, a braccia nude,
senza appigli,
brancolasti in vertigini d’azzurro
quando l’astro di vita e di morte
ti rammollì la cera.
Cadevi impaurito,
risucchiato:
“padre, tu che mi hai dato il volo,
aiuta questo figlio, dagli l’ali,
che il cielo non mi regge
ed io sprofondo incauto negli abissi.
Padre, io sono qui,
corrimi incontro, arresta il mio naufragio,
tu puoi, con il tuo amore
e il tuo superbo ingegno”.
“Icaro, Icaro dove sei?
dove giace mio figlio eterni dèi?
Ditemi alfine! Ch’io sappia almeno
ove cercare; carne della mia,
figlio imprudente, dove il volo tuo
lontano dai miei occhi. Cosa fare?
che cosa potrà fare questo padre?”
Ma d’Icaro la bocca
fu chiusa dalle onde di quei pelaghi.
E quando il genitore
scorse le vane piume
sparse sull’acque a sfiorare gli scogli,
non poté che ergere un sepolcro
in terra d’Icaria.
Maledì la sua arte ed il destino,
gli azzardi degli umani, le imprese folli,
la violenza del cielo, il regno del sole,
maledì quella natura umana,
il suo continuo ardire e discoprire,
il suo coraggio eterno di sfidare
il mare nero, lo scoglio e le sirene,
quella pazzia di un fuoco che ci fa
scintilla degli dèi, impronta del divino,
bocci di libertà.
29/12/2013 h. 10,30
Elegia per Lidia
Ritornerai tra gli alberi e sui campi
quando l’autunno
lacrime rubino
gocciola a terra,
fiore di stagione.
Brillava di passione
l’occhio glauco
ed oltre i davanzali le tue mani
coglievano gli steli delle stelle.
Quando il profumo volerà per terra
(che sepolta ti tenne
per mill’anni)
ritorneranno i fiori inebrianti
di giovani corolle ricamati.
Tingeranno caverne, forre e prati,
vinceranno l’odore della morte.
Lontano sarà il giorno dell’addio
ed il viola dei tappeti al muro
che tennero la bara del tuo rosa
trapunterà di vita la campagna.
L’assenzio spargeranno nelle stanze,
che videro i tuoi crini
sciolti a caso,
fiori rinati
che più sul nostro suolo noi vedemmo.
Si apriranno gli avelli
e fauni belli amanti dell’amore
suoneranno negli incavi nascosti
flauti imprestati
dagli angeli dei cieli.
Non ci saranno veli
a coprire l’innocenza.
Squilleranno le trombe i Serafini
ed ai confini dei mari
compagnia ci faranno le bellezze
che le brezze mortali di nascosto
rapirono le notti
negli abissi.
Fissi negli occhi i giorni leggeremo
di quando si correva
sopra i sogni
stanchi giammai di abbracci e di carezze.
Sui colli danzeremo,
sopra le acque
al tinnire frequente
che mai tacque
l’aria imbevuta
dei nostri desideri.
E attorno ai cimiteri anime bianche
sugli avelli riempiti di colori
al canto degli uccelli variopinti
danzeranno beate e le fiammelle,
linguiformi falò, apriranno i cieli.
15/09/1995 h. 17
Novembre
Novembre
ascolto i silenzi dell’anima
sugli umidi campi di saggine,
sulle brine che si levano ora
all’aurora di un sole impoverito.
Ascolto i silenzi dell’anima
che pésca nel fondo
di un profondo fiume
dove a stento la vita s’allunga
accecata
da stelle brillanti riflesse
sull’acque disperse.
Ascolto novembre
i silenzi ed i suoni
che afoni mi si perdono dentro:
indistinte figure,
sciupature di un tempo,
ferite profonde,
cicatrici nasconde il silenzio
che rileva l’assenzio
del giallo novembre.
