martedì 21 aprile 2015

N. PARDINI: LETTURA DI "EURIDICE" DI UMBERTO CERIO


Umberto Cerio collaboratore di Lèucade


Siamo di fronte ad uno dei più fecondi monologhi del neoclassicismo moderno di cui Cerio è il rappresentante più solido per parola, intuito, cultura, e messaggio parènetico. Un canto di grande movimento metrico che asseconda i vari stadi di una proficua interiorità. L’Autore vive la classicità, ne è parte, la respira, l’ama e l’ha sempre amata; per cui, questa, torna a galla dopo lunga decantazione; e si sa quanto potere abbia la memoria nel coltivare sogni, ingrandendoli, facendoli nuovi di intenti e motivazioni; facendoli freschi di sentimenti e passioni; sta  qui la differenza fra realtà e immagine; la prima è così come appare: non ha ancora avuto il tempo di fecondare semi; la seconda è ricca di storia; ha vissuto calda nella sua benevola alcova; si è imbevuta di momenti emotivi, di occasioni di vita, di parole non dette, di sguardi fuggiti, di nostalgica saudade, di melanconica gioia, contemplati, però, da un alto podio di equilibrate e annose vicende; ed è così che, qui, ci imbattiamo in soluzioni di novella partitura, di nostos odisseico, di odeporico incantamento umano, verso mete che segnano i confini fra eros e thanatos; fra mistero e realtà; fra realtà e poesia; contrapposizioni che, poi, nella loro simbiotica fusione, non sono altro che barbagli che rendono vivo e intenso il nostro esistere.
       Fanno da prodromico invito alla lettura citazioni letterarie di grande validità contestuale: Pavese, Anacreonte. Cinque le parti di questo profondo e attuale canto. E la bellezza sta tutta nella connessione felice delle sue parti significanti: la  prima, di tradizione classica, ci dice di un’Euridice che può tornare fra i viventi a patto che Orfeo, uscendo dall’Ade, non si giri per guardarla. Lei lo sente, ascolta di nuovo la sua lira incantatrice, ma lui non può fare a meno di voltarsi verso la sua amata:  
(…)
Ma ora sento di nuovo la lira
che in cielo ferma la ruota d’Issione,
di Tantalo la sete, e la fame,
di Sisifo il greve macigno,
 (…)
sei tu, sei tu che vieni a ricondurmi
al Sole, alla luce

 E avanti si fanno figure mitiche che tanto sanno di vicenda umana, che tanto si svincolano, col loro simbolismo, dalla cultura per la cultura. Un mito nuovo che palpita di freschezza, che sa di meditazione, di quella inquietudine spirituale che sempre ha fatto parte dell’uomo in quanto tale: la ruota di Issione; il Sole, il Sole, il Sole, più volte ripetuto; quella luce che parla del nostro azzardo verso la luminosità dei cieli; la sete di Tantalo, il macigno di Sisifo.
       La seconda parte prende spunto dai Dialoghi con Leucò di Pavese: Orfeo si volta per non far morire due volte Euridice; ella sente un freddo profondo, anche se senza corpo; sente il gelo entrare nel cuore e nel sangue ed il respiro che serra ancora una volta al nero veleno.

(…)
Vedi, sono sempre più vana
e leggera e tu più lontano
di un astro del cielo
che mai più mi è dato guardare,
più lontano del Sole e delle stelle
nella tempesta di notti e di luci,
ed il mio cuore di nuovo si spezza,
perché da solo tu vai alla vita.
Più non sento i miei nervi e le ossa.
(…)

Nella terza il riferimento all’Orfeo negro del ’59 offre spunti di grande attualità sociale e civile; un bellissimo e poetico film, pasoliniano per la fusione di mito, povertà e cultura etnica, perfetto nei colori e nei suoni, ancora in grado di suscitare sensazioni fortissime, rintuzzate anche dalle vicende della triste quotidianità. Euridice di certo vorrebbe tornare a vivere l’amore del suo Orfeo ma non son si sente più quella delle Driadi, la semplice Ninfa dei Traci, contenta dei boschi e del Sole:

Oh se ti amo, mio Orfeo!
oh se vorrei vivere ancora con te,
e vorrei, mia anima,
sentire ancora il tuo canto
(…)
Non son io, non son io più l’Euridice
delle Driadi la semplice Ninfa
(…)
No. Non sapevo la vita mortale.
Non sapevo il dolore
e lo scempio dell’anima e del corpo.

