mi hanno tradotto un racconto in russo e lo hanno fatto bene
penso che poi tutto sta nel godersi la cosa, che scritto in russo
conta,
meglio che se scritto in italiano o anche se fosse scritto in
cinese,
che se lo mostri o lo fai leggere potrebbero arrestarti per quel
che dici;
mi hanno tradotto un racconto in russo e io ne sono davvero
felice,
che non sia finito in vetrina o in sconto speciale sulla bacheca
di ibs,
se lo avessi scritto per non esser tradotto in russo, non lo avrei
scritto,
voglio uccidere o farmi uccidere per un racconto, non lo voglio in
italiano,
e in russo almeno una conseguenza ci sta, invece così no, non lo
voglio morto
nessuno che vinca ai concorsi letterari e mai nessuna poesia nel
cassetto
che marcire si può fare in due modi diversi o in vetrina o in
cassaforte;
voglio una parola pesante come un macigno che schiacci me e tutti
gli altri,
che non sia merce in vendita o merda nel tuo cassetto, ecco perché
penso
che un racconto tradotto in russo possa far più paura, mi possa
far paura,
poi almeno spero che un regista non liberi troppo la trama da
trattare male,
ma che la lasci potenziare solo per la galera e mai più in
televisione,
basta, niente più libri in promozione o sotto controllo o in discussione
ci saranno solo parole piene e pesanti, scritte con la paura di
morire,
questa è l’importanza che io gli darei, questa è l’importanza che
vorrei.
mi rendo conto che tutti vogliono fare lo scrittore da grandi e da
piccoli,
molto piccoli cresciuti a pane e Chinaski o a Jack London e J.
Daniel
con l’idea dei mitici scrittori old ’70, alcolizzati e così tanto
speciali,
solo che poi mi sembra che più che scrittore, uno che già scrive,
ma che non ci si sente, allora vuole fare lo scrittore famoso,
fare l’isola dei famosi o masterchef, mi rendo conto che tutti lo
vogliono,
far vedere le chiappe in tivù o fare l’opinionista al suon di che bravo!
essere adulati, guadagnare soldi e scrivere proprio quel che gli
pare,
sarebbe bello, bello davvero, ma chissà se per qualcuno scrivere
sul serio,
è casomai come andare in ufficio, se per quelli che a voler
scrivere
si fa solo su commissione, e ci devi campare, come era per
Michelangelo,
che al papa gli diceva “sarà finita, quando sarà finita”, non
poteva altro,
era il suo capo; mi rendo conto che tutti vogliono essere
scrittori,
avere quella marcia in più, avere un superpotere che c’è bisogno
di eroi
dicono, ad esempio non cagare gli esordienti, dire di essere come
te,
fare cose banali e ottenere tanti che bravo! o di essere clementi
con chi non pubblica; mi rendo conto che tutti vorrebbero farlo,
ma non bisogna aver fretta, se per ognuno si compirà il proprio
destino,
mi sembra che lo dicano tutti gli scrittori famosi, e se lo dicono
loro…
che sia questo o un altro, chi lo sa? ma se poi è un altro non fa
nulla,
vuol dire che scriveremo per un amico, e che per tutto il tempo
tratteremo gli altri come ci è possibile, ma senza far troppo i
fighi,
che ci sentiremo esordienti tra gli esordienti, che scriveremo
ancora
perché ci piace, ammesso che lo vogliamo ancora, insomma queste
cose qui.
le cose stanno così, che io non sono mai riuscita a scrivere un
qualcosa
senza prima parlarne con qualcuno, ammetto che se non faccio così
poi non mi riesce bene di scrivere, anche se qualche volta l’ho
fatto,
e infatti non mi sono divertita, quel che ho scritto non mi è
tanto piaciuto,
e neppure agli altri, ora che ci penso, erano scritti bassi,
piani, solitari,
una geografia senza forma, a me invece piacciono le coste alte e
frastagliate,
che poi mi hanno detto che non esiste un pubblico vero, e ormai da
molto tempo,
siamo tutti isole in mezzo al mare con coste senza forma, lisce e
basse,
e penso, io non so neppure se c’è mai stato, un pubblico tutto
uguale,
o che le cose che gli leggevano e gli inscenavano le capissero
tutti allo stesso modo;
ora invece succede che tutti la capiscono a modo loro, o che tutti
se ne fregano,
così mi hanno confermato, e io ci credo per un po’ ma dopo neanche
tanto,
che siccome io non riesco a scrivere senza prima parlarne con
qualcuno,
ne basterebbe uno, poi figuriamoci se fossero cinque, dieci o
anche ventisei,
penso che allora un motivo ci sarà, non so, non lo pensi anche tu?
