Nazario Pardini: I CANTI DELL'ASSENZA The Writer. Milano. 2015. Pp. 240 |
DA I CANTI
DELL’ASSENZA
Prefazione
Immergersi quotidianamente nelle onde magnetiche della
poesia, quella che rimane indelebile e profondamente incisa nella nostra
memoria, per un non so che di misterioso e di affascinante, di melodico e di ancestrale,
appare quasi sempre come una illusione che il nostro sub conscio incamera per
elaborare e riguadagnare particolarmente ad occhi chiusi lo spazio tempo protagonista
della scena esistenziale. Il poeta cerca di allontanare la discontinuità che
nasce involontariamente dalle immagini, come colore e suono, per rimodellare il
simbolo tra la realtà e le singole stravaganze del quotidiano. In presa
diretta, senza troppi tentennamenti, il racconto che Nazario Pardini ricama
reca un marchio di fabbrica inconfondibile, e gli scatti in avanti stimolano un
inanellato imprimere delle intensificazioni, un tentativo per allontanare da sé
ogni falsificazione del rito, scandagliando nei ritagli della speculazione
ritmica. - Il canto nasce già variopinto, con una elegia che apre alla
visibilità dei sentimenti, mediante incipit ed incisi di una esperienza che
attinge ai ricordi e continua nelle immagini. “… Quante sono le sagome sperse/
per strade, per monti,/ sobborghi, marine,/ quante ombre su terre diverse/ a me
sconosciute./ Quasi tutto nel nulla s’adagia/ e in me che un notturno/ scolora/
perfino il ricordo vacilla.” - Le memorie si perdono purtroppo nello scorrere
inesorabile del tempo, di quel tempo che ci rende sempre più vulnerabili ed
irriconoscibili a noi stessi, sperduti nello sguardo di chi vorrebbe
comprendere e descrivere con più profonda cognizione il susseguirsi dei
frantumi, un privilegio che integra le relative apparenze e provoca il
privilegio della espressione, sotto una normalità più o meno apparente che si
avviluppa a scansioni alternando interruzioni, sconnessioni, disinganni – “Non
sarà più la sera che calante/ annuncia solo un giorno che va via/ coi suoi
colori vecchi. Declinante/ il segno non sarà della mia vita/ volta a
rammemorare. Alla natura/ riaprire le finestre di un ostello/ non varrà che annunciare
alle mie mura /colori di serate ritrovate.” - Il poeta sa che è arduo essere
classicamente contemporanei, ma sa anche che al giorno d’oggi non può fare a meno
di esserlo. Di qui la sua ricerca lucida e appassionata che attinge nello
straripare dell’assoluto, con richiami al quotidiano, con richiami a ricordi,
con richiami a fantasie trascorse.
Leggendo queste poesie si ha come la sensazione che non sia più possibile fare
poesia oggi se non aderendo a quel programma espresso così bene agli inizi del
Novecento per una «poesia da camera», dove l’occhio avesse anche una sua parte
rispetto a quella svolta dalla funzione acustica, ancora inebriata da quella
energia mitica, che dava, un tempo lontano, senso alle grandi narrazioni. Nel
nostro tempo ci sforziamo di rinvenire il pulviscolo dell’io, mescolato a tanti
oggetti tecnologici, virtuali e non. Le riflessioni, le visioni, i segni colorati:
realizzano un album di ritratti-digressioni che s’inseguono, una capsula di
polveri variegate, dove ciò che si vuole comunicare al lettore è il continuo
rimescolarsi degli atomi del vissuto, del pensato e delle associazioni mentali,
ossia molto spesso felice aspirazione all’empireo. La sottigliezza del segno
verbale, una sottigliezza che corrisponde ad una acutezza dell’ impegno del
cuore e alla capacità di cogliere il senso nascosto delle opere
giornaliere e dei loro enigmi, svela gli
intenti creativi di Nazario. Una poesia dagli scarti umorali, soprassalti,
tensioni, discordanze, che cercano intrecci sorvegliati, impennate dell’io,
registri multiformi e cangianti.
Ancora la memoria lavora di cesello, realizza
riprese scandite attraverso un ritmo semplice, un ludico corrodersi del
pensiero, un contatto continuo con le emozioni, una sintassi delle osservazioni,
il comprimere nel ritmo un diaframma che possa svelare ogni sussulto del sub
conscio. “Begli occhi che incantate,/ voi splendete
del mistico lucore/dei ceri accesi meridiani; il sole/ affoca, ma non lede
quella fiamma/fantastica; essi celebran la morte,/ voi cantate il Risveglio; ed
incedete,/cantando il risveglio dell’anima mia,/ astri che alcun sole può
offuscare!” – Il canzoniere si arricchisce risalendo sino alla delicatezza
fulminea delle apparizioni, nella scelta di un prestito dalla vita per
verificare ciò che viene messo in scena dalla vita stessa, virare entro uno spazio
di finzione per consentire ai suoni di superare la rete dell’abbandono. Così i
mistici rintocchi dell’occaso esplodono nella teatralizzazione di alcuni versi
scritti per Baudelaire (Rivelazione ), per Rimbaud (Battello ebbro), per
Verlaine (Grotteschi), ove brillano le scelte musicali, nella traduzione libera
dei testi. Anche il paesaggio, i luoghi della gioventù, le mura del rincorrersi,
ritornano nei versi incastonati per illuminare trasalimenti biondi di grano, macchie
di ginepri, ondulazioni di nubi, la collina dal grande piano azzurro, la
pineta, lo stormo dei piccioni, e rivelano nell’autore la scelta del doppio
codice che si libera nell’utopia o incalza nel relativo controllo della
ri/costruzione. Non vi è un campo di
preferenze lessicali, ma un approdo sicuro che al poeta rimane dopo una
sofferta proiezione nei suoi ciclici ritorni: le cadenze che fanno riemergere
la voce in quella densità di intonazione che appartiene alle metafore pregne di
rappresentazione. Un tentativo di mantenere – quasi
in forma di compromesso – l’immagine al riparo dall’erosione temporale; senza
tuttavia farla scomparire nella dimensione non temporale, e perciò sempre un
poco astratta. Non è una scrittura incline a rinnegare la sua provenienza per
farsi custodia di un ricordo. Al contrario, i versi sono consapevoli del
duplice rischio cui si espongono – svanire nel tempo o ridursi a un «senso»
astratto; perciò non esitano a frantumare se stessi per incidere risuonando. Il
titolo del libro vorrebbe indicare al lettore il tentativo di ritrovare quelle
cose che si sono magicamente allontanate, ma in gioco c’è una elaborazione
profonda, fatta di metafore ed astrazioni, che modifica le proporzioni e le aspettative.
Ecco quindi l’idea di una scrittura laboriosa e ricercata, i segni che vorrebbero
rinunciare a farsi verità al posto delle immagini, rifiutando di sostituirsi
all’immediatezza della visione e creando una dimensione altra.
Raramente la poesia può permettersi di
gareggiare con l’esperienza. E l’esperienza diventa vita subito, bruciando il
perché della vita stessa fuori da ogni asprezza che nulla ha a che fare con il
realismo, con qualsivoglia realismo.