01/11/1996 h. 23
Lo stradone di scuola
Sono i solchi carrabili sbilenchi
che incidono il tuo corso anche se pieni
delle spoglie giallastre del settembre.
Lo stradone di scuola. Eppure perdi
le verdi scaglie come un serpe obliquo
in cuore alla campagna e mi dilati
i cigli luccicanti di rugiada
per rivestirmi il seno del fruscio
della carta di un libro. Mormorava,
con la voce un po' rauca dei suoi righi,
parole che levavano lo sguardo
sul volto del maestro. Sempre primo
con la bici coperta di fanghiglia
e i gancetti alle balze, mi rapiva
da quello scantinato padronale
che gocciolava sogni sopra il banco.
Giungevo infreddolito, ma la porta
chiudeva fuori sguardi sulle zolle
verdeggianti di aprili anche a dicembre.
Che lanciavamo sassi ti ricordi?
Erano così veloci che anche i falchi
restavano di stucco nel sentirli
sibilare nell’aria. Si sperdevano
e ancora non li ho visti ricadere.
Senz’altro hanno percorso un bel tragitto
se dura più del tempo di una vita.
Bella gara. Presa proprio di petto.
Depredavamo i pioppi di forcelle
per fionde che affondavano radici
nel terriccio dell’anima. Mi provo,
quando nessuno vede, ad impugnare
un cimelio di fionda. Da un tuo ciglio
miro dritto alle cime e scaglio il sasso,
ma guardo attorno e quasi mi vergogno
per come vola basso e poi ricade.
E pensare, ricordi?, che riuscivo
a silurare il cielo colle pietre
convinto di bucare anche le nubi.
25/09/1997 h. 18
Sera di casa mia
L’albero gemma. Inflorescenze candide
si aggrapperanno ai rami come i figli
ai seni delle madri. L’aria si apre
chiara nel cielo. Sfioriranno i gigli.
I narcisi sui prati e sopra i fulgidi
balconi di paese. Ritornato
sono per rivedere il primo verde
che evade con il raggio del mio prato
il fumido maggese. Nelle ataviche
gesta dei paesani o nei cortili
dai cimoli macchiati che si affacciano
alle crepe dei muri, degli aprili
voglio vedere il volto e respirare
l’aria buona di casa. Ascolterò
i primi piedi scalzi di un bambino
nella strada sterrata tra i rondò
dei cipressi giganti. Là i verdoni
covavano già le uova per le estati.
E i passi di mio padre ammorbiditi
dai tappeti terragni ormai sbocciati
alla vita novella. Sarà là
che poi mi recherò coi miei amici
sui rami debordanti
dei ciliegi maturi. Alle pendici
correremo in peduli per sfidare
la corsa della vita ove una casa
attendeva alla sera il mio ritorno
con guance affaticate. La cimasa
si fletteva ai garriti delle rondini
puntuali agli aprili ed io gridavo
litigioso con te fratello mio
paziente per la luce che spegnevo.
Non sarà più la sera che calante
annuncia solo un giorno che va via
coi suoi colori vecchi. Declinante
il segno non sarà della mia vita
volta a rammemorare. Alla natura
riaprire le finestre di un ostello
non varrà che annunciare alle mie mura
colori di serate ritrovate.
10/10/1997 h. 22
Presto ritornerò
Presto ritornerò sull’imbiancata
strada di gesso ai meridiani soli
girovago nei campi. Attenderò
che muta la mia sera stenda il velo
sull’aria macerata
alla sua fine. È allora che gli stuoli
del popolo dell’anima che andò
rapido al vento del piovoso cielo
rivedranno la vita. Immaginari
ritorneranno i trilli della rondine
radente i grani; e i volti degli amici
tumidi di sorrisi su scenari
traboccanti di luce e con me in ordine
sparso sul suolo delle mie radici.
20/06/1998 h. 18
Zufoli e fili d’erba
Quanti eravamo a stridere gli zufoli.
