Umberto Cerio collaboratore di Lèucade |
Siamo
di fronte ad uno dei più fecondi monologhi del neoclassicismo moderno di cui
Cerio è il rappresentante più solido per parola, intuito, cultura, e messaggio
parènetico. Un canto di grande movimento metrico che asseconda i vari stadi di
una proficua interiorità. L’Autore vive la classicità, ne è parte, la respira,
l’ama e l’ha sempre amata; per cui, questa, torna a galla dopo lunga
decantazione; e si sa quanto potere abbia la memoria nel coltivare sogni,
ingrandendoli, facendoli nuovi di intenti e motivazioni; facendoli freschi di
sentimenti e passioni; sta qui la
differenza fra realtà e immagine; la prima è così come appare: non ha ancora
avuto il tempo di fecondare semi; la seconda è ricca di storia; ha vissuto calda
nella sua benevola alcova; si è imbevuta di momenti emotivi, di occasioni di
vita, di parole non dette, di sguardi fuggiti, di nostalgica saudade, di melanconica
gioia, contemplati, però, da un alto podio di equilibrate e annose vicende; ed è
così che, qui, ci imbattiamo in soluzioni di novella partitura, di nostos
odisseico, di odeporico incantamento umano, verso mete che segnano i confini
fra eros e thanatos; fra mistero e realtà; fra realtà e poesia; contrapposizioni
che, poi, nella loro simbiotica fusione, non sono altro che barbagli che rendono
vivo e intenso il nostro esistere.
Fanno da prodromico invito alla lettura
citazioni letterarie di grande validità contestuale: Pavese, Anacreonte. Cinque
le parti di questo profondo e attuale canto. E la bellezza sta tutta nella connessione
felice delle sue parti significanti: la
prima, di tradizione classica, ci dice di un’Euridice che può tornare
fra i viventi a patto che Orfeo, uscendo dall’Ade, non si giri per guardarla. Lei
lo sente, ascolta di nuovo la sua lira incantatrice, ma lui non può fare a meno
di voltarsi verso la sua amata:
(…)
Ma
ora sento di nuovo la lira
che
in cielo ferma la ruota d’Issione,
di
Tantalo la sete, e la fame,
di
Sisifo il greve macigno,
(…)
sei
tu, sei tu che vieni a ricondurmi
al
Sole, alla luce
E avanti si fanno figure mitiche che tanto
sanno di vicenda umana, che tanto si svincolano, col loro simbolismo, dalla
cultura per la cultura. Un mito nuovo che palpita di freschezza, che sa di
meditazione, di quella inquietudine spirituale che sempre ha fatto parte
dell’uomo in quanto tale: la ruota di Issione; il Sole, il Sole, il Sole, più
volte ripetuto; quella luce che parla del nostro azzardo verso la luminosità
dei cieli; la sete di Tantalo, il macigno di Sisifo.
La seconda parte prende spunto dai Dialoghi
con Leucò di Pavese: Orfeo si volta per non far morire due volte Euridice; ella
sente un freddo profondo, anche se senza corpo; sente il gelo entrare nel cuore
e nel sangue ed il respiro che serra ancora una volta al nero veleno.
(…)
Vedi,
sono sempre più vana
e
leggera e tu più lontano
di
un astro del cielo
che
mai più mi è dato guardare,
più
lontano del Sole e delle stelle
nella
tempesta di notti e di luci,
ed
il mio cuore di nuovo si spezza,
perché
da solo tu vai alla vita.
Più
non sento i miei nervi e le ossa.
(…)
Nella terza il riferimento all’Orfeo negro
del ’59 offre spunti di grande attualità sociale e civile; un bellissimo e poetico film,
pasoliniano per la fusione di mito, povertà e cultura etnica, perfetto nei
colori e nei suoni, ancora in grado di suscitare sensazioni fortissime, rintuzzate
anche dalle vicende della triste quotidianità. Euridice di certo vorrebbe tornare a vivere l’amore del suo Orfeo ma non son si sente più quella
delle Driadi, la semplice Ninfa dei Traci, contenta dei boschi e del Sole:
Oh
se ti amo, mio Orfeo!
oh
se vorrei vivere ancora con te,
e
vorrei, mia anima,
sentire
ancora il tuo canto
(…)
Non
son io, non son io più l’Euridice
delle
Driadi la semplice Ninfa
(…)
No.
