Franco Campegiani collaboratore di Lèucade |
Ecco una poesia
d'impegno civile dove denuncia e indignazione non hanno impalcature ideologiche, ma seguono impulsi squisitamente
etici. Mi chiederete dov'è che i due aggettivi si differenziano. Rispondo
che l'ideologia è dottrinaria e schematica, mentre l'etica discende da principi
universali e non è costruita dogmaticamente dall'intelletto. Neoplasie civili di Lorenzo Spurio
(Agemina Edizioni, 2014, con prefazione di Ninnj Di Stefano Busà) è poesia totalmente
calata nella realtà urbana e cosmopolita dei tempi attuali, nelle inquietudini generate
dall'imbarbarimento culturale, dalla robotizzazione, dall'omologazione, dalla
globalizzazione, dal consumismo, dalla corruttela ed in breve dal materialismo
imperante.
Verso tale
disumanità la poesia di Lorenzo non reagisce con sterili proclami ideologici,
come spesso accade o è accaduto in passato, ma con una pura e semplice
evocazione/rivendicazione di valori universali ed umani. Di fronte al degrado urbano, alle arie irrespirabili
e grevi di un paesaggio massacrato dal cemento e dall'eternit, nel poeta si
genera (come nel suo fruitore) un disagio, un'insoddisfazione, uno smarrimento,
una crisi profonda; ma è in questo livido paesaggio (dove si annida il Male
assoluto e radicale, e parliamo del Male satanico umano) che Lorenzo riesce miracolosamente
ad innestare un balenamento di memorie incontaminate, fatte di viscerale e
filiale amore per la Terra Madre. Ascoltiamolo:
"Quando nel
mondo si spara, / Gea si occulta la vista / e corre ad occhi serrati / verso
rovi e sterpi acuminati / per accecarsi. // Le lacrime di un popolo / scivolano
copiose, per un momento; / quelle di una madre / non trovano fine". L'uomo
si è voluto creare un universo alternativo a quello che gli è stato dato in
dono, ponendosi boriosamente in antitesi con le leggi naturali e cosmiche. Ed
ecco la condanna: "Ora di domande / puoi farne a bizzeffe / di risposte,
invece, / non ne troverai nessuna. /... / Ed ora in carcere stai /... /
condanni la natura / e i suoi principi / per averti fatto padre". Un'indignazione
non ideologica, come già detto, ma di orizzonti e sapori universali.
Fa da sfondo un internazionalismo
di arie anglosassoni a questa poetica di lontane ascendenze dadaiste e pop dove i rovinosi naufragi della Beat Generation echeggiano con fragori disastrosi.
Eventi e personaggi della vita pubblica mondiale (da Giorgio Napolitano a Hugo
Chavez, da Lady Diana a Papa Francesco; e poi Piazza Tahrir, Piazza Maidan,
eccetera) sono sottratti alla cronaca per diventare emblemi di una poesia del
disincanto, dove gli ideali etico-politici di una tradita democrazia, calpestati
dal parassitismo di un miope e dispotico strapotere, vengono riaffermati al di
là di ogni ideologismo, con "espressioni di una rivelazione che sgorga dal
cuore" (così la Busà in prefazione).
E giustamente Cinzia
Demi, in postfazione, sostiene che l'autore descrive la storia pubblica dei nostri
tempi a partire da un osservatorio per così dire privato; da un'angolazione
squisitamente personale, come è giusto che sia per chi è consapevole che i
problemi morali riguardano l'individuo, o gli individui, ancor prima di
diventare sociali. Ed è così che Spurio, alfiere di diritti civili inalienabili,
può schierarsi al fianco dello scrittore francese Dominique Venner, suicidatosi
nella cattedrale parigina di Nồtre-Dame come forma di protesta nei confronti della legge
che liberalizza i matrimoni gay, approvata dalla presidenza Hollande.
I suoi versi tuonano
così: "In cattedrale / si suicida uno scrittore / per sdegnare il tormento
/ di gravose e disoneste leggi / contro natura, che spaccano / la Sacra
Famiglia / e demoralizzano il tragicomico / della vita d'oggi / passando per la
farsa / e riducendo tutto in burletta" (chi volesse vedere tracce di
omofobia in questi versi farebbe bene a rileggersi le eloquenti pagine pasoliniane
nei confronti del movimento gay). Una società allo sbando, omologata e
irrispettosa di ciò che è "diverso", è quella che il poeta descrive.
"Un mondo fatto di lassismo, ingiustizia, sopraffazione", scrive la
Busà in prefazione. Un'umanità fuori di testa, disorientata: "Un vecchio
fumava / stanco dell'oppio / e mugugnava frasi d'odio. // I bambini giocavano
addolorati / fra le pozzanghere nere / senza fine".
Tuttavia non c'è
moralismo, non c'è indice puntato in questa visione del mondo, dove il poeta in
prima persona dichiara la propria confusione, il proprio disagio, la propria
necessità di comprensione: "Non sapevo cosa fare / in quel caos
ingovernabile"; "Me ne andavo solo / riflettendo beota / mentre
incespicavo / ai bordi di un marciapiede / spaccato"; "L'orologio
indispettito / batteva le ore / al contrario / ed era sempre presto". /
Impossibile darsi appuntamento". Un mondo dove tutto è frantumato,
smembrato, disperso: "tutto è quello che è / e niente è parte del
tutto". E nondimeno, in tanta dispersione, il poeta dichiara: "Ho
creduto agli specchi rotti / indagando prospettive multiple prive di serietà /
ma ora ricerco una via unica".
Torno pertanto a
ripetere che ci troviamo in presenza di un percorso interiore e non di un
proclama ideologico: "Nel caos roboante / di giornate squallide e
ripetitive / mi son estraniato da tutto e / qualcosa è successo". I problemi
civili sono problemi morali, e questi non possono che essere di natura intima. La
società può migliorare solo se migliorano gli individui che la compongono. Ed è
un ravvedimento che inevitabilmente riconduce nelle armonie del creato e del
cosmo: "Ho visto un bambino / con strani lividi al volto / e ho compreso perché
il mare / fosse purpureo". E infine: "M'inginocchiai e baciai la
terra / chiedendole scusa; / impastai terriccio a saliva / e nel mentre
dall'alto / una pioggia acuminata /m'infilzò dappertutto / e mi rigenerò".
Franco Campegiani
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