Li depredammo a canne di golena
fruscianti ai freschi erbali straboccati
dai gomiti del fiume. Tutte note
che uscivano dal premere
i tasti a caso. Andavano nell’aria
come spiriti liberi dal gioco
rischioso della vita. - Ascolta il mio!
È tanto eguale al gorgo che si strozza. -
- E tu che fai, non suoni? A cosa pensi,
perché resti da te? - - Su, dai, suoniamo
gli zufoli di canna, è tanto bello. -
- Immaginiamo di essere un’orchestra
di veri musicanti che in concerto
suonano melodie per la platea.
Oggi è di festa. Via! Quasi è di giugno.
La scuola ormai è alla fine. - Anche se acerbi
i frutti dei nostri anni li mangiammo
prima di maturare. Poi le note
divennero perfette
e i frutti amari dove le cannelle
non ebbero più forza di donare
i flauti finti fatti per stonare.
Usammo anche le foglie verdeggianti
e colle labbra
(ci soffiavamo a forza tutti i sogni
da uomini precoci) emettevamo
note così stridenti come i gemiti
delle cornacchie. E lo facemmo a scuola
un giorno in cui tra i lampi ed il buiore
sembrava che cadesse il mondo a terra.
Ma era tanto attento
l’orecchio del maestro. - Carlo fuori!
E tu e tu e tu! - E noi insistemmo
a stridere coi fili luccicanti
di eterne primavere sopra i prati.
Ed era già d’inverno. Non sembrava.
L’oscuro nella classe
serviva solamente a mascherare
propositi segreti: canne alle golene
e i fili d’erba avena a primavera.
12/10/1999 h. 15
Ottobre
Era d’estate quando della vita
riflessero i barbagli. Allora vissi
la fantasia che esplose lucentezza.
Poi giunto è ottobre a mietere le foglie
di una stagione che ha reciso il sole.
La vigna saccheggiata lascia i resti
dell’ultimo raccolto. Muta e scarna
nei suoi colori morti mi dà il senso
di un suo perpetuo addio
(l’autunno mio trabocca di ricordi
che evadono invecchiati all’imbrunire).
Niente di più vicino, ora che freme
sulla distesa vana del mio piano
il tramonto del gelso, a me risulta
che il palpito ottobrino. Scorre languida
dei riflessi marciti sotto il platano
l’acqua che è sonnolenta. Va a scurire
all’ombra della volta abbandonata
del suo vecchio mulino. Il frutto cade
del giorno ormai maturo ed è la notte.
07/11/1999 h. 10
La mia casa
- Perché mi parli sempre di una casa
di due stanze con nell’ombra un po' in disparte
un focolaio a struggere un gran ciocco
pigramente; e di un tavolo nel centro
costruito con il legno
di un ciliegio reciso; e della nonna
a stendere la pasta al matterello
o a usare la ventaglia sul fornello
che spolverava cenere;
e degli oggetti in rame; e lungamente
di quel paiolo adorno di faville
che s’immillavano in alto. Le volte
che mi hai parlato della vecchia casa
in cui abitavi, padre, saran mille. -
- Ma guarda che mia madre era tua nonna,
anche se mai l’hai vista! E quel camino
era meraviglioso coi suoi schiocchi.
Sembravano dei fuochi d’artificio. -
- Sì. Me l’hai detto. - - Allora ti racconto
dell’inverno mio amico. Penetrava
frusciando da fessure, s’inoltrava
nella stanza, poi andava alla finestra.
Alzava la tendina e in cuor gioiva
di vedersi l’autore, tutt’intorno,
di una campagna a stelle in filigrana
candide come il latte. Parlavamo.
Quante cose diceva. Poi tuo nonno... -
- Cosa faceva nonno? - - A tarda sera
andava con la torcia sulla neve.