Non sapevo la vita mortale.
Non
sapevo il dolore
e
lo scempio dell’anima e del corpo.
Nella
quarta parte l’invenzione poetica di Cerio in cui Euridice, dopo tante
esitazioni, decide di non volere morire due volte; è lei
che ha chiamato Orfeo e che l’ha costretto a voltarsi. Troppa l’angoscia di una
doppia morte; quella di ridiscendere il tortuoso e buio cammino, dove nessuno
più parla e sorride; è lei che ha voluto restare nel regno dei morti:
(…)
Ho
voluto morire
una
volta soltanto,
ma
per te morirei mille volte
se
Persefone donarci volesse
ancora
una notte d’amore
senza
annunziarci un vento di morte.
Nella quinta la piena attualizzazione del
mito dove il canto risente più della emotività del Poeta; della sua vis
creativa, dacché, proprio in questa parte, sbrigliato da ogni occasione di
riferimento, Cerio dà tutto se stesso allo sfogo della sua vicenda intimistico-concettuale;
grande poesia; un fiotto di spontaneità che tradisce a pieno il correlativo
oggettivo di stampo eliotiano; una forza sempre più potente, in progress, che raggiunge
superbe punte di lirismo; è qui tutto il pathos esistenziale, tutta la
estensione umana di un verso che respira la caducità dell’uomo in quanto tale:
lo scorrere del tempo, la labilità del presente, il memoriale, la coscienza
della nostra improrogabile fine, misteriosa e paurosa; ma anche quella di
un’umanità che sta toccando il fondo del pozzo con la negazione della sua
esistenza. La vita è passata in pochi istanti; resta a Euridice un buio vuoto.
Eterno. Sempre più acre; accompagnato dal gelido lamento dei morti; e cosa ci si
può aspettare dai viventi; dalle loro città morte, senz’anima, se non che quell'amore che significa vita, ebrietudine, rinascita, speranza:
Intanto
che il vento
nidi
di passere scuote selvaggio
la
speranza non muore:
sono
qui che ancora lo aspetto
tra
le spine del mio lungo dolore
per
il tempo che ancora mi scorre
negli
occhi che scolorano tristi.
Un
vero capolavoro di rivisitazione culturale dove il sentimento accompagna ogni
palpito vitale guidando il nostro Cerio verso spazi senza confini, come l’Arte richiede;
guidandolo su una strada sapida di pienezza ontologica, senza sterili
espedienti sperimentalistici, con un linguaggio dolcemente affabulante, che
mira a portare un messaggio a chi legge, senza ricorrere a rocambolesche
figurazioni obese e di intralcio alla fluidità del dire. Perché la Poesia
richiede semplicità, quella semplicità complessa che vuole toccare la parte più
intima dell’essere umano; che vuol far vibrare le corde del sentire, a che, con
essa, si possa volare nel cielo dei grandi miti.
Nazario Pardini
Orfeo e Euridice |
EURIDICE
Orfeo
– Cercavo un passato che Euridice non sa.
L’ho capito tra i morti mentre cantavo
il mio canto. Ho visto le ombre
irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare,
Persefone nascondersi il volto, lo stesso
tenebroso-impassibile, Ade, protendersi
come un mortale e
ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla.
(C. Pavese, Dialoghi con Leucò, L’inconsolabile)
Dell’Ade
infatti è orribile
il baratro, e ad esso è grave
la
discesa, ed è vero,
per chi sia disceso
risalire
non è possibile.
(Anacreonte, fr. 44 Diehl)
1.
Il
mio cuore è dolore
nel
grigiore dell’ombre dell’Erebo
e
più non vedo il passo di Orfeo
né
la sua ombra fuggente.