       Nella quarta parte l’invenzione poetica di Cerio in cui Euridice, dopo tante esitazioni, decide di non volere morire due volte; è lei che ha chiamato Orfeo e che l’ha costretto a voltarsi. Troppa l’angoscia di una doppia morte; quella di ridiscendere il tortuoso e buio cammino, dove nessuno più parla e sorride; è lei che ha voluto restare nel regno dei morti:

(…)
Ho voluto morire
una volta soltanto,
ma per te morirei mille volte
se Persefone donarci volesse
ancora una notte d’amore
senza annunziarci un vento di morte.

       Nella quinta la piena attualizzazione del mito dove il canto risente più della emotività del Poeta; della sua vis creativa, dacché, proprio in questa parte, sbrigliato da ogni occasione di riferimento, Cerio dà tutto se stesso allo sfogo della sua vicenda intimistico-concettuale; grande poesia; un fiotto di spontaneità che tradisce a pieno il correlativo oggettivo di stampo eliotiano; una forza sempre più potente, in progress, che raggiunge superbe punte di lirismo; è qui tutto il pathos esistenziale, tutta la estensione umana di un verso che respira la caducità dell’uomo in quanto tale: lo scorrere del tempo, la labilità del presente, il memoriale, la coscienza della nostra improrogabile fine, misteriosa e paurosa; ma anche quella di un’umanità che sta toccando il fondo del pozzo con la negazione della sua esistenza. La vita è passata in pochi istanti; resta a Euridice un buio vuoto. Eterno. Sempre più acre; accompagnato dal gelido lamento dei morti; e cosa ci si può aspettare dai viventi; dalle loro città morte, senz’anima, se non che quell'amore che significa vita, ebrietudine, rinascita, speranza:

Intanto che il vento
nidi di passere scuote selvaggio
la speranza non muore:
sono qui che ancora lo aspetto
tra le spine del mio lungo dolore
per il tempo che ancora mi scorre
negli occhi che scolorano tristi.

Un vero capolavoro di rivisitazione culturale dove il sentimento accompagna ogni palpito vitale guidando il nostro Cerio verso spazi senza confini, come l’Arte richiede; guidandolo su una strada sapida di pienezza ontologica, senza sterili espedienti sperimentalistici, con un linguaggio dolcemente affabulante, che mira a portare un messaggio a chi legge, senza ricorrere a rocambolesche figurazioni obese e di intralcio alla fluidità del dire. Perché la Poesia richiede semplicità, quella semplicità complessa che vuole toccare la parte più intima dell’essere umano; che vuol far vibrare le corde del sentire, a che, con essa, si possa volare nel cielo dei grandi miti.

Nazario Pardini 



Orfeo e Euridice


                                         EURIDICE

     Orfeo – Cercavo un passato che Euridice  non sa.  L’ho capito tra i morti mentre cantavo
                         il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare,
                  Persefone nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi
                         come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla.
                                              (C. Pavese, Dialoghi con Leucò, L’inconsolabile)
                                                                   
                            
                                                                                                                    Dell’Ade infatti è orribile
                                                                                                               il baratro, e ad esso è grave
                                                                                                                    la discesa, ed è vero,
                                                                                                                    per chi sia disceso
                                                                                                                    risalire non è possibile.
                                                                                                               (Anacreonte,  fr. 44 Diehl)
                                                                                                                                               