insomma un tizio che legge in pubblico è come se andasse dallo
psicologo,
almeno dopo aver pagato in immagine alla fine si sente un po’
meglio,
certo non si risolve poi molto, anche solo ascoltare può essere
d’aiuto
ma io preferisco chi ti risponde anche, che mi viene da scrivere
qualcosa,
è più divertente, ma poi possibile che allo psicologo non gli
cambia mai niente?
scrivine una e poi chiediti se un’idea si combatte con un’altra
idea
come diceva quel film che non mi ricordo mai il titolo
scrivi una poesia che è meglio di ogni trattato anche se devi
proprio farlo,
se ti sei messo in testa che un articolo vale più di una nuova
estetica
che l’estetica, sai, si combatte con un’altra estetica, mi dicono
dai, scrivi una poesia che almeno quella non ti tradisce mai
e se quando non ti capiranno e ti chiederanno, ma come, ma perché?
tu scrivine un’altra che non ha importanza la sua gravidanza
scrivila come un seme, che si possa piantarla lì senza nessuno a
interpretarla,
scrivi una poesia che sia quel che sia e non quel che si vorrebbe
lascia stare la critica che a criticarla ci penseranno gli altri,
lo sai,
che nasca di un parto naturale che la gestazione dicono non conta,
e poi la poesia si combatte con un’altra poesia, mi dicono,
come diceva quel film che non mi ricordo mai il titolo, ma
che insomma, può sembrare strano, ma alla fine ci siamo capiti.
Ambra Simeone
Le quasi-«poesie» di Ambra Simeone sono una novità importante nell’orizzonte dei nuovi sperimentalismi. Per un motivo, sopratutto: escono, sulla scia della fantomatica categorizzazione enciclopedica de L'idioma analitico di John Wilkins di Jorge Francisco Isidore Luis Borges Acevedo, da ogni categorizzazione e rompono ogni schema di classificazione/distinzione tra «poesia» e «prosa», attentando al ruolo, oramai insostenibile, della sublime «forma-poesia». L’anacronistico concetto di «forma-poesia», basato sulla netta distinzione tra «poesia» e «prosa», cade, e con esso cade ogni tentativo di attribuzione della missione sacerdotale di decidere cosa sia «poesia» e cosa sia «prosa», di stabilire dove e come «andare a capo» sia un indice di «poesia» o un sintomo di «prosa». Le quasi-«poesie» di Ambra Simeone ci fanno riflettere sul tema, decisivo, della classificazione delle arti e della critica e, in senso esteso, sulla illegittimità teoretica di dimenticare (dolosamente) come ogni forma di categorizzazione, di classificazione, di distinzione, o di definizione abbia valore unicamente convenzionale ed arbitrario.
RispondiEliminaCome sempre la tua analisi Ivan è la più puntuale e scientifica, anche se sei avvantaggiato, perché conosci come la penso :-P
Eliminae sai anche che non finirò mai di ringraziarti per il tuo sostegno artistico!
Insistiamo da anni, noi di UT, sulla necessità di contaminare (spesso, non sempre, non quando lo dice il dottore) le due forme di comunicazione narrata: da una parte la poesia, dall'altra la prosa. Ambra è stata accolta nella nostra famiglie perché portatrice di quella forma, piacevolmente indefinita, di scrittura che amiamo da sempre definire "prosa poetica". E ci piace insistere su un concetto già espresso da Ivan: "andare a capo non significa scrivere poesia". Tutti ne sarebbero capaci e non investendo un cent in emozioni. Diciamo che possiamo scrivere come vogliamo ma, per favore, emozioniamoci, altrimenti è attrezzatura vecchia. Lasciamo le letture chirurgiche a Nanni Moretti, perché anche per quelle occorre professionalità e... maestria nel dichiararle preventivamente. Brava Ambra.