Vedo ancora la scia. Io credevo
lo facesse per gioco. Quando vecchi,
si ritorna bambini. - - E invece? - - Udiva
gli schiamazzi di galline. Andava giù,
rumoreggiava intorno e le faine
prendevano la strada per i campi. -
- Le faine? - - Allora t’interessa
la mia casa. - - Sarei proprio curioso
di vederne le stanze, i campi bianchi
della neve notturna e i fiocchi lievi
fruscianti sotto l’occhio di un inverno
che racconta le storie. E tu ci andavi
nel candido cortile o per il prato
a sprofondare i piedi con tuo padre? -
29/12/1999 h. 24
Ma se restava solo
Era proprio il settembre
a indebolirsi l’animo ai tramonti
anche nel contraddire per ripicca
il senso della vita.
Era quel mese,
per via di foglie secche e tante storie.
E se un grumo di stormi staccava i colori
chiamava l’azzurro e l’agro dei cipressi
a ingannare il verde odore della morte.
Truccava anche la notte con a luna
per simulare i getti dell’estate;
esorcizzava il tempo con tre fronde
che impavido vestiva da ragazzi
per ostentarli come suo vigore.
Se il sole tramontava alle colline
quasi per mascherarne le ombre
s’indispettiva. E svelto rigonfiava
il mare di un aspro salmastro.
Spaccava anche le nubi con buttate
infiggendo gli abeti nel cielo.
Non si arrendeva.
Aveva sempre frecce da scagliare.
Ma se restava solo, nella sera,
si abbandonava un po' alle sue memorie.
Cespiti in boccio
voci di sorgente
occhi indomiti da equino all’età
che aveva gli anni della primavera.
15/09/2001 h. 17
Il profumo della giovinezza
Un ricordo qualsiasi e quel giorno
pieno di luce che torna reale
a illuminare l’anima. I bei volti
che fanno giovinezza e che sprigionano
la voglia della vita. Mi guardavi
un po' vaga e distratta
senza affrontare sul serio l’amore.
Ed io che ti perdevo. Inutilmente
restarono i tuoi occhi appiccicati
alla mia resistenza. Giovinezza:
sortivi il tuo profumo
intento ad un sorriso dolce amaro.
Ed i falò sul mare, le nottate
a cacciare la luce del mattino,
le corse a piedi nudi sulla sabbia
arroventata. E tu che mi guardavi
con aria sospettosa.
Andiamo ancora insieme in quel paese:
quello con la piazzetta in mezzo ai tigli,
quello del barettino che ci offriva
il cioccolato caldo. Andiamo, andiamo
tu ed io soli, giovinezza, andiamo.
Ritroveremo nel verde dei tigli
gli occhi fugaci della nostra Delia.
Quanto profumi ancora! Il tuo sapore
sa di mare, di campo, di verbena,
sa di gioia, tristezza, di vaghezza;
sa d’amore, d’amore sano e puro
di un tempo fisso in seno. Forse là,
là dove il cielo incontra l’orizzonte,
resistono gli sguardi
a un’aria che sapeva di speranza.
Si chiudono le imposte al mio paese;
tornano a casa i giovani, ma tu
ti trattieni con aria indifferente
sulla panchina della piazza verde
a seminare amore.
09/10/2007 h. 21
Oh terra di novembre
Si raccoglie in campagna il cimitero
dei tanti miei vicini. Oggi è novembre,
il giorno dei defunti, ed ogni anno
mi chiamano all’incontro. In mezzo ai campi,
fra le distese di terra coltrata
e all’aria fresca di sole e cipressi,
sono da voi, miei cari,
sorridenti sul marmo. Mi avvicino
alla tua effigie consunta, fratello,
per parlarti dei nostri tempi in terra.
Forse allora poco dicemmo;
presi dalla vita,
dimenticammo forse quanto breve
sarebbe stato il fascino del sole.