1.
Il mio cuore è dolore
nel grigiore dell’ombre dell’Erebo
e più non vedo il passo di Orfeo
né la sua ombra fuggente.
Non odo canto soave ammansire
fiere selvagge ed uomini feroci,
ma lamenti di “una notte perpetua”
dentro grotte oscurate dal vento.
Com’è triste l’attesa,
sento dolore del morso del serpe
che nero rendeva il mio corpo
e precipite l’anima nel regno
dei morti che lieve giù discendeva.
Ed ora più non c’è giorno né notte.
Qual sortilegio potrà ricondurmi
alla luce ed ai profumi del mondo?
Il suo canto, solo il suo canto
che scuoteva le rocce
e fermava nembi e tempeste
sulle terre e sui mari
e cantava il mio amore ed il suo
con la cetra divina
ai sacri boschi ed al cielo odoroso.
Ma ora sento di nuovo la lira
che in cielo ferma la ruota d’Issione,
di Tantalo la sete, e la fame,
di Sisifo il greve macigno,
e tremano mostri e Dei infernali:
sei tu, sei tu che vieni a ricondurmi
al Sole, alla luce della vita.
La mia ombra è leggera
e volo da te per stringerti ancora,
riportami al Sole,
ti prego più che Proserpina ed Ade,
ti prego non ti voltare a guardarmi,
ti seguo col cuore in tumulto,
non rendere vana questa speranza!
Ma perché morire due volte?
Voglio tornare ombra vana
tra l’ombre degli Inferi perse
senza sentire due volte il dolore.
Se ti chiamo e ti volti
la mia ombra svanisce al tuo sguardo
come al sole sperato la foschia
del palude che questo mondo cinge
e mi abbandono per sempre alla notte.

2.
Vento freddo del Nord soffia nel cuore
di Euridice che non scalda
fuoco d’amore vero,
tra il lamento delle anime morte.
Il dubbio ora mi prende
ch’egli non voglia condurmi con sé.
Ma allora che senso il suo canto,
commuovere Ade e Persefone
sommuovere i morti
dar voce a tempesta di venti
fermare l’impeto dei fiumi
far piangere Strimone
commuovere degli Inferi le ombre?
Se questo ha fatto vuol dire che m’ama
che mio è il suo cuore,
ché di Aristeo lusinga non v’era
perché da lui fuggivo atterrita.
Il dubbio, il mio dubbio più atroce
è che d’improvviso possa voltarsi
e ricacciarmi nel gelo dei morti
e farmi svanire nel bigio fumo
del sovrano innominabile d’ombre.
Non voltarti, ti prego, mio Orfeo.
La mia tristezza è pari soltanto
al timore di perderti adesso
che siamo vicini alla luce,
pari alla solitudine eterna,
al gelo delle nevi che il tuo canto
soltanto scioglie nel tremulo cuore.
Ma posso io morire
due volte in una vita soltanto?
Perché il timore mi prende
che io non voglia morire due volte?
Vorrei vivere ancora
e poi finire nel Tartaro in fondo
se alla luce con te mi conduci
e per amarmi per tutta la vita.
Ma io mi perdo tra il sì ed il no.
Com’ è profondo  il freddo dove torno,
anche se più non ho il corpo
sento il gelo entrarmi ancora nel cuore
e nel sangue ed il respiro serrarmi
ancora una volta al nero veleno.
Ed io più non so dove sia
il labirinto dei miei sogni.
Vedi, sono sempre più vana
e leggera e tu più lontano
di un astro del cielo
che mai più mi è dato guardare,
più lontano del Sole e delle stelle
nella tempesta di notti e di luci,
ed il mio cuore di nuovo si spezza,
perché da solo tu vai alla vita.
Più non sento i miei nervi e le ossa.