RispondiEliminaCaro Massimo,
Eliminagrazie per il tuo commento, hai ragione, infatti non penso mai alle contaminazioni o alle tecniche di scrittura poetica (o se lo faccio è inconsapevolmente) quando scrivo lo faccio pensando a quel che voglio trasmettere. La poesia è comunicazione anche in un mondo in cui l'incomunicabilità la fa da padrone. Molti hanno dimenticato questo primario obbiettivo!
UT è più che una rivista è un luogo di democrazia culturale in cui chiunque può proporre temi, sperimentazioni ed esperienze!
Le "quasi poesie" di Ambra sono ricche di spunti di riflessione...Complimenti
RispondiEliminaCaro Mariano,
Eliminagrazie io ci provo, perché è proprio quello il mio obbiettivo! :-)
Chiamarle Quasi poesie è un atto di falsa modestia. Per me sono bellissime poesie quelle di Ambra, che coniugano stile semplice, colloquiale, e sperimentalismo. Ha trovato un suo stile, e presto troverà anche degli imitatori. Un saluto.
RispondiEliminaCaro Gabriele,
Eliminagrazie del tuo commento, il "quasi" è riferito alla forma che oggettivamente e volutamente si mantiene in equilibrio sul filo del rasoio :-)
Le "quasi poesie" di Ambra Simeone non vogliono esserlo poesie, partono in prosa ma una prosa fitta e veloce quasi senza respiro, sempre più veloce che alla fine non le senti più leggere le parole, ma le senti pesanti, e tutte quelle voci della gente, modi di dire e luoghi comuni che vorticano sempre più veloci, alla fine è come se scomparissero, si annullassero: davanti a te ci sono solo parole pesanti come macigni, invisibili.
RispondiEliminaCaro Claudio,
Eliminale tue osservazioni sono sempre fonte di crescita e motivo per incrementare la mia bassa autostima ;-) Grazie per le tue parole che sono poetiche sempre anche quando usate per un semplice commento!
Mi permetto di pubblicare (con il suo consenso) il commento di Leopoldo Attolico:
RispondiElimina"La modalità felicemente anarchica di Ambra Simeone fa vedere i sorci verdi alla scrittura "istituzionale" , quella delle buone maniere estetizzanti , rassicuranti , passatiste con solfeggio ecc. . E' la voce della sua cattiva coscienza . Ma i sorci verdi diventano multicolori nel lettore smaliziato e disinibito in grado di apprezzare la natura "fisiologica"di un lavoro che non è spontaneismo creativo ma maniera di stare al mondo : scrittura e vita , come è giusto che sia ; quindi non parole in libertà , ma parole e libertà , sacrosanta."
Mi permetto di pubblicare (con il suo consenso) un commento di Paolo Statuti:
RispondiEliminaPoesie insolite ma poesie, senza il quasi, ma con un extra di originalità e impegno. Mi piacciono soprattutto per la loro chiarezza. Mi manca solo un pizzico di pathos, ma non so se oggi è ancora di moda…:)
Quella di "prosa poetica" è la definizione che più mi piace, anche se la chiamerei "Prosa Poetica", in quanto il fervore con cui sferza questi quasi versi sono ben degni di almeno due maiuscole.. la prima e l'ultima sono le due che mi incantano.. per ciò che dice e come viene detto, per il ritmo ed i suoni.. Mi spiace solo di essere un periodo in cui sono sciapo di parole, perchè questi versi ne meriterebbero un sacco in più
RispondiEliminaLe poesie di Ambra Simeone sono insolite ma, non per questo, "quasi" poesie. Per il semplicissimo motivo che la poesia o c'è o non c'è. Qui (ma ho letto anche altro di lei in precedenza) sicuramente c'è.
RispondiEliminaQuello che, invece, mi stupisce e mi lascia perplesso è la vuota disquisizione che si apre, nei commenti, circa la distinzione fra prosa e poesia. Ma andiamo, che la si voglia chiamare prosa poetica o poesia prosastica non sposta di una virgola le cose. Concordo, ad esempio, con Pozzoni che "ogni forma di categorizzazione, di classificazione, di distinzione, o di definizione (ha) valore unicamente convenzionale ed arbitrario" ma occorrerebbe essere coerenti, perché arbitrari possono essere anche gli sperimentalismi.