Non
odo canto soave ammansire
fiere
selvagge ed uomini feroci,
ma
lamenti di “una notte perpetua”
dentro
grotte oscurate dal vento.
Com’è
triste l’attesa,
sento
dolore del morso del serpe
che
nero rendeva il mio corpo
e
precipite l’anima nel regno
dei
morti che lieve giù discendeva.
Ed
ora più non c’è giorno né notte.
Qual
sortilegio potrà ricondurmi
alla
luce ed ai profumi del mondo?
Il
suo canto, solo il suo canto
che
scuoteva le rocce
e
fermava nembi e tempeste
sulle
terre e sui mari
e
cantava il mio amore ed il suo
con
la cetra divina
ai
sacri boschi ed al cielo odoroso.
Ma
ora sento di nuovo la lira
che
in cielo ferma la ruota d’Issione,
di
Tantalo la sete, e la fame,
di
Sisifo il greve macigno,
e
tremano mostri e Dei infernali:
sei
tu, sei tu che vieni a ricondurmi
al
Sole, alla luce della vita.
La
mia ombra è leggera
e
volo da te per stringerti ancora,
riportami
al Sole,
ti
prego più che Proserpina ed Ade,
ti
prego non ti voltare a guardarmi,
ti
seguo col cuore in tumulto,
non
rendere vana questa speranza!
Ma
perché morire due volte?
Voglio
tornare ombra vana
tra
l’ombre degli Inferi perse
senza
sentire due volte il dolore.
Se
ti chiamo e ti volti
la
mia ombra svanisce al tuo sguardo
come
al sole sperato la foschia
del
palude che questo mondo cinge
e
mi abbandono per sempre alla notte.
2.
Vento
freddo del Nord soffia nel cuore
di
Euridice che non scalda
fuoco
d’amore vero,
tra
il lamento delle anime morte.
Il
dubbio ora mi prende
ch’egli
non voglia condurmi con sé.
Ma
allora che senso il suo canto,
commuovere
Ade e Persefone
sommuovere
i morti
dar
voce a tempesta di venti
fermare
l’impeto dei fiumi
far
piangere Strimone
commuovere
degli Inferi le ombre?
Se
questo ha fatto vuol dire che m’ama
che
mio è il suo cuore,
ché
di Aristeo lusinga non v’era
perché
da lui fuggivo atterrita.
Il
dubbio, il mio dubbio più atroce
è
che d’improvviso possa voltarsi
e
ricacciarmi nel gelo dei morti
e
farmi svanire nel bigio fumo
del
sovrano innominabile d’ombre.
Non
voltarti, ti prego, mio Orfeo.
La
mia tristezza è pari soltanto
al
timore di perderti adesso
che
siamo vicini alla luce,
pari
alla solitudine eterna,
al
gelo delle nevi che il tuo canto
soltanto
scioglie nel tremulo cuore.
Ma
posso io morire
due
volte in una vita soltanto?
Perché
il timore mi prende
che
io non voglia morire due volte?
Vorrei
vivere ancora
e
poi finire nel Tartaro in fondo
se
alla luce con te mi conduci
e
per amarmi per tutta la vita.
Ma
io mi perdo tra il sì ed il no.
Com’
è profondo il freddo dove torno,
anche
se più non ho il corpo
sento
il gelo entrarmi ancora nel cuore
e
nel sangue ed il respiro serrarmi
ancora
una volta al nero veleno.
Ed
io più non so dove sia
il
labirinto dei miei sogni.
Vedi,
sono sempre più vana
e
leggera e tu più lontano
di
un astro del cielo
che
mai più mi è dato guardare,
più
lontano del Sole e delle stelle
nella
tempesta di notti e di luci,
ed
il mio cuore di nuovo si spezza,
perché
da solo tu vai alla vita.
Più
non sento i miei nervi e le ossa.
3.
Io
torno soltanto con l’ombra da te
e
ti sono vicina
nella
stanza dove abbiamo per poco
vissuto
l’amore di sposi.