3.
Io torno soltanto con l’ombra da te
e ti sono vicina
nella stanza dove abbiamo per poco
vissuto l’amore di sposi.
Tu vuoi annullare lo spazio
che ci divide -crudele ed assurdo-
e mi sposto perché vera non sono:
il mio corpo è sepolto
e sono più vana dell’aria
e della luce ormai frantumata
dal tempo e dal mare in tempesta.
Ed ancora mi sposto
come quando sei venuto nell’Ade
e mi hai dato un dolore più forte
del veleno del serpe.
Più dolce sarebbe stato morire
due volte e sentire il tuo canto
piegare Persefone ed Ade
e vederti per due volte cercarmi
negli Inferi tra le ombre dei morti.
Vedi che sono più vana dell’aria,
più fragile del cielo in frantumi,
del vento che sposta il mio corpo
fatto solo di niente
che vola nel vuoto come quel giorno.
Illusione è la tua di vedermi
nell’alcova tua dolce,
illusione è anche la mia
che tu veda il mio corpo ancor vivo
tentare il tuo desiderio di uomo
che muove ancora il tuo canto divino,
e mi cerchi e ti schivo
come parvenze di corpi sfuggenti,
come le ombre della mia lusinga
e vana l’attesa della speranza.
Non c’è più l’Euridice
per i desideri del suo Orfeo.
E sono ancor più lontana degli astri.
Una vita intera d’amore
non sarebbe bastata
a pagare della morte l’orrore
dopo aver conosciuto
lo strazio ed il supplizio del nulla.
Mi basta morire una volta!
Oh se ti amo, mio Orfeo!
oh se vorrei vivere ancora con te,
e vorrei, mia anima,
sentire ancora il tuo canto
smuovere acque profonde e macigni
e placare le fiere
acquetare forti tempeste e bufere
e disperdere i nembi,
volare nell’aria fino alle stelle!
Cos’è questo mio desiderio
di vagare con te senza più pace,
a cosa mi spinge l’Ananche
che stordisce i miei sensi
se pur fuori dalla vita mortale?
Non son io, non son io più l’Euridice
delle Driadi la semplice Ninfa
dei Traci, contenta dei boschi
e del Sole, ora discesa
per sempre nel regno dei morti.
No. Non sapevo la vita mortale.
Non sapevo il dolore
e lo scempio dell’anima e del corpo.

4.
Vi ho detto infine il vero.
Sono io che Orfeo ho chiamato
e costretto a voltarsi
per tornare tra le ombre dei morti.
Altro che la sua incredulità.
Altro che la sua non volontà.
Risalire tra i vivi?
Troppa l’angoscia: io morire
due volte e ridiscendere ancora
il tortuoso e buio cammino,
riavere una moneta sugli occhi
ai remi sapere il bieco Caronte
attraversare due volte lo Stige
e due volte il triste Cocito:
dove nessuno più parla e sorride,
dove non giunge il tuono né il lampo,
dove il vento non gioca con l’erba
e mai non vola la rosea Eos
radiosa ad aprire le porte
del Cielo sul carro del Sole
a svegliare i mortali
che breve sanno il loro cammino.
Ero già non regno dei morti,
ho voluto restarci.
Ho invocato Orfeo
per perdermi ancora nell’ombra
e rassegnata restare nell’Ade.
Ma tu salvati, Orfeo,
che possiedi lira e cetra divine,
vieni da stirpe di Dei immortali
e non hai l’avverso destino
dell’infelice tua sposa perduta.
L’umana e triste tua morte
-pur se la testa staccata nel fiume
invocherà lungamente Euridice-
riscattata sarà dalla tua fama
di cantore, immortale come un Dio,
oltre il tempo dei tempi a venire.
Il nome di Euridice
vivrà nella memoria di Orfeo:
sono felice di questo destino,
dell’amore donato
ad una semplice Ninfa dei boschi
che già sapeva d’essere mortale.
Addio, Orfeo, per me più non c’è
un luogo né un tempo
da vivere e amare un uomo o un Dio.
Ho voluto morire
una volta soltanto,
ma per te morirei mille volte
se Persefone donarci volesse
ancora una notte d’amore
senza annunziarci un vento di morte.