“… Ed è il cielo che crea quella gioia,/ proprio quel
cielo/ a cui lo sguardo alziamo raramente/ intruppato in una morsa di fanghiglia./
Se forse gli levassimo le braccia/ per scenderlo fra noi,/ se tutti quanti alzassimo
le mani/ per cogliere il suo immenso/e riportarlo a terra,/il nostro volto si farebbe
blu,/ blu come gli occhi/di un largo mare azzurro/che rassomiglia tanto a un
verso immortalato...” – La distanza, devota ed affidabile, attraverso il filtro
della devozione, avvolge in un alone di mistero, che potremmo riprendere nella
intemperie sentimentale, nel tessuto della speranza, nel coinvolgimento dello
scambio della fantasia.
Antonio Spagnuolo
22/01/2013
Il volo di Icaro
Attratto dai richiami del meriggio
volò alto,
alto volò toccando cime immense,
azzardi che gli umani
cercano con l’anima e la mente;
ma ci si può bruciare
se il volo è troppo arduo,
si annullano in abissi senza fine
le nostre identità;
sperderci oltre la siepe,
o in cieli fra le stelle
è un naufragio per la nostra essenza.
E tu Icaro,
privo di remeggi, a braccia nude,
senza appigli,
brancolasti in vertigini d’azzurro
quando l’astro di vita e di morte
ti rammollì la cera.
Cadevi impaurito,
risucchiato:
“padre, tu che mi hai dato il volo,
aiuta questo figlio, dagli l’ali,
che il cielo non mi regge
ed io sprofondo incauto negli abissi.
Padre, io sono qui,
corrimi incontro, arresta il mio naufragio,
tu puoi, con il tuo amore
e il tuo superbo ingegno”.
“Icaro, Icaro dove
sei?
dove giace mio figlio eterni dèi?
Ditemi alfine! Ch’io sappia almeno
ove cercare; carne della mia,
figlio imprudente, dove il volo tuo
lontano dai miei occhi. Cosa fare?
che cosa potrà fare questo padre?”
Ma d’Icaro la bocca
fu chiusa dalle onde di quei pelaghi.
E quando il genitore
scorse le vane piume
sparse sull’acque a sfiorare gli scogli,
non poté che ergere un sepolcro
in terra d’Icaria.
Maledì la sua arte ed il destino,
gli azzardi degli umani, le imprese folli,
la violenza del cielo, il regno del sole,
maledì quella natura umana,
il suo continuo ardire e discoprire,
il suo coraggio eterno di sfidare
il mare nero, lo scoglio e le sirene,
quella pazzia di un fuoco che ci fa
scintilla degli dèi, impronta del divino,
bocci di libertà.
29/12/2013 h. 10,30
Elegia per Lidia
Ritornerai tra gli alberi e sui campi
quando l’autunno
lacrime rubino
gocciola a terra,
fiore di stagione.
Brillava di passione
l’occhio glauco
ed oltre i davanzali le tue mani
coglievano gli steli delle stelle.
Quando il profumo volerà per terra
(che sepolta ti tenne
per mill’anni)
ritorneranno i fiori inebrianti
di giovani corolle ricamati.
Tingeranno caverne, forre e prati,
vinceranno l’odore della morte.
Lontano sarà il giorno dell’addio
ed il viola dei tappeti al muro
che tennero la bara del tuo rosa
trapunterà di vita la campagna.
L’assenzio spargeranno nelle stanze,
che videro i tuoi crini
sciolti a caso,
fiori rinati
che più sul nostro suolo noi vedemmo.
Si apriranno gli avelli
e fauni belli amanti dell’amore
suoneranno negli incavi nascosti
flauti imprestati
dagli angeli dei cieli.
Non ci saranno veli
a coprire l’innocenza.
Squilleranno le trombe i Serafini
ed ai confini dei mari
compagnia ci faranno le bellezze
che le brezze mortali di nascosto
rapirono le notti
negli abissi.
Fissi negli occhi i giorni leggeremo
di quando si correva
sopra i sogni
stanchi giammai di abbracci e di carezze.
Sui colli danzeremo,
sopra le acque
al tinnire frequente
che mai tacque
l’aria imbevuta
dei nostri desideri.
E attorno ai cimiteri anime bianche
sugli avelli riempiti di colori
al canto degli uccelli variopinti
danzeranno beate e le fiammelle,
linguiformi falò, apriranno i cieli.
15/09/1995 h. 17
Novembre
Novembre
ascolto i silenzi dell’anima
sugli umidi campi di saggine,
sulle brine che si levano ora
all’aurora di un sole impoverito.
Ascolto i silenzi dell’anima
che pésca nel fondo
di un profondo fiume
dove a stento la vita s’allunga
accecata
da stelle brillanti riflesse
sull’acque disperse.
Ascolto novembre
i silenzi ed i suoni
che afoni mi si perdono dentro:
indistinte figure,
sciupature di un tempo,
ferite profonde,
cicatrici nasconde il silenzio
che rileva l’assenzio
del giallo novembre.
01/11/1996 h. 23
Lo stradone di scuola
Sono i solchi carrabili sbilenchi
che incidono il tuo corso anche se pieni
delle spoglie giallastre del settembre.
Lo stradone di scuola. Eppure perdi
le verdi scaglie come un serpe obliquo
in cuore alla campagna e mi dilati
i cigli luccicanti di rugiada
per rivestirmi il seno del fruscio
della carta di un libro. Mormorava,
con la voce un po' rauca dei suoi righi,
parole che levavano lo sguardo
sul volto del maestro. Sempre primo
con la bici coperta di fanghiglia
e i gancetti alle balze, mi rapiva
da quello scantinato padronale
che gocciolava sogni sopra il banco.
Giungevo infreddolito, ma la porta
chiudeva fuori sguardi sulle zolle
verdeggianti di aprili anche a dicembre.
Che lanciavamo sassi
ti ricordi?
Erano così veloci che anche i falchi
restavano di stucco nel sentirli
sibilare nell’aria. Si sperdevano
e ancora non li ho visti ricadere.
Senz’altro hanno percorso un bel tragitto
se dura più del tempo di una vita.
Bella gara. Presa proprio di petto.
Depredavamo i pioppi di forcelle
per fionde che affondavano radici
nel terriccio dell’anima. Mi provo,
quando nessuno vede, ad impugnare
un cimelio di fionda. Da un tuo ciglio
miro dritto alle cime e scaglio il sasso,
ma guardo attorno e quasi mi vergogno
per come vola basso e poi ricade.
E pensare, ricordi?, che riuscivo
a silurare il cielo colle pietre
convinto di bucare anche le nubi.
25/09/1997 h. 18
Sera di
casa mia
L’albero gemma. Inflorescenze candide
si aggrapperanno ai rami come i figli
ai seni delle madri. L’aria si apre
chiara nel cielo. Sfioriranno i gigli.
I narcisi sui prati e sopra i fulgidi
balconi di paese. Ritornato
sono per rivedere il primo verde
che evade con il raggio del mio prato
il fumido maggese. Nelle ataviche
gesta dei paesani o nei cortili
dai cimoli macchiati che si affacciano
alle crepe dei muri, degli aprili
voglio vedere il volto e respirare
l’aria buona di casa. Ascolterò
i primi piedi scalzi di un bambino
nella strada sterrata tra i rondò
dei cipressi giganti. Là i verdoni
covavano già le uova per le estati.
