Imperia
Tognacci: Là, dove pioveva la manna. Edizioni
Giuseppe Laterza. Bari. 2015. Pg. 80
Precipite il tempo: tra onde
di ritorno chiama il faro
dell’ultima frontiera.
Tutto, all’improvviso,
deraglierà.
Poco importa a te, madre
terra,
se sarà stata la punta
di una pietra di salice,
o la frana dei giorni su di
noi,
a condurci dove ogni
cosa tace e dove l’ombra
senza memoria regna.
Un
inizio di grande essenza significante, dove è possibile leggere l’inquietudine
dell’esistere e le tappe di un iter che fa della realtà un motivo d’indagine.
Questo “Poema” lineare e organico per pensiero e forma – un verso libero che
permetta a Imperia Tognacci di non restare vincolata a un modus scribendi che
può limitare l’effusione lirica del canto – parte proprio da una realtà fisica
e spirituale per cercare di agguantare le soglie della verità. Cammino
difficile e intricato attingere qualche risposta dai perché della vita; dacché
il nostro essere, pur cosciente della precarietà della sua vicenda legata al
luogo e al tempo, contiene quegli impulsi che lo elevano e lo invogliano alla
ricerca. Lo spirito e la materia, la terra e l’oltre, le cose e la fuga; un
equilibrio di contrapposizioni, una fusione di contrari che alimenta con
energica forza linguistica la storia di un’anima. Il suo viaggiare in un mare
illuminato da un faro dalla scia troppo breve per le esigenze di uno spirito vòlto
alla conoscenza di sé, del rapporto col mondo, con le stelle e l’universo, con
l’ingordigia di un’ora che tutto trangugia; col rapporto con l’aldilà, e con
tutto ciò che comporta questo travaglio interiore per staccarsi dal vissuto,
pur facendone motivo di risalita. D’altronde quel mare è troppo vasto e ostile
alla navigazione. È un mare che allunga i suoi spazi a orizzonti troppo vasti per
la mente umana; che ci rende piccoli piccoli, inesistenti; ma che si apre,
anche, a estensioni di libertà per la conoscenza dell’altra parte di noi, del
nostro vivere e del perché: soluzioni a quesiti di cui va in cerca la Nostra.
“Tutto, all’improvviso, deraglierà”. È il nostro ente che è destinato a chiudere il sipario con in petto tutti quegli
interrogativi irrisolti. Un’opera plurima, di polisemica valenza, questa della
Tognacci. Un’opera in cui si toccano tutti i tasti dell’andare e tornare; dell’essere
e soffrire, di quella vicenda odisseica che ci mette di fronte ad un viaggio
zeppo di trabocchetti e insidie, per cui niente è facile ma tutto è possibile
se misurato col nostro bisogno del ritorno: un nostos di grande significato
umano e sovrumano che non significa solo donna, uomo, terra, paese, radici, amore;
piuttosto rinnovamento, un nuovo esistere pregno di conoscenze, di riflessioni,
e delusioni, in base a quello che ci eravamo proposti di raggiungere. Anche se,
pur sempre, storia di nostoi con in cuore Nausiche, Circi, Polifemi, Sirene che
tornano a mente mutati in altre fisionomie; in immagini sfumate dal tempo;
rivissute con saudade, con nostalgia di un qualcosa che non è più realtà, ma
pathos che tiene in sé vicissitudini di primavere lontane. Sì, tutto questo
trovo nel viaggio interiore della Tognacci vòlto ad una terra reale e surreale,
agognata e, forse, mai raggiunta; una terra che esiste nelle sue aspirazioni; un
amore edenico, un suolo incontaminato, un mèlange di memoriale e di parènesi
oracolare che riaffiora con forza per sconfiggere il nulla; quel nulla che ci
opprime e che la Poetessa trova: “Là, dove pioveva la manna”. Ben VII le tappe di questa “Odissea”: Il sé come orizzonte, Spazio aperto, Non
siamo separati, Per sentieri di sabbia e vento, Alzo segnali di fumo,
Nell’eternità dell’anima, Verso Aquaba.
Una
vera ascesa; una scalata verso cime da cui si possa vedere, a cielo sereno, un
panorama senza quei confini che
delimitano il nostro esser-ci:
Nel mio viaggio lungo il deserto
fino ad Aquaba, mi guidate,
voi, beduini, su maestosi
cammelli, immagine vivente
di stagioni perdute
su sentieri di sabbia e di
vento
e di ancestrali ritmi dal sangue
trattenuti…
Un
procedere di urgente metaforicità espressiva affidato al supporto di intrecci
narratologici; un “Poema” che si fa sempre più allegorico nel dipanarsi di una
vicenda immaginifico-esistenziale dove Aquaba, i cammelli, i beduini, i
sentieri di sabbia e di vento divengono visualizzazioni concrete di sentimenti
e sensazioni, di memorie e aspettazioni alla ricerca di un’oasi in cui:
Mi parlerai dell’altra riva,
dove gorgogliano acque eterne,
dove si raduna ciò che non ha
fine…
Là
è volta l’anima della Nostra, là è diretto il cammino: in un mondo eternamente
eterno, bucolicamente affabulante, terrenamente ultraterreno; là dove
l’immaginazione poetica possa vincere le sottrazioni del quotidiano; in un
continuo cammino, senza sosta, senza esatta destinazione, alla ricerca di
un’isola vestita di sole:
Non ti dirò, Eolo, l’esatta destinazione,
che la Parca mi colga andando.
Nazario
Pardini
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