5.
Ma ora più non ho luce nel cuore
e gli alberi della mia giovinezza
e delle sorelle canto e sorriso,
il suo desiderio,
il suono divino della sua cetra
e non più i silenzi
che mi chiamavano dal tempo
scosceso alle ombre della notte.
Non sapevo il dolore della morte
e d’Ade il mondo grigio
dove non c’è vivo sangue né  corpo
e la saggezza muore
tra i bronconi pungenti di rovi
senza il profumo profondo dei fiori.
In pochi istanti la vita è passata.
Mi resta un buio eterno e vuoto.
Non c’è clessidra a segnare il tempo,
ma solo incessante e sempre più acre
il gelido lamento dei morti.
Non è la luce, ma lampi sinistri
che bruciano i confini del mondo.
E cos’altro aspettarmi
se anche i vivi più cuore non hanno
e se le città sono morte
dentro il buio dell’anima?
Intanto che il vento
sul tetto della mia casa deserta
nidi di passere scuote selvaggio
la speranza non muore:
sono qui che ancora lo aspetto
tra le spine del mio lungo dolore
per il tempo che ancora mi scorre
negli occhi che scolorano tristi.



Umberto Cerio

9 commenti:

  1. Grazie, Nazario, per questa tua superba esegesi, che aggiunge e completa tutti i significati ed i significanti dei miei versi. Come al solito alla poesia aggiungi poesia e nessun particolare ti sfugge, anzi il tuo dire sapiente e limpido scende nel profondo dell'animo dei personaggi (e della poesia e dei poeti) riportando in superficie tutto il magma bruciante con la sua prorompente fertilità. Ti ringrazio di cuore, con grande stima e amicizia incondizionata.

    Umberto Cerio

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  2. Grande poesia; una perlustrazione poematica che si avvale di una fusione fra mito, sentimento, sogno, mistero, amore, vita e morte. Ne esce l'immagine di una donna fresca e attuale, metafora di una filosofia che da sempre tormenta l'uomo.
    Complimenti a Cerio e a Pardini che ne ha tratteggiato le tappe fondamentali.
    Prof. angelo Bozzi

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  3. Grazie, professor Bozzi. Le parole del suo sapido commento a Euridice, precise e puntuali, giunte preziose e gradite, sottolineano con grande perspicacia lo sgomento per un futuro sconosciuto ed incerto dell'umana vicenda. Le sono veramente grato
    Umberto Cerio

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  4. Nella rivisitazione del mito, e nella sua riproposizione sospesa tra l’esigenza della verità (mitologica, appunto) e il desiderio di “riscrivere” in chiave realistica, e a un tempo attuale, la storia di Orfeo ed Euridice, Umberto Cerio non solo nobilita da par suo l’arte della bella poesia, ma compie anche un viaggio rivelatore nella storia dell’uomo, condensando nel simbolismo onirico ed esistenziale di Orfeo ed Euridice non tanto, e non solo, l’evoluzione sentimentale ed esistenziale del genere umano (che Nazario Pardini, nella sua magistrale esegesi, registra come sedimentazione e “decantazione” del mito nel tempo e nella storia), ma anche, a ben vedere, quella “politica” e “sociale” degli uomini e delle donne, viaggiatori stremati dell’umana avventura, naufraghi avviliti e sopraffatti dall’odio e dalla barbarie, dalla violenza e dalla sofferenza, dalle guerre, dalla ferocia, dal sangue:

    “No. Non sapevo la vita mortale.
    Non sapevo il dolore
    e lo scempio dell’anima e del corpo”.

    E’ questa “riscrittura” del mito che rappresenta il punto di svolta, la cosciente e lucida scelta compiuta da Euridice:

    “Vi ho detto infine il vero.
    Sono io che Orfeo ho chiamato
    e costretto a voltarsi
    per tornare tra le ombre dei morti.
    Altro che la sua incredulità.
    Altro che la sua non volontà”.