E i passi di mio padre ammorbiditi
dai tappeti terragni ormai sbocciati
alla vita novella. Sarà là
che poi mi recherò coi miei amici
sui rami debordanti
dei ciliegi maturi. Alle pendici
correremo in peduli per sfidare
la corsa della vita ove una casa
attendeva alla sera il mio ritorno
con guance affaticate. La cimasa
si fletteva ai garriti delle rondini
puntuali agli aprili ed io gridavo
litigioso con te fratello mio
paziente per la luce che spegnevo.
Non sarà più la sera che calante
annuncia solo un giorno che va via
coi suoi colori vecchi. Declinante
il segno non sarà della mia vita
volta a rammemorare. Alla natura
riaprire le finestre di un ostello
non varrà che annunciare alle mie mura
colori di serate ritrovate.
10/10/1997 h. 22
Presto ritornerò
Presto ritornerò sull’imbiancata
strada di gesso ai meridiani soli
girovago nei campi. Attenderò
che muta la mia sera stenda il velo
sull’aria macerata
alla sua fine. È allora che gli stuoli
del popolo dell’anima che andò
rapido al vento del piovoso cielo
rivedranno la vita. Immaginari
ritorneranno i trilli della rondine
radente i grani; e i volti degli amici
tumidi di sorrisi su scenari
traboccanti di luce e con me in ordine
sparso sul suolo delle mie radici.
20/06/1998 h. 18
Zufoli e fili d’erba
Quanti eravamo a stridere gli zufoli.
Li depredammo a canne di golena
fruscianti ai freschi erbali straboccati
dai gomiti del fiume. Tutte note
che uscivano dal premere
i tasti a caso. Andavano nell’aria
come spiriti liberi dal gioco
rischioso della vita. - Ascolta il mio!
È tanto
eguale al gorgo che si strozza. -
- E tu che fai, non suoni? A cosa pensi,
perché resti da te? - - Su, dai, suoniamo
gli zufoli di canna, è tanto bello. -
- Immaginiamo di essere un’orchestra
di veri musicanti che in concerto
suonano melodie per la platea.
Oggi è di festa. Via! Quasi è di giugno.
La scuola ormai è alla fine. - Anche se acerbi
i frutti dei nostri anni li mangiammo
prima di maturare. Poi le note
divennero perfette
e i frutti amari dove le cannelle
non ebbero più forza di donare
i flauti finti fatti per stonare.
Usammo anche le foglie verdeggianti
e colle labbra
(ci soffiavamo a forza tutti i sogni
da uomini precoci) emettevamo
note così stridenti come i gemiti
delle cornacchie. E lo facemmo a scuola
un giorno in cui tra i lampi ed il buiore
sembrava che cadesse il mondo a terra.
Ma era tanto attento
l’orecchio del maestro. - Carlo fuori!
E tu e tu e tu! - E noi insistemmo
a stridere coi fili luccicanti
di eterne primavere sopra i prati.
Ed era già d’inverno. Non sembrava.
L’oscuro nella classe
serviva solamente a mascherare
propositi segreti: canne alle golene
e i fili d’erba avena a primavera.
12/10/1999 h. 15
Ottobre
Era d’estate quando della vita
riflessero i barbagli. Allora vissi
la fantasia che esplose lucentezza.
Poi giunto è ottobre a mietere le foglie
di una stagione che ha reciso il sole.
La vigna saccheggiata lascia i resti
dell’ultimo raccolto. Muta e scarna
nei suoi colori morti mi dà il senso
di un suo perpetuo addio
(l’autunno mio trabocca di ricordi
che evadono invecchiati all’imbrunire).
Niente di più vicino, ora che freme
sulla distesa vana del mio piano
il tramonto del gelso, a me risulta
che il palpito ottobrino. Scorre languida
dei riflessi marciti sotto il platano
l’acqua che è sonnolenta. Va a scurire
all’ombra della volta abbandonata
del suo vecchio mulino. Il frutto cade
del giorno ormai maturo ed è la notte.
07/11/1999 h. 10
La mia casa
- Perché mi parli sempre di una casa
di due stanze con nell’ombra un po' in disparte
un focolaio a struggere un gran ciocco
pigramente; e di un tavolo nel centro
costruito con il legno
di un ciliegio reciso; e della nonna
a stendere la pasta al matterello
o a usare la ventaglia sul fornello
che spolverava cenere;
e degli oggetti in rame; e lungamente
di quel paiolo adorno di faville
che s’immillavano in alto. Le volte
che mi hai parlato della vecchia casa
in cui abitavi, padre, saran mille. -
- Ma guarda che mia madre era tua nonna,
anche se mai l’hai vista! E quel camino
era meraviglioso coi suoi schiocchi.
Sembravano dei fuochi d’artificio. -
- Sì. Me l’hai detto. - - Allora ti racconto
dell’inverno mio amico. Penetrava
frusciando da fessure, s’inoltrava
nella stanza, poi andava alla finestra.
Alzava la tendina e in cuor gioiva
di vedersi l’autore, tutt’intorno,
di una campagna a stelle in filigrana
candide come il latte. Parlavamo.
Quante cose diceva. Poi tuo nonno... -
- Cosa faceva nonno? - - A tarda sera
andava con la torcia sulla neve.
Vedo ancora la scia. Io credevo
lo facesse per gioco. Quando vecchi,
si ritorna bambini. - - E invece? - - Udiva
gli schiamazzi di galline. Andava giù,
rumoreggiava intorno e le faine
prendevano la strada per i campi. -
- Le faine? - - Allora t’interessa
la mia casa. - - Sarei proprio curioso
di vederne le stanze, i campi bianchi
della neve notturna e i fiocchi lievi
fruscianti sotto l’occhio di un inverno
che racconta le storie. E tu ci andavi
nel candido cortile o per il prato
a sprofondare i piedi con tuo padre? -
29/12/1999 h. 24
Ma se
restava solo
Era proprio il settembre
a indebolirsi l’animo ai tramonti
anche nel contraddire per ripicca
il senso della vita.
Era
quel mese,
per via di
foglie secche e tante storie.
E se un grumo di stormi staccava i colori
chiamava l’azzurro e l’agro dei cipressi
a ingannare il verde odore della morte.
Truccava anche la notte con a luna
per simulare i getti dell’estate;
esorcizzava il tempo con tre fronde
che impavido vestiva da ragazzi
per ostentarli come suo vigore.
Se il sole tramontava alle colline
quasi per mascherarne le ombre
s’indispettiva. E svelto rigonfiava
il mare di un aspro salmastro.
Spaccava anche le nubi con buttate
infiggendo gli abeti nel cielo.
Non si arrendeva.
Aveva sempre frecce da scagliare.
Ma se restava solo, nella sera,
si abbandonava un po' alle
sue memorie.
Cespiti in boccio
voci di sorgente
occhi
indomiti da equino all’età
che aveva gli anni della primavera.
15/09/2001 h. 17
Il profumo
della giovinezza
Un ricordo qualsiasi e quel giorno
pieno di luce che torna reale
a illuminare l’anima. I bei volti
che fanno giovinezza e che sprigionano
la voglia della vita. Mi guardavi
un po' vaga e distratta
senza affrontare sul serio l’amore.