Ma il tuo sorriso ancor di più ricorda
la maschera al dolore. La mia voglia
è quella di restare assieme a te,
di abbracciare il tuo volto,
di parlarti di noi con il rimorso
di un silenzio passato. E tu padre,
vicino alla tua terra, le cui zolle
battesti con il maglio; e tu madre,
sempre lesta alle brine mattutine,
ascoltate dal figlio,
che veglia accanto a voi,
il pianto suo perenne ai vostri marmi.
Oh terra di novembre! Il tuo riposo
sia vigile ai miei cari. Ti respiro
ora che vanno i roghi di fascine
a perdersi lontano. E ti rivivo
novembre di dolore e di riposo.
Mi aiutano gli stecchi volti al cielo,
i campi abbandonati ai sagginali,
le gazze sopra magre prode spente,
e i canti delle tortore mi aiutano,
che lugubri rintoccano nell’aria,
a vivere la morte,
con voi, miei cari,
di questo mio novembre.
04/11/2009 h 16
Mia madre si stupiva
Mia madre s’infangava con in mano
un falcino per recidere le foglie.
Ai piedi non aveva tacchi a spillo,
ma stivaloni tanto pesi che
le stremavano i fianchi. Sulle prode,
lunghe e verdastre, sgraziata dai geli,
consumava le dita per raccogliere
un sacco di spinaci e guadagnare
qualcosa per mangiare. La mattina
la brina lampeggiava sopra i campi,
ma con i guanti non poteva operare.
Se era brutto la terra s’impolpava,
e sotto l’acqua, appena riparata,
violentava i suoi sogni. Non di rado,
alla sera, il tramonto si gonfiava
per toccare coi suoi colori d’oro
la mota di quei solchi. E mia madre
si stupiva davanti a quei colori,
davanti a quella volta iridescente.
Con il falcino in mano, e il volto stanco,
ammirava, stupita,
quei giochi del tramonto sopra il campo.
13/02/2011 h. 10,30
Non chiedermi perché
Non chiedermi perché sono venuto
a trovarti di nuovo. Sarà forse
perché qualcosa provo
ancora dentro me.
Sai!, non è molto che pensavo
all’ultimo saluto. Ti ricordi?
Era sul mare, il cielo cinerino
di un settembre un po’ stanco accompagnava
un melanconico addio. Eppure
io non credevo che un lungo patrimonio
potesse rivelarsi così fragile
come la bruma pallida d’autunno.
Il cielo si rompeva ad occidente
e il sole grosso e fervido, alla sera
di quel giorno impossibile, tingeva
il tuo volto diverso. Mi ero sperso.
Non ritrovavo più la strada amica,
la strada di una vita. Sono qui.
Non chiedermi perché. Sono venuto!
Ho ancora dentro l’anima
il sole di una sera,
il mare quasi calmo, un volto stanco,
e una bàttima lenta a misurare
un tempo troppo pigro per chi soffre.
Sarà forse l’amore. Chi lo sa.
Eppure c’è qualcosa che ha guidato
quest’animo rigonfio di ricordi
tra i fiordi del passato. Ma non chiedermi
di più. Accetta un mio saluto. E vado.
Davanti a me c’è un guado,
un guado che riporta
quest’uomo ormai attempato
all’altra sponda.
24/12/2011 h. 23
Il peso delle pietre
E ci portiamo dietro questo peso
di pietre graffite da nomi
di padri e di madri
volati all’azzurro.
Di pezzi di muro
tatuati da dita intrecciate di sogni
per dire: “Ti amo.”
Di gerle di sere
d’incontri d’amore
corrose da acide piogge di tempo.
Di sguardi di lava volati nel cielo
e tornati a pesare.
E di forza rocciosa
sgretolata da ore, da giorni
in pese parole
restate nell’animo
e poi andate a sostare.
Lo porterò con me oltre quel fiume
quel sacco di pietre aggrappato alle spalle.
Lo renderò leggero,
lo renderò una piuma,
per fargli guadare quel fiume,
per farlo volare.
L’abbraccerò con tutto il suo sapore
di terra coltrata, di verde di mare,
di luce di sole, di perse parole
per non farlo morire.