    Quindi la malinconica confessione per la purezza perduta, per il sogno abbandonato:

    “Non son io, non son io più l’Euridice
    delle Driadi la semplice Ninfa
    dei Traci, contenta dei boschi
    e del Sole, ora discesa
    per sempre nel regno dei morti”.

    E’ in questo passaggio che Euridice si affranca dal mito e diviene il simbolo vivente di un’umanità dolente e disillusa, passata dalla primordiale innocenza e dalla fidente “scommessa” nella vita alla resa definitiva, al disincantato riconoscimento del fallimento e della sconfitta per una scommessa irrimediabilmente perduta. Una condanna inappellabile per il genere umano.
    Cos’altro può infatti significare la rinuncia di Euridice, seppur meditata e sofferta, ad una possibile “resurrezione”, se non la totale sfiducia nell’uomo?:

    “Non è la luce, ma lampi sinistri
    che bruciano i confini del mondo.
    E cos’altro aspettarmi
    se anche i vivi più cuore non hanno
    e se le città sono morte
    dentro il buio dell’anima?”

    Ma in una sequenza che tutto sembra voler condannare, resta l’invocazione di Euridice per Orfeo:

    “Ma tu salvati, Orfeo,
    che possiedi lira e cetra divine,
    vieni da stirpe di Dei immortali”.

    C’è dunque uno spiraglio, una luce, seppure fievole, che induca ad una speranza di redenzione, di fede nell’uomo? Sembrerebbe di sì, se solo riusciamo a “leggere” nell’Orfeo di Umberto Cerio l’unica nostra possibile via di fuga da quello “scempio dell’anima e del corpo” che drammaticamente segna i nostri giorni, il solo viatico di salvezza e di redenzione di cui disponiamo: la voce della bellezza e dell’arte, la voce dei poeti. Sembrerebbe la solita utopistica deriva nel libro dei sogni, un insensato e disperato tentativo di evasione dai mali del tempo che viviamo. Ma la bellezza, l’arte e la poesia (che ci crediamo o no) sono le sole speranze che abbiamo.
    Credo sia questa la chiave di lettura della Euridice di Umberto Cerio, magnifico cantore del mito, voce critica e severa che interpella ineludibilmente le nostre coscienze.

    Umberto Vicaretti

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  5. Questa non è soltanto una lunga e preziosa nota, ricca di elementi aggiuntivi e chiarificatori, ma una vera e propria esegesi, completa e, soprattutto, centrata su momenti essenziali del poemetto. Euridice, nella mia scelta interpretativa, diversa da quelle tradizionali, antiche e moderne, vuole infatti essere, come tu dici con chiarezza disarmante, "simbolo vivente di un'umanità dolente e disillusa, .... disincantato riconoscimento del fallimento e della sconfitta per una scommessa irrimediabilmente perduta". E' questo il punto di rottura del futuro felice dell'umanità. Ti (e ci) chiedi:"C'è uno spiraglio, una luce ::: che induca ad una speranza di redenzione"? Ci può essere, certo, ma -secondo la mia convinzione- dipende soprattutto dall'uomo, dal suo ritorno ad una saggezza significativa e da una sua azione salvifica, per mutare il suo destino, diverso da quello che appare oggi. Euridice, nel mio canto, in fondo, conclude, (ovviamente non rivolgendosi al solo Orfeo) :"Sono qui che ancora lo aspetto / tra le spine del mio lungo dolore". Per tutto questo, caro Umberto, ti ringrazio per questo tuo contributo importante ai fini della comprensione del "messaggio" che ho affidato ad uno squisito animo femminile, ricco di intuizioni e fidenti decisioni.