Tu
vuoi annullare lo spazio
che
ci divide -crudele ed assurdo-
e
mi sposto perché vera non sono:
il
mio corpo è sepolto
e
sono più vana dell’aria
e
della luce ormai frantumata
dal
tempo e dal mare in tempesta.
Ed
ancora mi sposto
come
quando sei venuto nell’Ade
e
mi hai dato un dolore più forte
del
veleno del serpe.
Più
dolce sarebbe stato morire
due
volte e sentire il tuo canto
piegare
Persefone ed Ade
e
vederti per due volte cercarmi
negli
Inferi tra le ombre dei morti.
Vedi
che sono più vana dell’aria,
più
fragile del cielo in frantumi,
del
vento che sposta il mio corpo
fatto
solo di niente
che
vola nel vuoto come quel giorno.
Illusione
è la tua di vedermi
nell’alcova
tua dolce,
illusione
è anche la mia
che
tu veda il mio corpo ancor vivo
tentare
il tuo desiderio di uomo
che
muove ancora il tuo canto divino,
e
mi cerchi e ti schivo
come
parvenze di corpi sfuggenti,
come
le ombre della mia lusinga
e
vana l’attesa della speranza.
Non
c’è più l’Euridice
per
i desideri del suo Orfeo.
E
sono ancor più lontana degli astri.
Una
vita intera d’amore
non
sarebbe bastata
a
pagare della morte l’orrore
dopo
aver conosciuto
lo
strazio ed il supplizio del nulla.
Mi
basta morire una volta!
Oh
se ti amo, mio Orfeo!
oh
se vorrei vivere ancora con te,
e
vorrei, mia anima,
sentire
ancora il tuo canto
smuovere
acque profonde e macigni
e
placare le fiere
acquetare
forti tempeste e bufere
e
disperdere i nembi,
volare
nell’aria fino alle stelle!
Cos’è
questo mio desiderio
di
vagare con te senza più pace,
a
cosa mi spinge l’Ananche
che
stordisce i miei sensi
se
pur fuori dalla vita mortale?
Non
son io, non son io più l’Euridice
delle
Driadi la semplice Ninfa
dei
Traci, contenta dei boschi
e
del Sole, ora discesa
per
sempre nel regno dei morti.
No.
Non sapevo la vita mortale.
Non
sapevo il dolore
e
lo scempio dell’anima e del corpo.
4.
Vi
ho detto infine il vero.
Sono
io che Orfeo ho chiamato
e
costretto a voltarsi
per
tornare tra le ombre dei morti.
Altro
che la sua incredulità.
Altro
che la sua non volontà.
Risalire
tra i vivi?
Troppa
l’angoscia: io morire
due
volte e ridiscendere ancora
il
tortuoso e buio cammino,
riavere
una moneta sugli occhi
ai
remi sapere il bieco Caronte
attraversare
due volte lo Stige
e
due volte il triste Cocito:
dove
nessuno più parla e sorride,
dove
non giunge il tuono né il lampo,
dove
il vento non gioca con l’erba
e
mai non vola la rosea Eos
radiosa
ad aprire le porte
del
Cielo sul carro del Sole
a
svegliare i mortali
che
breve sanno il loro cammino.
Ero
già non regno dei morti,
ho
voluto restarci.
Ho
invocato Orfeo
per
perdermi ancora nell’ombra
e
rassegnata restare nell’Ade.
Ma
tu salvati, Orfeo,
che
possiedi lira e cetra divine,
vieni
da stirpe di Dei immortali
e
non hai l’avverso destino
dell’infelice
tua sposa perduta.
L’umana
e triste tua morte
-pur
se la testa staccata nel fiume
invocherà
lungamente Euridice-
riscattata
sarà dalla tua fama
di
cantore, immortale come un Dio,
oltre
il tempo dei tempi a venire.
Il
nome di Euridice
vivrà
nella memoria di Orfeo:
sono
felice di questo destino,
dell’amore
donato
ad
una semplice Ninfa dei boschi
che
già sapeva d’essere mortale.