13/01/2013 h. 23
Francesca
Francesca mi parlava sulla rena
infuocata dal sole dell’estate.
Mi parlava del mare, della vita,
delle colline verdi che accendevano
i loro abbrivi in cuore al blu del cielo.
Mi diceva Francesca dei suoi sogni,
della sua casa candida assediata
da boschi e girasoli. La campagna
l’aveva dentro il cuore. E la vedeva
anche in quel mare inquieto e sconfinato
- ci si sperdeva libera -.
“È verde il mare come la mia avena”,
mi diceva Francesca. E delle assenze
mi parlava: di quella di sua madre.
Del dolore, del pianto, ma dagli occhi,
schegge di rara giada, le schizzavano
le parole non dette. Poi un bel giorno
mi raccontò di un sogno - le tremavano
le labbra e ed i pensieri -: “Fui rapita
e trasformata in una nube bianca.
Fui trasferita in cielo in compagnia
del brillio delle stelle e dell’azzurro.
Sì!, proprio là restai tutta la vita;
fra l’assenza dei mali e dei dolori;
spersa nell’aria pura dell’eccelso”.
Un giorno il sole a picco dell’agosto
forava l’ombrellone. Ed io attendevo.
Mi mancavano già
i sogni, le parole,
il suo tremore,
le mosse sensuali delle labbra,
quei gesti di fanciulla un po’ innocente,
disposta a rovesciare sulla rena
- calda d’estate - l’anima serena
e il suo futuro. Mi mancava Francesca.
Mai più la vidi. Mi dissero di lei…
Realizzò il suo sogno. Volò in cielo.
Un’altra stella in più in cuore all’azzurro.
Od una nube bianca che volteggia
libera, Francesca, verdi gli occhi,
color di cioccolata la sua pelle.
10/03/2013 h. 23
Contro le lune
Ho sempre fissa, padre, la tua immagine;
i nostri sogni, il cielo: prevedere
dure gelate a divorare pane,
piogge future ad annullare semi;
e brezze, e folate affilate
a recidere illusioni mai appagate.
Eppure si aspettava primavera
immaginando anche il suo profumo
nel suono nemico dell’urlo invernale.
È sempre fissa, sì!, la tua visione:
tronco scheggiato da lame
forgiate dal tempo;
fronda sfrascata da inverni ribelli;
idea appesantita
da troppe lune piene.
Sei ancora qui con me, padre immolato,
a regalarmi odori d’erbe offerte
alle frullane lucide di sole.
Sai, padre!
Qui non ci sono più terre feraci
disposte a dare vita
a mèssi generose;
fronde feconde
ad ospitare nidi da allevare.
Sulla tue terre crescono le case
abbracciate fra loro
come pietre di cava sopra storie
destinate a finire. Chiedo solo
- al cielo, a qualcuno, non so a chi -
che mi mantenga in seno la tua voce,
che mi mantenga in cuore il tuo sorriso,
il tuo sagrato profumato d’erba,
e la tua voglia, maledetta voglia,
di seminare sogni anche nei giorni
più neri della notte.
Contro le lune.
13/05/2013 h. 11
Oltre quel muro
La notte
ai flebili lumi
e fra le stelle
belle le mie anime
sul prato al cimitero;
all’ora tarda,
quando i viventi
sono nei giacigli,
s’incontrano tra i tigli
ed i cipressi.
Escono dai marmi freddi
sulla loro terra
e tra l’odore di cera
e il fumo della notte,
tra l’esalare di rose,
di gigli ed orchidee,
parlano di affetti e di ricordi
ai bordi dei sepolcri;
li puoi vedere:
ecco mio padre con mia madre
ed ecco mio fratello
che sorridente
per l’agognato arrivo
vola di gioia.
Restano le anime
fino a notte fonda,
non odi parole di spiriti,
ma vedi l’aria che vibra,
l’aria che tocca le fronde,
le lievi foglie
alle soglie dei sepolcri.
