Anna Magnavacca: Di stanze e voci (poesie
ritrovate 1959-2014). Edizioni Helicon. Arezzo. 2015. Pg. 128
Tanta spontaneità, tanta semplicità, tanta effusione di amorosi sensi, in
queste composizioni che riguardano rimembranze e non solo degli anni passati della
nostra scrittrice. E per un critico che ha seguito i diversi momenti del suo
percorso stilistico, viene da sé fare un raffronto. La conclusione è che in
questa silloge sono già presenti, in nuce, tutti quegli stilemi emozionali, contemplativi, e fonici che
caratterizzeranno, in maniera più evoluta, il panorama contenutistico-formale
di Anna Magnavacca. E credo opportuno rifarmi a due citazioni, in particolare,
per dare sostanza alla mia lettura:
Anassimandro: “..Principio
di tutte le cose è l’àpeiron (infinito,
illimitato, indeterminato) che comprende in sé tutte le cose e a tutte
le cose è guida. Immortale e imperituro. Da dove infatti gli esseri hanno
l’origine lì hanno anche la distruzione secondo necessità…”.
Socrate: “..Conoscere è
ricordare..”.
Perché
queste due citazioni. È presto detto: lì è la poesia di Anna. Da queste
sorgenti zampilla. Da questi rivoli parte per confluire nel grande fiume
dell’anima, della vita, dell’esistere. E cosa è questa misteriosa e quanto mai antica
arte se non che memoria? e che cosa se non che volo, aspirazione, azzardo
fonico-verbale verso azzurri che dilatino all’infinito la nostra
immaginazione? E tutto prende forma da
una realtà contingente, quotidiana, minima che ci dà la consapevolezza delle
nostre miserie; delle nostre ristrettezze; dei quadri, anche, che luccicano
nella loro pienezza simbolico-rappresentativa: Burrasca, Il tempo, Attesa,
Alba, Nella strada, Alle acacie…:
(…)
Tutto è fragile come voi.
Soprattutto l’effimera
felicità dei viventi,
dicendoci
di quanto grande sia l’amore, e di
quanto sia appesantito il nostro animo dalla sua presenza che aumenta a mano
che le lontananze del luogo e del tempo ci separano dalla fonte. È da quelle
che partiamo, è da quelle che sentiamo il bisogno di elevarci ai disegni imperscrutabili
che tengono volti, suoni, e immagini sfuggitici e che tentiamo con forza di ricuperarli
al nostro esistere. Volti di padri, di madri, di amici; suoni di voci uscite da
antiche primavere, di suoni ascoltati in decadenti autunni che tornano con
evocazioni assordanti per dirci che esistono; e che hanno covato nella nostra
anima per tempi immemorabili. Eccolo l’àpeiron verso cui cerchiamo di volare.
L’apertura che contrasta con ogni forma di chiusura; quel mare senza limiti che tanto sa
d’infinito; o quel cielo sfacciatamente azzurro con cui ci misuriamo a rischio
di perdere la nostra identità. D’altronde è il cruccio di noi esseri umani
quello di esistere come piccole larve con occhi che guardano lontano. Qui è
l’ossimorico travaglio della nostra
terrenità; della miopia della nostra vista nei confronti del tutto. E allora ci
aggrappiamo alla memoria, al repêchage di fatti e parole per sottrarli alle
fagocitazioni del tempo; forse così, col tenere in vita amori plurali, totali,
ci illudiamo di vincere quella clessidra che ci misura; di perpetrare oltre,
tutto ciò che è relegato al consumo dei giorni:
Una valigia di ricordi – fiori
lontani –
ma i ricordi pesano e la
valigia
diventa pesante, troppo
pesante
nel breve spazio di una vita.
Dimenticherò la valigia
i miei girasoli no.
Non può il ricordo spegnere
quella luce che incanta la
vita
(Nuda s’alza la vigna).
Rientra
nelle corde di Anna rivolgersi alla natura a che concretizzi in vece sua le
forti vibrazioni vicissitudinali. È a essa che affida questo compito di intima
metaforicità; una vera fusione metamorfica fra gli elementi figurativi e gli
intenti emotivi della Nostra:
(…)
La sera non vedo stelle fiorite
ma soltanto un cielo freddo e
lontano.
Qualche volta mi tiene
compagnia
un misterioso fiore
che si sfoglia lentamente.
Franati i giorni di girasoli e
papaveri… (Si parlava…).
Solitudine,
malinconia, sentimento di dolce saudade
che scorre nel substrato della stesura
poematica; ed ogni elemento concorre ad uno scopo: a ritrarre, a mettere sulla
carta un’anima con tutti i suoi travagli esistenziali. Un realismo lirico di
efficace resa melodico-ontologica. Punte di vis creativa che oggettivano con
sperdimenti emotivi il fatto di esistere; e in cui è facile per ognuno di noi
ritrovarsi.
Sì,
riconoscersi in questo diario polimorfico; in questi appunti di vita che tanto
dicono, con la loro spontaneità e il loro caldo disordine, di questa vicenda
irripetibile; della scia che lascia ogni giorno a noi poveri mortali spersi fra
cielo e terra:
(…)
Sempre al solito anche la mia
casa.
Libri ovunque e montagne di parole
un po’ azzurre e un po’ nere.
In fondo-nel mio profondo- amo
questo
disordine di cose di spazi di
parole
e l’ombra invecchiata di un
violino
che sale… sale e s’impiglia
con il cielo.
Tutto mi parla della vita
(Forse è vero…).
Nazario Pardini
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