Anziché morderci la coda, allora, perché non mettiamo più impegno nell'ascolto della parola e - senza inorridire - nella considerazione anche della forma, mai fine a se stessa se di poesia autentica si tratta?
Io credo che questo desideri la stessa Simeone: comunicare in libertà. E chi è davvero libero lo è sempre, fuori e dentro gli schemi.
Sandro Angelucci
"Possiamo scrivere come vogliamo, ma, per favore, emozioniamoci", scrive Massimo Consorti,m ed è un pensiero che condivido ampiamente. I testi di Ambra Simeone mi comunicano un senso di smarrimento e di precarietà, una confusione intima, uno stordimento, un desiderio di verità irrealizzato e tradito, che sento anche miei, e sono queste emozioni a farmi riconoscere il segno della poesia. Le discussioni ideologiche sulla forma che dovrebbe avere o non avere la poesia non mi interessano, non perché la poesia possa eludere il problema formale, ma perché il carro non dovrebbe essere posto prima dei buoi. La poesia non è priva di regole, ma le regole non vengono prima della poesia. E' essa a fare le regole, le sue proprie regole, e non è vero il contrario. Lasciamo che sia il fuoco interiore del poeta o dell'artista a scegliere la propria via, la propria forma espressiva: quel fuoco che non dovrebbe mai spegnersi e che un tempo veniva definito "la Musa".
RispondiEliminaFranco Campegiani
Concordo con quanto detto da Angelucci e Campegiani. Il problema della forma in Italia negli ultimi decenni (forse dalle neo-avanguardie in poi), ha saturato fin troppo i discorsi attorno alla poesia. Il punto non è la forma poetica in quanto tale, ente astratto di sperimentazione senza sosta, ma la forma in quanto collante per esprimere un contenuto. Un buon messaggio è un giusto compromesso tra forma e contenuto, non si può pensare all'una senza l'altro. Uno pensa sempre di aver scelto una forma poetica tramite la quale veicolare un contenuto, ma in realtà è il pensiero che lo fa per noi, nel momento in cui vogliamo comunicare un qualcosa e di solito ciò avviene in modo molto naturale. Campegiani dice bene la forma-poesia nella quale mi esprimo è a sostegno di contenuti legati alla confusione di pensiero ideologico e psicologico che tutti noi affrontiamo ogni giorno, per questo i versi sono lunghi e sembrano sintatticamente scollegati, perché esprimono disagio, smarrimento (anche linguistico) e precarietà. Proviamo ad ascoltare per strada una persona qualsiasi che parla, non lo farà come Leopardi o Montale, il senso di realtà mi ha sempre affascinato. Riguardo al discorso tra prosa e poesia, posso dire che io scrivo anche in prosa, ma decisamente quando voglio scrivere un racconto scrivo un racconto, e questo non ha nulla a che vedere con la poesia; però durante la mia ricerca poetica e linguistica mi sono chiesta più di una volta perché da un romanzo o da un racconto il lettore cerchi sempre una morale, un fine e uno spunto di riflessione, mentre per una poesia si debba accontentare solo di una parola ricercata, di un suono melodico o di immagini buttate lì a caso come pennellate in un quadro astratto.
RispondiEliminaCon gran rispetto dell'attività certo fitta ed ammirevole della signora Ambra Simeone, la quale immagino altri riconoscimenti più dei miei autorevoli abbia golosamente in meglio aurati cenacoli riscosso, ma per maggior rispetto all'onestà che ogni autore deve a sé stesso prima che ai potenziali lettori, se sine ira et studio m'è concesso svolgere il mio onesto parere, dirò che il "quasi poesie" non solo è azzeccatissimo, ma anzi è di gran lunga ridondantemente auto-lusinghiero per dei testi di prosa la più pedestre che nessun menomo barlume di poesia posseggono. Non solo non vi ravviso la commistione prosa-poesia tanto basentemente sopra con effluvio di strana lode argomentata, ma né tampoco gli spunti di riflessione parimenti snocciolati con sapientissima verbosità, sendo nel contenuto niente di particolarmente innovativo né profondo, e anzi con una pretestuosità sufficiente a far storcere finanche i nasi meglio avvezzi all'ovvietà infiocchettata ad arte e venduta tanto al chilo col panegirico strillonismo di propria decantata capacità; lo stesso dicasi della forma, asfissiata in un flusso di coscienza ormai tanto logoro da allignare ormai anche i libretti più di dozzina, e riscontrare novità nel quale è criminale quanto un genocidio.