Addio,
Orfeo, per me più non c’è
un
luogo né un tempo
da
vivere e amare un uomo o un Dio.
Ho
voluto morire
una
volta soltanto,
ma
per te morirei mille volte
se
Persefone donarci volesse
ancora
una notte d’amore
senza
annunziarci un vento di morte.
5.
Ma
ora più non ho luce nel cuore
e
gli alberi della mia giovinezza
e
delle sorelle canto e sorriso,
il
suo desiderio,
il
suono divino della sua cetra
e
non più i silenzi
che
mi chiamavano dal tempo
scosceso
alle ombre della notte.
Non
sapevo il dolore della morte
e
d’Ade il mondo grigio
dove
non c’è vivo sangue né corpo
e
la saggezza muore
tra
i bronconi pungenti di rovi
senza
il profumo profondo dei fiori.
In
pochi istanti la vita è passata.
Mi
resta un buio eterno e vuoto.
Non
c’è clessidra a segnare il tempo,
ma
solo incessante e sempre più acre
il
gelido lamento dei morti.
Non
è la luce, ma lampi sinistri
che
bruciano i confini del mondo.
E
cos’altro aspettarmi
se
anche i vivi più cuore non hanno
e
se le città sono morte
dentro
il buio dell’anima?
Intanto
che il vento
sul
tetto della mia casa deserta
nidi
di passere scuote selvaggio
la
speranza non muore:
sono
qui che ancora lo aspetto
tra
le spine del mio lungo dolore
per
il tempo che ancora mi scorre
negli
occhi che scolorano tristi.
Umberto Cerio
Grazie, Nazario, per questa tua superba esegesi, che aggiunge e completa tutti i significati ed i significanti dei miei versi. Come al solito alla poesia aggiungi poesia e nessun particolare ti sfugge, anzi il tuo dire sapiente e limpido scende nel profondo dell'animo dei personaggi (e della poesia e dei poeti) riportando in superficie tutto il magma bruciante con la sua prorompente fertilità. Ti ringrazio di cuore, con grande stima e amicizia incondizionata.
RispondiEliminaUmberto Cerio
Grande poesia; una perlustrazione poematica che si avvale di una fusione fra mito, sentimento, sogno, mistero, amore, vita e morte. Ne esce l'immagine di una donna fresca e attuale, metafora di una filosofia che da sempre tormenta l'uomo.
RispondiEliminaComplimenti a Cerio e a Pardini che ne ha tratteggiato le tappe fondamentali.
Prof. angelo Bozzi
Grazie, professor Bozzi. Le parole del suo sapido commento a Euridice, precise e puntuali, giunte preziose e gradite, sottolineano con grande perspicacia lo sgomento per un futuro sconosciuto ed incerto dell'umana vicenda. Le sono veramente grato
RispondiEliminaUmberto Cerio
Nella rivisitazione del mito, e nella sua riproposizione sospesa tra l’esigenza della verità (mitologica, appunto) e il desiderio di “riscrivere” in chiave realistica, e a un tempo attuale, la storia di Orfeo ed Euridice, Umberto Cerio non solo nobilita da par suo l’arte della bella poesia, ma compie anche un viaggio rivelatore nella storia dell’uomo, condensando nel simbolismo onirico ed esistenziale di Orfeo ed Euridice non tanto, e non solo, l’evoluzione sentimentale ed esistenziale del genere umano (che Nazario Pardini, nella sua magistrale esegesi, registra come sedimentazione e “decantazione” del mito nel tempo e nella storia), ma anche, a ben vedere, quella “politica” e “sociale” degli uomini e delle donne, viaggiatori stremati dell’umana avventura, naufraghi avviliti e sopraffatti dall’odio e dalla barbarie, dalla violenza e dalla sofferenza, dalle guerre, dalla ferocia, dal sangue:
RispondiElimina“No. Non sapevo la vita mortale.
Non sapevo il dolore
e lo scempio dell’anima e del corpo”.
E’ questa “riscrittura” del mito che rappresenta il punto di svolta, la cosciente e lucida scelta compiuta da Euridice:
“Vi ho detto infine il vero.