Ed io che ti perdevo. Inutilmente
restarono i tuoi occhi appiccicati
alla mia resistenza. Giovinezza:
sortivi il tuo profumo
intento ad un sorriso dolce amaro.
Ed i falò sul mare, le nottate
a cacciare la luce del mattino,
le corse a piedi nudi sulla sabbia
arroventata. E tu che mi guardavi
con aria sospettosa.
Andiamo ancora insieme in quel paese:
quello con la piazzetta in mezzo ai tigli,
quello del barettino che ci offriva
il cioccolato caldo. Andiamo, andiamo
tu ed io soli, giovinezza, andiamo.
Ritroveremo nel verde dei tigli
gli occhi fugaci della nostra Delia.
Quanto profumi ancora! Il tuo sapore
sa di mare, di campo, di verbena,
sa di gioia, tristezza, di vaghezza;
sa d’amore, d’amore sano e puro
di un tempo fisso in seno. Forse là,
là dove il cielo incontra l’orizzonte,
resistono gli sguardi
a un’aria che sapeva di speranza.
Si chiudono le imposte al mio paese;
tornano a casa i giovani, ma tu
ti trattieni con aria indifferente
sulla panchina della piazza verde
a seminare amore.
09/10/2007 h. 21
Oh terra di novembre
Si raccoglie in campagna il cimitero
dei tanti miei vicini. Oggi è novembre,
il giorno dei defunti, ed ogni anno
mi chiamano all’incontro. In mezzo ai campi,
fra le distese di terra coltrata
e all’aria fresca di sole e cipressi,
sono da voi, miei cari,
sorridenti sul marmo. Mi avvicino
alla tua effigie consunta, fratello,
per parlarti dei nostri tempi in terra.
Forse allora poco dicemmo;
presi dalla vita,
dimenticammo forse quanto breve
sarebbe stato il fascino del sole.
Ma il tuo sorriso ancor di più ricorda
la maschera al dolore. La mia voglia
è quella di restare assieme a te,
di abbracciare il tuo volto,
di parlarti di noi con il rimorso
di un silenzio passato. E tu padre,
vicino alla tua terra, le cui zolle
battesti con il maglio; e tu madre,
sempre lesta alle brine mattutine,
ascoltate dal figlio,
che veglia accanto a voi,
il pianto suo perenne ai vostri marmi.
Oh terra di novembre! Il tuo riposo
sia vigile ai miei cari. Ti respiro
ora che vanno i roghi di fascine
a perdersi lontano. E ti rivivo
novembre di dolore e di riposo.
Mi aiutano gli stecchi volti al cielo,
i campi abbandonati ai sagginali,
le gazze sopra magre prode spente,
e i canti delle tortore mi aiutano,
che lugubri rintoccano nell’aria,
a vivere la morte,
con voi, miei cari,
di questo mio novembre.
04/11/2009 h 16
Mia madre si stupiva
Mia madre s’infangava con in mano
un falcino per recidere le foglie.
Ai piedi non aveva tacchi a spillo,
ma stivaloni tanto pesi che
le stremavano i fianchi. Sulle prode,
lunghe e verdastre, sgraziata dai geli,
consumava le dita per raccogliere
un sacco di spinaci e guadagnare
qualcosa per mangiare. La mattina
la brina lampeggiava sopra i campi,
ma con i guanti non poteva operare.
Se era brutto la terra s’impolpava,
e sotto l’acqua, appena riparata,
violentava i suoi sogni. Non di rado,
alla sera, il tramonto si gonfiava
per toccare coi suoi colori d’oro
la mota di quei solchi. E mia madre
si stupiva davanti a quei colori,
davanti a quella volta iridescente.
Con il falcino in mano, e il volto stanco,
ammirava, stupita,
quei giochi del tramonto sopra il campo.
13/02/2011 h. 10,30
Non chiedermi perché
Non chiedermi perché sono venuto
a trovarti di nuovo. Sarà forse
perché qualcosa provo
ancora dentro me.
Sai!, non è molto che pensavo
all’ultimo saluto. Ti ricordi?
Era sul mare, il cielo cinerino
di un settembre un po’ stanco accompagnava
un melanconico addio. Eppure
io non credevo che un lungo patrimonio
potesse rivelarsi così fragile
come la bruma pallida d’autunno.
Il cielo si rompeva ad occidente
e il sole grosso e fervido, alla sera
di quel giorno impossibile, tingeva
il tuo volto diverso. Mi ero sperso.
Non ritrovavo più la strada amica,
la strada di una vita. Sono qui.
Non chiedermi perché. Sono venuto!
Ho ancora dentro l’anima
il sole di una sera,
il mare quasi calmo, un volto stanco,
e una bàttima lenta a misurare
un tempo troppo pigro per chi soffre.
Sarà forse l’amore. Chi lo sa.
Eppure c’è qualcosa che ha guidato
quest’animo rigonfio di ricordi
tra i fiordi del passato. Ma non chiedermi
di più. Accetta un mio saluto. E vado.
Davanti a me c’è un guado,
un guado che riporta
quest’uomo ormai attempato
all’altra
sponda.
24/12/2011 h. 23
Il peso delle pietre
E ci portiamo dietro questo peso
di pietre graffite da nomi
di padri e di madri
volati all’azzurro.
Di pezzi di muro
tatuati da dita intrecciate di sogni
per dire: “Ti amo.”
Di gerle di sere
d’incontri d’amore
corrose da acide piogge di tempo.
Di sguardi di lava volati nel cielo
e tornati a pesare.
E di forza rocciosa
sgretolata da ore, da giorni
in pese parole
restate nell’animo
e poi andate a sostare.
Lo porterò con me oltre quel fiume
quel sacco di pietre aggrappato alle spalle.
Lo renderò leggero,
lo renderò una piuma,
per fargli guadare quel fiume,
per farlo volare.
L’abbraccerò con tutto il suo sapore
di terra coltrata, di verde di mare,
di luce di sole, di perse parole
per non farlo morire.
13/01/2013 h. 23
Francesca
Francesca mi
parlava sulla rena
infuocata dal sole
dell’estate.
Mi parlava del
mare, della vita,
delle colline
verdi che accendevano
i loro abbrivi in
cuore al blu del cielo.
Mi diceva
Francesca dei suoi sogni,
della sua casa
candida assediata
da boschi e
girasoli. La campagna
l’aveva dentro il
cuore. E la vedeva
anche in quel mare
inquieto e sconfinato
- ci si sperdeva
libera -.
“È verde il mare
come la mia avena”,
mi diceva
Francesca. E delle assenze
mi parlava: di
quella di sua madre.
Del dolore, del
pianto, ma dagli occhi,
schegge di rara
giada, le schizzavano
le parole non
dette. Poi un bel giorno
mi raccontò di un
sogno - le tremavano
le labbra ed i
pensieri -: “Fui rapita
e trasformata in
una nube bianca.
Fui trasferita in
cielo in compagnia
del brillio delle
stelle e dell’azzurro.
Sì!, proprio là
restai tutta la vita;
fra l’assenza dei
mali e dei dolori;
spersa nell’aria
pura dell’eccelso”.
Un giorno il sole
a picco dell’agosto
forava
l’ombrellone. Ed io attendevo.
Mi mancavano già
i sogni, le
parole,
il suo tremore,
le mosse sensuali
delle labbra,
quei gesti di
fanciulla un po’ innocente,
disposta a
rovesciare sulla rena
- calda d’estate - l’anima serena
e il suo futuro.