La vita, la morte,
le corte strade,
le rade immagini dei viventi,
gli spenti visi del passato:
tutto è beato ora.
Il regno dei morti
vive di nuovo,
sorge alla penombra
e si anima nel tardi;
se guardi sotto l’ombre
dei cipressi,
i tramonti attendono l’oscuro,
il puro regno
oltre quel muro
dei nostri cimiteri.
12/11/1994 h. 22
Volerei felice fra le reste
Potessi io correre
il vento cavalcando a pelo
la mente alla criniera
e l'anima con te alta nel cielo!
Nessun pensiero
mi assalirebbe di dolore o di paura
sui sentieri di campo solitari
di papaveri tinti e di ginestre.
Volerei felice fra le reste
scricchiolanti di calura estiva
alla deriva
in possesso dei suoni e degli afrori
della mia madre antica.
Mi è nemica solo
la stasi e la paralisi.
Mi è nemica
la mancanza di forza e di energia
che l'anima possiede e se ne invola
lasciando attero a terra
l'involucro che più ormai ne è vela.
26/07/2013 h. 11
Chissà per quali mète
Spentisi i girasoli, ammorbiditisi
i colori della mia campagna,
resta un canto che accompagna
i rintocchi di una campana funebre.
Questo rimane di un’intera stagione:
un suono lento e peso
che rinnova un trasporto;
seccumi senza scricchi
per assenza di sole;
viti disabitate;
uccelli che svolazzano nel vuoto,
immemori di nidi.
Un paesano,
tra ombre trafitte da spade,
sbircia, un po’ poeta, l’orizzonte.
Forse ha in mente le semine,
i raccolti, le vendemmie;
forse ha in mente primavera;
o forse affida la vita
a delle piume inquiete
che volano chissà per quali mète.
9/09/2013 h. 11
Il raggio di un pensiero
Cara,
cala puntuale la sera sul mare
ad immolare il giorno alle memorie;
e quante primavere sono scorse,
quanto affollata
l’alcòva dei ricordi;
forse impigliati in risvolti d’azzurro
abbiamo ceduto
al correre dell’ombre;
al correre di autunni indifferenti
alle fulgide carezze delle foglie.
Amore,
arriverà presto sul mare maligna
la notte più fonda dell’ultimo autunno
e non feconderà con i suoi resti
gli assenti abbrivi della primavera.
Ma sarà forse il raggio di un pensiero,
di un verde pensiero smarrito
in gorghi di vita, a riaffiorare,
per far da stella a questo naufragio
nel mare nero del nostro eterno esilio.
30/11/2013 h. 10,30
Il fiume
Acqua, che riflettesti i miei canneti
con le quaglie sui cimoli, e le torri
di grigie chiese e i tremuli felceti
delle sponde, lo sai tu dove corri?
Ti perderai tra poco nel clangore
dell’irruente mare, ed il tuo salce
ti guarderà sparire. Già il rumore .
dell’ampio piano in file d’alba calce
ora vicine ed ora più lontane,
come vie di paese, si confonde
all’aria dei pinastri. Non t’inganni
il profumo allettante; presto vane
saranno quelle immagini di sponde
in spazi senza fine. Ed i tuoi panni
scoloriranno in cuore al tanto vasto
vorticare del nulla, finché a volte,
ormai sepolta preda alle ritorte
ed iteranti corse, sarai volta
alla riva che più non ti appartiene.
Avresti mai pensato, al rampollare
bisbigliante dei gorghi tra le fresche
chiazze sorgive di finire amara-
mente dentro voragini sì avare?
25/03/1999 h. 24
Caro Nazario,
RispondiEliminaancora una volta grazie. La stima che mi rivolgi è per me uno sprone, a fare sempre meglio.
Ricambio con sincero affetto,
un caloroso abbraccio,
Aurora