Sono io che Orfeo ho chiamato
e costretto a voltarsi
per tornare tra le ombre dei morti.
Altro che la sua incredulità.
Altro che la sua non volontà”.
Quindi la malinconica confessione per la purezza perduta, per il sogno abbandonato:
“Non son io, non son io più l’Euridice
delle Driadi la semplice Ninfa
dei Traci, contenta dei boschi
e del Sole, ora discesa
per sempre nel regno dei morti”.
E’ in questo passaggio che Euridice si affranca dal mito e diviene il simbolo vivente di un’umanità dolente e disillusa, passata dalla primordiale innocenza e dalla fidente “scommessa” nella vita alla resa definitiva, al disincantato riconoscimento del fallimento e della sconfitta per una scommessa irrimediabilmente perduta. Una condanna inappellabile per il genere umano.
Cos’altro può infatti significare la rinuncia di Euridice, seppur meditata e sofferta, ad una possibile “resurrezione”, se non la totale sfiducia nell’uomo?:
“Non è la luce, ma lampi sinistri
che bruciano i confini del mondo.
E cos’altro aspettarmi
se anche i vivi più cuore non hanno
e se le città sono morte
dentro il buio dell’anima?”
Ma in una sequenza che tutto sembra voler condannare, resta l’invocazione di Euridice per Orfeo:
“Ma tu salvati, Orfeo,
che possiedi lira e cetra divine,
vieni da stirpe di Dei immortali”.
C’è dunque uno spiraglio, una luce, seppure fievole, che induca ad una speranza di redenzione, di fede nell’uomo? Sembrerebbe di sì, se solo riusciamo a “leggere” nell’Orfeo di Umberto Cerio l’unica nostra possibile via di fuga da quello “scempio dell’anima e del corpo” che drammaticamente segna i nostri giorni, il solo viatico di salvezza e di redenzione di cui disponiamo: la voce della bellezza e dell’arte, la voce dei poeti. Sembrerebbe la solita utopistica deriva nel libro dei sogni, un insensato e disperato tentativo di evasione dai mali del tempo che viviamo. Ma la bellezza, l’arte e la poesia (che ci crediamo o no) sono le sole speranze che abbiamo.
Credo sia questa la chiave di lettura della Euridice di Umberto Cerio, magnifico cantore del mito, voce critica e severa che interpella ineludibilmente le nostre coscienze.
Umberto Vicaretti
Questa non è soltanto una lunga e preziosa nota, ricca di elementi aggiuntivi e chiarificatori, ma una vera e propria esegesi, completa e, soprattutto, centrata su momenti essenziali del poemetto. Euridice, nella mia scelta interpretativa, diversa da quelle tradizionali, antiche e moderne, vuole infatti essere, come tu dici con chiarezza disarmante, "simbolo vivente di un'umanità dolente e disillusa, .... disincantato riconoscimento del fallimento e della sconfitta per una scommessa irrimediabilmente perduta". E' questo il punto di rottura del futuro felice dell'umanità. Ti (e ci) chiedi:"C'è uno spiraglio, una luce ::: che induca ad una speranza di redenzione"? Ci può essere, certo, ma -secondo la mia convinzione- dipende soprattutto dall'uomo, dal suo ritorno ad una saggezza significativa e da una sua azione salvifica, per mutare il suo destino, diverso da quello che appare oggi. Euridice, nel mio canto, in fondo, conclude, (ovviamente non rivolgendosi al solo Orfeo) :"Sono qui che ancora lo aspetto / tra le spine del mio lungo dolore". Per tutto questo, caro Umberto, ti ringrazio per questo tuo contributo importante ai fini della comprensione del "messaggio" che ho affidato ad uno squisito animo femminile, ricco di intuizioni e fidenti decisioni.