Mi mancava Francesca.
Mai più la vidi.
Mi dissero di lei…
Realizzò il suo
sogno. Volò in cielo.
Un’altra stella in
più in cuore all’azzurro.
Od una nube bianca
che volteggia
libera, Francesca,
verdi gli occhi,
color di
cioccolata la sua pelle.
10/03/2013 h. 23
Contro le lune
Ho sempre fissa, padre, la tua
immagine;
i nostri sogni, il cielo: prevedere
dure gelate a divorare pane,
piogge future ad annullare semi;
e brezze, e folate affilate
a recidere illusioni mai appagate.
Eppure si aspettava primavera
immaginando anche il suo profumo
nel suono nemico dell’urlo invernale.
È sempre fissa, sì!, la tua visione:
tronco scheggiato da lame
forgiate dal tempo;
fronda sfrascata da inverni ribelli;
idea appesantita
da troppe lune piene.
Sei ancora qui con me, padre immolato,
a regalarmi odori d’erbe offerte
alle frullane lucide di sole.
Sai, padre!
Qui non ci sono più terre feraci
disposte a dare vita
a mèssi generose;
fronde feconde
ad ospitare nidi da allevare.
Sulla tue terre crescono le case
abbracciate fra loro
come pietre di cava sopra storie
destinate a finire. Chiedo solo
- al cielo, a qualcuno, non so a chi -
che mi mantenga in seno la tua voce,
che mi mantenga in cuore il tuo
sorriso,
il tuo sagrato profumato d’erba,
e la tua voglia, maledetta voglia,
di seminare sogni anche nei giorni
più neri della notte.
Contro le lune.
13/05/2013 h. 11
Oltre quel muro
La notte
ai flebili
lumi
e fra le
stelle
belle le
mie anime
sul prato
al cimitero;
all’ora
tarda,
quando i
viventi
sono nei
giacigli,
s’incontrano
tra i tigli
ed i
cipressi.
Escono dai
marmi freddi
sulla loro
terra
e tra
l’odore di cera
e il fumo
della notte,
tra
l’esalare di rose,
di gigli ed
orchidee,
parlano di
affetti e di ricordi
ai bordi
dei sepolcri;
li puoi
vedere:
ecco mio
padre con mia madre
ed ecco mio
fratello
che
sorridente
per
l’agognato arrivo
vola di
gioia.
Restano le anime
fino a
notte fonda,
non odi
parole di spiriti,
ma vedi
l’aria che vibra,
l’aria che
tocca le fronde,
le lievi
foglie
alle soglie
dei sepolcri.
La vita, la
morte,
le corte
strade,
le rade
immagini dei viventi,
gli spenti
visi del passato:
tutto è
beato ora.
Il regno dei morti
vive di
nuovo,
sorge alla
penombra
e si anima
nel tardi;
se guardi
sotto l’ombre
dei
cipressi,
i tramonti
attendono l’oscuro,
il puro
regno
oltre quel
muro
dei nostri
cimiteri.
12/11/1994 h. 22
Volerei
felice fra le reste
Potessi io correre
il vento cavalcando a pelo
la mente alla criniera
e l'anima con te alta nel cielo!
Nessun pensiero
mi assalirebbe di dolore o di paura
sui sentieri di campo solitari
di papaveri tinti e di ginestre.
Volerei felice fra le reste
scricchiolanti di calura estiva
alla deriva
in possesso dei suoni e degli afrori
della mia madre antica.
Mi è nemica solo
la stasi e la paralisi.
Mi è nemica
la mancanza di forza e di energia
che l'anima possiede e se ne invola
lasciando attero a terra
l'involucro che più ormai ne è vela.
26/07/2013 h. 11
Chissà per quali mète
Spentisi i
girasoli, ammorbiditisi
i colori della mia
campagna,
resta un canto che
accompagna
i rintocchi di una
campana funebre.
Questo rimane di
un’intera stagione:
un suono lento e
peso
che rinnova un
trasporto;
seccumi senza
scricchi
per assenza di
sole;
viti disabitate;
uccelli che
svolazzano nel vuoto,
immemori di nidi.
Un paesano,
tra ombre trafitte
da spade,
sbircia, un po’
poeta, l’orizzonte.
Forse ha in mente
le semine,
i raccolti, le
vendemmie;
forse ha in mente
primavera;
o forse affida la
vita
a delle piume
inquiete
che volano chissà
per quali mète.
9/09/2013 h. 11
Il
raggio di un pensiero
Cara,
cala puntuale la sera sul mare
ad immolare il giorno alle memorie;
e quante primavere sono scorse,
quanto affollata
l’alcòva dei ricordi;
forse impigliati in risvolti d’azzurro
abbiamo ceduto
al correre dell’ombre;
al correre di autunni indifferenti
alle fulgide carezze delle foglie.
Amore,
arriverà presto sul mare maligna
la notte più fonda dell’ultimo autunno
e non feconderà con i suoi resti
gli assenti abbrivi della primavera.
Ma sarà forse il
raggio di un pensiero,
di un verde pensiero smarrito
in gorghi di vita, a riaffiorare,
per far da stella a questo naufragio
nel mare nero del nostro eterno esilio.
30/11/2013 h. 10,30
Il fiume
Acqua, che riflettesti
i miei canneti
con le
quaglie sui cimoli, e le torri
di grigie
chiese e i tremuli felceti
delle
sponde, lo sai tu dove corri?
Ti perderai
tra poco nel clangore
dell’irruente
mare, ed il tuo salce
ti guarderà
sparire. Già il rumore .
dell’ampio
piano in file d’alba calce
ora vicine
ed ora più lontane,
come vie di
paese, si confonde
all’aria
dei pinastri. Non t’inganni
il profumo
allettante; presto vane
saranno
quelle immagini di sponde
in spazi
senza fine. Ed i tuoi panni
scoloriranno
in cuore al tanto vasto
vorticare
del nulla, finché a volte,
ormai
sepolta preda alle ritorte
ed iteranti
corse, sarai volta
alla riva
che più non ti appartiene.
Avresti mai
pensato, al rampollare
bisbigliante
dei gorghi tra le fresche
chiazze
sorgive di finire amara-
mente
dentro voragini sì avare?
25/03/1999 h. 24
Ho letto più volte, qui, sullo scoglio di Lèucade, le liriche di Nazario. Trovare le parole, trovare altre parole per dire altro da aggiungere alla superba esegesi di Antonio Spagnuolo, ma soprattutto da aggiungere alla sintassi poetica, alle immagini della limpida potenza del verso di Nazario, alla sua proposta compositiva, non è certamente cosa facile. La poesia di Pardini non è più un "tentativo" di andare verso l'oltre, è andare all'oltre. Ci sono versi, immagini e "pensieri" che graffiano con dolcezza l'anima e spingono prepotentemente verso la bellezza della sua fascinosa versificazione. Di alcune poesie che compongono questa splendida silloge già abbiamo avuto modo di ammirare e commentare "gli azzardi" (come lui spesso ama dire della vera poesia - Il volo di Icaro - Mia madre si stupiva - Non chiedermi perché - Il fiume), ma tutte le liriche che arricchiscono il suo ultimo lavoro, sono quasi sempre "da brivido". Le immagini, i rimandi, i voli, le memorie, gli "azzardi" sono qui che gridano la vera poesia, la verità della poesia che va oltre il tempo. E questa ultima silloge di Nazario è una sfida al tempo e alla finitezza, con interrogativi la cui risposta non è affatto scontata. Il canto va oltre, con i suoi superbi endecasillabi. Dal padre al figlio, dal figlio al figlio....: "Chiedo solo / - al cielo, a qualcuno, a non so chi- / che mi mantenga in cuore il tuo sorriso, / il tuo sagrato profumato d'erba, / e la tua voglia, maledetta voglia, / di seminare sogni anche nei giorni / più neri della notte. / Contro le lune".