    Umberto Cerio

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  6. Mi fa molto piacere che il poemetto di Umberto Cerio sia stato così favorevolmente commentato da penne capaci e brillanti. Pardini, Bozzi e Vicaretti ne hanno acutamente individuato il valore e la portata, la verità e la bellezza. Quanto a me mi limito a riportare la brave valutazione che ne diedi all'autore il quale, da buon amico, me lo aveva inviato in anteprima. " La prima impressione è di un poemetto molto ben riuscito, diciamo una bella riedizione del mito: adeguata la tensione lirica, autenticamente rivissuta l'atmosfera della storia raccontata, convenientemente distribuito il materiale diegetico, inusuale (e perciò stimolante) la soluzione della vicenda scelta da Euridice. Il tutto composto in classica bellezza. A me pare proprio un lavoro di notevole dignità letteraria."
    Aggiungo che il vero punto di forza di quest'opera è l'armonia che governa le singole parti e il tutto. Nulla è fuori posto, ogni spazio è sapientemente occupato dai suoi contenuti narrativi e poetici. Domina un senso di severa misura, garanzia di seria e solida poesia.
    Pasquale Balestriere.

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  7. Non è un caso che il poemetto lo avessi inviato in anteprima a Pasquale Balestriere, per conoscerne il parere: il suo dire essenziale e preciso, il suo acume critico, la sua lealtà che lo connota, le sue qualità di limpido e sapiente ermeneuta, la sua ampia e sicura cultura classica erano garanzia che l'Euridice, da poco da me portata a termine, potesse avere (per fugare qualche mio dubbio) dignità di essere pubblicata. Fra l'altro su quello che io ritengo, in assoluto, uno dei migliori blog che propongono, in Italia, arte, poesia e critica. Il suo giudizio resta, pertanto, garanzia di certezza, per la mia modesta opera. Desidero perciò ringraziarlo pubblicamente dopo averlo fatto a voce, con il telefono. Grazie, Pasquale, per aver espresso il tuo autorevole parere.
    Umberto Cerio

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  8. L'assoluta modernità del canto antico di Cerio sta tutto nel senso della "caducità dell'uomo", come acutamente osserva Nazario Pardini. Sta in questa coscienza tragica di "una notte perpetua" che fa seguito all'illusione del "canto soave" di Orfeo, desideroso di quei voli celestiali che condussero anche Icaro a sfracellarsi sul suolo. Sta dunque nel senso del tragico che Umberto ritrova la radice classicheggiante della modernità, o viceversa il frutto tutto moderno della classicità. L'Orfismo racchiude in effetti, ed anticipa, l'intero percorso metafisico-nichilistico della cultura occidentale, superabile a mio avviso solo recuperando il più arcaico substrato misterico della grecità, legato ai temi del sacrificio e della lotta, rappresentati da Omero. Se la Vita è Illusione, ha ragioni da vendere Euridice a non voler tornare tra i vivi, per cui - dice Cerio con intuizione geniale - è lei a chiamare Orfeo per farlo voltare, costringendolo a guardare in faccia la triste realtà.
    Franco Campegiani

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  9. Non mi sento come "i decadenti"che assistevano inermi alla caduta dei valori, di una società al tramonto. Ma certo è la decadenza che produce "la coscienza tragica" di "una notte perpetua". Certo:al canto infinito di Orfeo l'uomo non ha fatto seguire che che il drammatico e il tragico, la caduta dei valori morali civile ed etici. All'invito dell'orfismo l'uomo ha fatto seguire, nella sostanza, eccetto brevi eccezioni, "il percorso metafisico-nichilistico della cultura occidentale", come tu dici, con la perdita delle certezze, delle speranze, del sogno. Ed Euridice diventa il simbolo della disillusione e della protesta, la coscienza negativa della fine ineluttabile con scarse speranze ed attese all'orizzonte. M anche un fulgido esempio di lucida ribellione ad una logica "accomodante". Grazie, Franco, di avere offerto questa nota che ha arricchito anche il dibattito sul poemetto, che ho proposto col monologo (che -sono d'accordo con te- Nazario Pardini ha colto nel suo senso più profondo) di un delicato, ma fermo e fiero animo femminile.
    Umberto cerio

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