RispondiEliminaI quattro informi ineleganti ignavi ferraginosi gratuiti insignificativi rappezzamenti di parole inconsulte gloriosissimamente si collocano tra i massimi exempla del perché la poesia italiana stìasi bellamente recando in malate fogne in questi ultimi tempi, preceduta da una pennivendola fanfara di prezzolate ruffianerie.
Sinceriter, Vincenzo Mustico.
Carissimo Vincenzo Mustico,
RispondiEliminala ringrazio del suo commento, così simpatico, come uscito da una commedia del '700 (con tanto di parolieri e buffoni di corte) che tanto mi ha fanno sorridere. Non è detto che la mia poesia debba piacere a tutti, se a lei non piace o non la ritiene interessante non me ne rammarico, la ringrazio però dell'elevata verbosità con la quale infiocchetta (lei si) i suoi commenti e che sicuramente piacerà a chiunque, facendo sorridere come è successo a me, anche i meno avvezzi :-)
Bellissimo il commento di Vincenzo Mustico che, stranamente, non appare né tra i molteplici addetti ai lavori di mia conoscenza, né tra i molteplici scrittori in versi di mia conoscenza, né tra i molteplici critici di mia conoscenza. Ammetto la mia ignoranza: Vincenzo Mustico mi incuriosisce: o è il solito fake (che finge nome e cognome) o è un essere umano che vive nel barocco del '600. Sarei curioso di farne diretta conoscenza, come antropologo e sociologo dell'arte. Sinceriter Ivan Pozzoni
RispondiEliminaAutorizzata dall'autrice, posto questo commento di Stefania Di Lino che sulla lettura delle mie quasi-poesie si è lasciata ispirare scrivendo questo testo molto bello:
RispondiElimina"io invece da piccola non pensavo per niente a fare la scrittrice. leggevo, questo sì, e traducevo già in grafici stilemi persone animali cose paesaggi che incontravo e a vario titolo, mi colpivano, fosse solo la luce, a una certa ora, che tagliava come lama la montagna, restituendo ad essa la legittima ombra sottratta, fu quando pensai allo spessore delle cose e al loro ingombro nello spazio - una prefigurazione precorritrice dei tempi e del cinema in 3D quando neanche si sapeva, e funzionò anche con il letale peso specifico di parentele vicine e lontane, che ancora oggi non so in quale cassetto sportello mobile infilare ponderare. Nell’incertezza meglio buttare. Oppure le sagome cartoons che una volta e mai più, improvvisamente, apparirono sul muro della mia stanza - erano i nani, non so se esattamente sette, non li contai e poi , essendo solo sagome, neanche li distinguevo l’uno dall’ altro, - allegramente loro andavano a lavorar, e i sette nani, per antonomasia, sono fuori rischio di licenziamento, lavorano for ever, che è già destino infame a pensarci - ma fu la volta del delirio da febbre alta del morbillo - allora si usava far passare il morbillo ai bambini, si cresceva più forti o si crepava, a seconda, che è sempre meglio che rimanere scemi a causa del vaccino – e mi stimolò visioni di delirio e fu piuttosto divertente anche perché li vedevo solo io i sette nani, e mia madre che era lì mi diceva ma dove? io non vedo niente; e poi anche gli autobus mediamente affollati da George Segal, con figure candide congelate su cui ri-scrivere la storia, che la storia tutta è solo pura invenzione, e a quel punto, il più era fatto, sarebbe stato piuttosto facile, mi stimolarono, ma non compresi nell'immediato di trovarmi di fronte ad un cambiamento epocale della cosiddetta scultura d'ambiente. pensavo solo che il primo scoglio da superare potesse essere quello di convincere la compagnia dei pullman, a regalarmi un bus."