RispondiEliminaUmberto Cerio
Grazie, Umberto,
Eliminameraviglioso commento. Poeta additus poetae. Una vera esegesi, un vero melologo d'anima, musica, e parola.
Nazario
Nazario Pardini racconta in versi la vicenda della vita. Di una vita, la sua. Di tante vite, la mia, la nostra. Per esperienze comuni e diverse che vivono, sempre e comunque, nell’ampio petto della poesia. Racconta, Pardini. E i suoi splendidi versi di campi e d’affetti, di parole e di gesti, di infinita e generosa natura, ritagliano tempi e spazi e magnificamente si effondono, oltre ogni barriera, nelle praterie dell’anima. Con fidente discrezione, con perfusa grazia, con toscana vivezza di lingua. Qui rivivono i miti della fanciullezza e dell’adolescenza, qui si compongono in assorta e un po’ mesta dolcezza i momenti dell’età pienamente matura sotto il profilo biografico e artistico, qui insorgono in balzi i sentimenti, cristallizzati talvolta in una forma dialogica che emoziona il lettore (“Lo stradone di scuola”, “La mia casa”, “Francesca”, ecc.), anche quando il colloquio assume altrove una funzione o un tono monologante. Ma, soprattutto, la poesia di Nazario si fa amare perché il nostro poeta e amico canta con pienezza di cuore, con assoluta rispondenza all’impulso creativo. Condizione indispensabile alla poesia, a quella autentica, oggi, purtroppo, davvero rara.
RispondiEliminaComplimenti a Nazario Pardini e ad Antonio Spagnuolo, autore di una pregevole prefazione.
Pasquale Balestriere
Grazie, Pasquale, grazie amico,
Eliminagrazie per il magico affresco cristallino come la tua fresca e profonda poesia. Come la tua persona, senza indugi, diretta, chiara, e spontanea.
Nazario
Una poesia che leggo con grande emozione quella di Nazario e che mi prende anche perché mi fa pensare che avrei voluto essere stato io stesso a scrivere le parole che vado leggendo. Con un po’ di presunzione arrivo a pensare per un attimo che riconosco le sue parole come se fossero mie ma mi rendo conto subito dopo che il climax poetico di Pardini è troppo elevato e irraggiungibile e che non mi appartiene. La sensazione di familiarità nasce in parte da una somiglianza di età anagrafica e quindi da una certa analogia di esperienze esistenziali, quasi identica anche l’origine ambientale e quindi sovrapponibili tante rivisitazioni memoriali.
RispondiEliminaLa fionda, i nidi e tante altri luoghi del cuore appartengono al nostro tempo e l’affetto con cui vengono rievocati mi commuove. La poesia vera deve indurre emozioni forti e le facoltà espressive del poeta devono rendere comunicabili tante esperienze umane e farle diventare patrimonio comune. La scrittura raffinata ed alta di Nazario induce nel lettore attento anche delle pronunciate emozioni estetiche. La parola poetica, la frase, i versi e la loro concatenazione determinano un climax di grande fascino e tutto questo è raggiunto con un controllo attento e puntuale delle possibilità della parola. La cura esasperata della forma, al di là della pienezza dell’ispirazione, determina quegli effetti eufonici che sono uno dei poteri specifici della poesia di Nazario. E di tutta la grande poesia in effetti.
Soltanto un equivoco culturale ha fatto pensare che la libertà del verso potesse significare l’assoluta anarchia espressiva e che quindi la poesia potesse essere alla portata di qualsiasi penna.
Soltanto quando incontriamo una scrittura poetica di fascino, se cerchiamo di capire da dove venga il suo potere di seduzione, dobbiamo riconoscere che in gran parte deriva dalla cura della parola, dal lavorio del poeta per il raggiungimento di una relativa perfezione, dalla sua classica misura in un contesto di modernità espressiva.
Grazie, Rodolfo, per l'accurata esegesi, per l'autoptica e sentita analisi della mia poesia. Veramente profonda.
EliminaNazario
Silenzi dell’anima che si trasmutano in appassionati canti dell'assenza. La melancolia del cuore, provato dal tempo che passa inesorabile, portando via con sè cose e persone, eventi fatti immagini, non prevale. E non potrebbe prevalere davanti alla poesia, che attraverso la sua forza legata alla parola e al canto rende redivivi puranco i morti.
RispondiEliminaVa dato atto a Pardini di queste capacità che solo un poeta della sua stazza può permettersi. E mi verrebbe da dire che la malinconia che fa da trampolino di lancio su uno sfondo autunnale e sovente ottobrino e novembrino si libra in una verticalizzazione che dà slancio ad una gioia primaverile.
In poche parole la malinconia si fa gioia e l'autunno si fa primavera nella misura in cui il canto della poesia muta l'assenza in presenza.
Ancora una volta Pardini dimostra una energia poetica non indifferente variegata da passione amore e attaccamento alla vita ai suoi cari alla sua terra.
Provetto paesaggista Pardini coglie abilmente immagini della sua terra e della sua gente.
Una piccola nota. Pardini non può essere compreso in toto se non si è stati a contatto con la sua terra e la sua gente. Le colline pisane, Navacchio Lari etc., sono tali e quali ai quadri che descrive il poeta e il linguaggio usato è proprio quello della sua gente che in tal modo viene colpita nei precordi. Ma Pardini, come è stato già detto, colpisce anche noi dacché il suo snodo poematico non può non avvolgere e coinvolgere chiunque si immerga nel flusso del suo canto dei suoi canti del nostro essere, comunque presenti in barba all'assenza.
Maurizio Soldini
Grazie, Maurizio, grazie infinite per il tuo tatto poetico e critico; per la tua indagine accurata: "Pardini non può essere compreso in toto se non si è stati a contatto con la sua terra e la sua gente. Le colline pisane, Navacchio Lari etc..."
EliminaNazario
Ho sempre pensato che non sia compito della Poesia quello di narrare né di informare. Per la narrazione c’è la prosa o al limite il Poema e per l’informazione il giornalismo. Pertanto, la mia idea di Poesia è quella di un “dire” nel senso etimologico del termine, cioè “mostrare” significando un concetto della mente attraverso la Parola e utilizzando tutti gli strumenti a sua disposizione, metrici e retorici.
RispondiEliminaNazario Pardini con queste magnifiche liriche compie un piccolo grande miracolo: dice narrando. E lo fa con l’eleganza raffinata e la maestria di chi, non solo è padrone degli strumenti e della parola, ma anche con la superba e lucida capacità di trascendere la narrazione per “mostrare” l’oltre.