RispondiEliminaUmberto Cerio
Mi fa molto piacere che il poemetto di Umberto Cerio sia stato così favorevolmente commentato da penne capaci e brillanti. Pardini, Bozzi e Vicaretti ne hanno acutamente individuato il valore e la portata, la verità e la bellezza. Quanto a me mi limito a riportare la brave valutazione che ne diedi all'autore il quale, da buon amico, me lo aveva inviato in anteprima. " La prima impressione è di un poemetto molto ben riuscito, diciamo una bella riedizione del mito: adeguata la tensione lirica, autenticamente rivissuta l'atmosfera della storia raccontata, convenientemente distribuito il materiale diegetico, inusuale (e perciò stimolante) la soluzione della vicenda scelta da Euridice. Il tutto composto in classica bellezza. A me pare proprio un lavoro di notevole dignità letteraria."
RispondiEliminaAggiungo che il vero punto di forza di quest'opera è l'armonia che governa le singole parti e il tutto. Nulla è fuori posto, ogni spazio è sapientemente occupato dai suoi contenuti narrativi e poetici. Domina un senso di severa misura, garanzia di seria e solida poesia.
Pasquale Balestriere.
Non è un caso che il poemetto lo avessi inviato in anteprima a Pasquale Balestriere, per conoscerne il parere: il suo dire essenziale e preciso, il suo acume critico, la sua lealtà che lo connota, le sue qualità di limpido e sapiente ermeneuta, la sua ampia e sicura cultura classica erano garanzia che l'Euridice, da poco da me portata a termine, potesse avere (per fugare qualche mio dubbio) dignità di essere pubblicata. Fra l'altro su quello che io ritengo, in assoluto, uno dei migliori blog che propongono, in Italia, arte, poesia e critica. Il suo giudizio resta, pertanto, garanzia di certezza, per la mia modesta opera. Desidero perciò ringraziarlo pubblicamente dopo averlo fatto a voce, con il telefono. Grazie, Pasquale, per aver espresso il tuo autorevole parere.
RispondiEliminaUmberto Cerio
L'assoluta modernità del canto antico di Cerio sta tutto nel senso della "caducità dell'uomo", come acutamente osserva Nazario Pardini. Sta in questa coscienza tragica di "una notte perpetua" che fa seguito all'illusione del "canto soave" di Orfeo, desideroso di quei voli celestiali che condussero anche Icaro a sfracellarsi sul suolo. Sta dunque nel senso del tragico che Umberto ritrova la radice classicheggiante della modernità, o viceversa il frutto tutto moderno della classicità. L'Orfismo racchiude in effetti, ed anticipa, l'intero percorso metafisico-nichilistico della cultura occidentale, superabile a mio avviso solo recuperando il più arcaico substrato misterico della grecità, legato ai temi del sacrificio e della lotta, rappresentati da Omero. Se la Vita è Illusione, ha ragioni da vendere Euridice a non voler tornare tra i vivi, per cui - dice Cerio con intuizione geniale - è lei a chiamare Orfeo per farlo voltare, costringendolo a guardare in faccia la triste realtà.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Non mi sento come "i decadenti"che assistevano inermi alla caduta dei valori, di una società al tramonto. Ma certo è la decadenza che produce "la coscienza tragica" di "una notte perpetua". Certo:al canto infinito di Orfeo l'uomo non ha fatto seguire che che il drammatico e il tragico, la caduta dei valori morali civile ed etici. All'invito dell'orfismo l'uomo ha fatto seguire, nella sostanza, eccetto brevi eccezioni, "il percorso metafisico-nichilistico della cultura occidentale", come tu dici, con la perdita delle certezze, delle speranze, del sogno. Ed Euridice diventa il simbolo della disillusione e della protesta, la coscienza negativa della fine ineluttabile con scarse speranze ed attese all'orizzonte. M anche un fulgido esempio di lucida ribellione ad una logica "accomodante". Grazie, Franco, di avere offerto questa nota che ha arricchito anche il dibattito sul poemetto, che ho proposto col monologo (che -sono d'accordo con te- Nazario Pardini ha colto nel suo senso più profondo) di un delicato, ma fermo e fiero animo femminile.
RispondiEliminaUmberto cerio