Qui la narrazione si fa strumento “per rimodellare il simbolo tra la realtà e le singole stravaganze del quotidiano” come scrive nella mirabile prefazione Antonio Spagnuolo. Si pone al servizio del Poeta per significare pensieri e concetti oltre il narrabile, procedendo verso l’assoluto.
Questo miracolo, Nazario lo compie con la stupefacente naturalezza di chi ha cuore e mente intriso del più alto sentimento poetico senza eccessi estetici, senza retorica o forzatura, senza parole magniloquenti, senza costrutti contorti e senza presunzione di stupire il lettore, come oggi, tout-court, certa poesia si propone.
I toni sono pacati, il sentimento è vero e profondo, le immagini ricche ma semplici tali che, immergendosi nella lettura, sembrano non già appartenere all’Autore, ma essere di tutti, un bene comune d’immenso valore. E così sono nostri “lo stradone di scuola” e la “fionda” con cui si “riusciva a silurare il cielo” con la convinzione di “bucare anche le nubi”. E’ nostra “la sera di casa”, il “paesano”, che “sbircia un po’ poeta l’orizzonte”; “Francesca”, ci appartiene, l’immagine di nostro padre e “questo peso/ di pietre graffite da nomi/ di padri e di madri/ volati all’azzurro.”
E’ la Poesia del cuore filtrata da tutta l’Ars poetica di cui Pardini è direttore esperito e non può che coinvolgere ed emozionare nonché condurci delicatamente, per mano, sulla strada della riflessione.
Lorena Turri
Grazie, carissima Lorena. La tua è un'analisi che presuppone un animo di grande espansione umana; di intensa forza maieutica; di perspicace pienezza ontologica: "E lo fa con l’eleganza raffinata e la maestria di chi, non solo è padrone degli strumenti e della parola, ma anche con la superba e lucida capacità di trascendere la narrazione per “mostrare” l’oltre..."
EliminaNazario
La poesia di Pardini sgorga dal profondo del suo animo , vera e toccante, ricca di metafore struggenti e capace di cogliere con immediatezza le sensazioni trasformandole in versi di agevole lettura. Nella poesia di Pardini c’è tutta la sua ricerca spirituale e profonda , ci sono i colori e profumi della sua terra e della natura in genere, il tutto visto ed elaborato attraverso l’occhio della memoria , scrigno che racchiude la nostra vita dove passato e presente si fondono mentre il tempo scorre via.
RispondiElimina“E ci portiamo dietro questo peso
di pietre graffite da nomi
di padri e di madri
volati all’azzurro.
Di pezzi di muro
tatuati da dita intrecciate di sogni
per dire: “Ti amo.”
Nazario ci dona un esempio di poesia che celebra un ampio ricercare tra gli accadimenti della vita e delle emozioni sorretta da una pura illuminazione che persuade il pensiero e fa palpitare il cuore; una poesia che traduce in nuclei lirici l’esistenza e che possiede nella veloce contiguità analogica e nella dotta armonia delle assonanze la più sublime rilevanza poetica.
Sempre ammirata.
Emma Mazzuca
Grazie, carissima, per questa esegesi azzeccatissima che contiene, in sintesi, l'anima della mia poetica.
EliminaNazario
Conosco gran parte delle liriche qui riportate da Nazario, anche per averle commentate su questo stesso blog. Non lascerò - quindi - nessun genere di "giudizio" esegetico ma, soltanto, poche parole per esprimere (o cercare di farlo) tutta l'armonica bellezza che questi versi incutono nell'anima.
RispondiEliminaE quale dovrebbe essere il compito della poesia se non assentarsi per lanciare il suo grido di ribellione, per essere davvero presente in un mondo che, a furia di apparire, ha perso il contatto con la realtà irrinunciabile del nostro essere, prima di tutto, naturali e, dunque, veri, autentici?
Grazie, Nazario, per avercelo ricordato.
Sandro Angelucci
Carissimo Sandro, sei grande e vicino. Il tuo senso del Bello va oltre il terreno per fare del terreno stesso quella madre antica che chiede armonia e sublime ricordanza da donare al futuro.
EliminaNazario
Il tuo, caro Nazario, è un melologo (anche un assolo) che vola alto, stai raggiungendo cime elevatissime, sublimanti e superbe. Che dirti?Sei all'Everest della poesia, non ti raggiunge più nessuno. Sono orgogliosa e fiera di te, mio carissimo. Perdere il contato con i tuoi versi vuol dire smarrirsi, ma tu riesci a spiazzare anche quelli che ti seguono, passo passo, ormai puoi lanciarti senza il paracadute, sicuro di non farti neppure un graffio. Complimenti vivissimi, sincerissimi e affettuosissimi...
RispondiEliminaNinnj Di Stefano Busà
Come restare indifferenti a tanta VOCE! Come non restare sbigottiti a tanto prestigio cresciuto nel tempo e guadagnato con ardue imprese umane e letterarie. Con scalate fino alle vette dell'Olimpo. Basta il nome: sua maestà Ninnj Di Stefano Busà.
EliminaCon affetto
Nazario
E' proprio vero che la poesia è un discorso tra persone intelligenti. Pardini ci consegna “I canti dell'Assenza”, Spagnuolo, grande poeta egli stesso, vi appone il proprio inimitabile sigillo, e chi ha aggiunto esemplari commenti si muove al medesimo livello. Sarebbe il caso di restare spettatore stupefatto di tale pregevole rappresentazione, eppure l'affetto che mi lega all'Autore mi spinge a dichiarare qualcosa in relazione a questa sua Opera.
RispondiElimina“Assenza delle cose che si sono magicamente allontanate”, - scrive il prefatore Spagnuolo. E la fantasia del poeta le recupera dando corpo alle figure del passato e alle luci e ombre del presente stesso con liriche originali e vibranti, parole che sanno spingersi nel profondo dell'intimità. Ciò che le fa vibrare è la memoria, particolarmente quando evoca i ricordi dell'infanzia e i luoghi della gioventù.
Sempre primo
con la bici coperta di fanghiglia... (Lo stradone di scuola)
Memoria dunque, e sogno. Pascoli diceva: "Ditelo voi, se la poesia non è solo in ciò che fu e in ciò che sarà, in ciò che è morto e in ciò che è sogno!”
Ma è lungo tutto l'intero misterioso percorso della vita che lo sguardo profondo del Pardini riesce a cogliere le visioni emblematiche resistenti al tempo e alla retorica delle parole. Il richiamo agli affetti, al paesaggio natio popolato di cose, oggetti, luci, bagliori, velati di malinconie.
Come rileva il prefatore si tratta di: un contatto continuo con le emozioni, una sintassi delle osservazioni, il comprimere nel ritmo un diaframma che possa svelare ogni sussulto del sub conscio.
Quando il pensiero poetico lo conduce a meditare sulla stagione conclusiva della vita, Pardini riesce magicamente a conservare/ritrovare serenità, naturalezza e semplicità.
Il frutto cade
del giorno ormai maturo ed è la notte. (Ottobre)
che mi richiama alla mente un mio verso ben più scarno: Ti volti dall'altro lato e c'è... la notte.
A proposito di citazioni, al mio: io sono ala che non sa volare...
Nazario sembra rispondere:
“padre, tu che mi hai dato il volo,
aiuta questo figlio, dagli l’ali,
che il cielo non mi regge
ed io sprofondo incauto negli abissi. (Il volo di Icaro)
Nazario Pardini è uno spirito straripante di umanità. Ti coinvolge quel suo modo di voler condividere con gli altri i momenti della propria ricerca poetico letteraria. Da questo contatto uno non può non accorgersi di trovarsi dinanzi a un cantore sapiente in continua meditazione/ interrogazione, erede della migliore tradizione letteraria italiana.
Ubaldo de Robertis
Grazie, amico, di questa esegesi: una vera spremuta d'anima. Sono felice di vedere uniti i miei versi ai tuoi, tanto significativi e di plurale resa artistico-esistenziale.
EliminaNazario
La poesia di Nazario Pardini fa su di me, da sempre, l'effetto di un bagno di eternità. Che cosa intendo con questo termine? Purtroppo il maledetto vizio della ragione ci porta sempre a dividere ciò che è unito e che mai si dovrebbe pensare di separare. Per nostra fortuna la poesia ha il potere di ristabilire l'osmosi fra contingenze e assolutezze, fra eternità e relatività. In realtà, di eterno è intrisa la storia, come di tempo è intrisa l'eternità. Non intendo dire che sono identici, ma che sono due facce inseparabili della stessa medaglia. Da un lato la Superficie, dall'altro la Profondità. Non esiste l'una senza l'altra, tutto è in relazione. Come il bianco ed il nero, il giorno e la notte, il giovane e il vecchio, e via dicendo. La Memoria di cui è intrisa la poesia di Pardini non appartiene a quella faccia della medaglia che appartiene al tempo che passa, allo scorrere veloce del fiume verso la foce, "nel clangore dell'irruente mare", ma alla faccia del "rampollare bisbigliante dei gorghi tra le fresche chiazze sorgive". Se le origini si trovassero all'inizio dei tempi, esse sarebbero destinate a perdersi per sempre. In realtà esse non sono "originarie", ma "originanti". Sono qui ora, pronte a riaffiorare per dare origine a nuovi ed inediti percorsi creativi. L'acqua che finisce in mare evapora per tornare in pioggia sui monti, ad alimentare le polle sorgive. La poesia di Pardini, come quella dei poeti più grandi, ha il potere di evocare quell'eterno presente che sfugge alla dispersione del tempo, ma che non vive al di fuori del tempo ed è la sorgente invisibile di cui il tempo ha bisogno per tornare perennemente a capo.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Grazie Franco delle tue acute e personalissime osservazioni che, immancabilmente, colgono l'essenza dei miei versi. Che vanno oltre la parola, facendo del passato un presente disposto a nutrire il futuro.
EliminaNazario
“[..] il suo continuo ardire e discoprire,/il suo coraggio eterno di sfidare/il mare nero, lo scoglio e le sirene,/ quella pazzia di un fuoco che ci fa/scintilla degli dèi, impronta del divino,/bocci di libertà.” (da Il volo di Icaro)
RispondiEliminaE’ la poetica del tempo imperfetto, il canto lirico del passato in divenire, brumoso, opaco, il verbo di una velata malinconia, dell’azione che faceva ed ancora fa.
Il primo testo, “Il volo di Icaro”, ha la maestosità ritmica della poesia epica, ed è forse, per mio modo d’intendere, la vela spiegata dell’intera raccolta: la giovinezza dell’uomo è arditezza e follia, un “volo troppo arduo” che ci sperde in “cieli fra le stelle”. Segue ad essa “Elegia per Lidia”, cos’altro se non il sentimento? Si apre così già il tempo imperfetto “ed oltre i davanzali le tue mani/coglievano gli steli delle stelle.” , l’azione che si perpetua dietro le spalle. Quasi a dire la rapidità del tempo, un volo per l’appunto, una vista di bellezza dall’alto, un balzo d’onnipotenza durante il quale la corporeità è pari all’invincibilità dell’anima. Subito dopo il tempo imperfetto.
E iniziamo a parlare chiudendo gli occhi, aprendo buchi da cui tirare fuori emozioni più forti, immagini più vivide che promettano al futuro “avelli riempiti di colori” dove “danzeranno beate le fiammelle,/ linguiformi falò, apriranno i cieli”. Che ad un tempo imperfetto si accosti un tempo futuro è immagine poetica, di ciclo, di superamento del limite.
I testi che seguono si fanno pieni di belle immagini, di fragranze, di suoni, di echi che ribattono, di schiamazzi e scalpiccii “E pensare, ricordi?, che riuscivo/ a silurare il cielo colle pietre /convinto di bucare anche le nubi”. Belli gli enjambement che lasciano al verso ancor più visioni: quel “riuscivo” gonfia la chiusa dell’intera poesia e le dà il peso degli anni.
“L’albero gemma. Inflorescenze candide/ si aggrapperanno ai rami come figli/ ai seni delle madri. L’aria si apre [..] Ritornato/ sono per rivedere il primo verde [..] La cimassa/ si rifletteva ai garriti delle rondini”: il poeta ritorna e ritorna a Primavera, quando l’aria si apre. Presente, Imperfetto e Futuro giocano e tessono con fili sottili, e non c’è più freno, il tempo dissolto vaga. Le sonorità si fanno rotonde, l’andamento si dilata, le immagini rievocano. Possiamo ben sentire il suono degli Zufoli e leggere nella mente i propositi segreti della classe: siamo anche noi dissolti nel tempo, abbiamo alle spalle le ali di Icaro, canne alle golene e “Davanti [..] c’è un guado,/ un guado che riporta/ quest’uomo ormai attempato/ all’altra sponda.”
Ma se tutto sembra navigare in cose che non hanno più presenza, che non sono più, ecco che “Il peso delle pietre” ci fa riaprire gli occhi: “E ci portiamo dietro questo peso/ di pietre graffiate da nomi/ di padri e di madri/ volati all’azzurro/[..] Lo porterò con me oltre quel fiume/ quel sacco di pietre aggrappato alle spalle, / lo renderò leggero, lo renderò piuma [..]” Il poeta torna ad inneggiare ad Icaro, alle sue ali, cui però pone il peso di un’intera vita, e all’audacia giovanile accompagna sogni maturi, visioni di completezza : “Mi è nemica/ la mancanza di forza e di energia/ che l’anima possiede e ne invola/ lasciando attero a terra/ l’involucro che più ormai ne è vela”.
Il ritmo poetico si è fatto sincopato, non rapido, né appuntito, quasi a seguire il battito più forte di un cuore vivo. In particolare “Il peso delle pietre” e “Volerei felice fra le reste” ( da cui ho tratto i versi precedenti) hanno l’andamento di una canzone commista di violini e bassi, ma rap.
Il tutto si chiude con “Fiume” e una domanda : “Lo sai tu dove corri?”, l’idea tanto umana che la conoscenza difetta, e l’idea tanto divina che la conoscenza rende immortali.
Grazie Nazario per questo,
un saluto a tutti voi, che mi avete preceduto.
Aurora De Luca
Carissima Aurora,
Eliminaun canto sul canto, un orchestra polifonica intenta a intonare melodie pucciniane. Sei magnificamente magnifica; infinitamente umana; e autopticamente creativa nel penetrare nei meandri dell'anima umana. Tante grazie peer questo tuo "Saggio".
con affetto
Nazario