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lunedì 22 gennaio 2018

VANNA CORVESE SU "NON VEDO, NON SENTO E..." DI ESTER CECERE




Non vedo, non sento e di Ester Cecere
Nota critica di Vanna Corvese in occasione della presentazione della raccolta presso “La Canonica” a Caserta (18 gennaio 2018)

Ester Cecere


       L’ultimo libro di poesia di Ester Cecere rivela antenne sensibilissime alla sofferenza e alla solitudine umana quale si manifesta nella vita di molti, ma soprattutto nella vita degli ultimi della terra. Lei fa suo il dolore del mondo mentre scandisce una dura denuncia nella forma nitida e armoniosa della poesia. Leggendo con emozione i testi, mi rendo conto che il linguaggio poetico, pur con la sua fragilità, ha il potere di comunicare il nucleo profondo delle umane esperienze, attuando una forma essenziale di conoscenza, al di là della semplice emozione.
Ho parlato di fragilità: la stessa autrice ha intitolato una sua precedente raccolta: "Fragile. Maneggiare con cura" (Kairòs Edizioni, Napoli, 2014).

In questo mese si celebra il giorno della memoria. I versi di Ester Cecere sembrano echeggiare il monito di Primo Levi: ricordate che questo è stato… che qui si trasforma in meditate che questo accade qui, oggi.

       Più penetrante di ogni altra voce è il lamento di chi soffre che la poetessa, impotente, ascolta, ancorata a scogli (Pianto da sponde lontane pag. 48).
       Poi dichiara che non bisogna tollerare ipocrite commiserazioni e invoca il silenzio sul dramma dei bambini morti sulla battigia, come il piccolo migrante sulla spiaggia di Bodrum  (Non uccidetelo ancora pag.53).
      
       Ester Cecere, dunque, con un forte linguaggio metaforico nel ritmo armonioso del verso traduce la sua visione della condizione umana, ponendosi dalla parte più dolente e misera del nostro mondo, apparentemente progredito e civile, e invece segnato dalla discriminazione e dalla violenza.
       Sulla copertina del libro c’è l’immagine di un rilievo presente in un santuario giapponese, con le tre famose scimmiette: non vedo, non sento, non parlo, che corrispondono a un atteggiamento d’indifferenza, molto comune nella nostra società, cui l’autrice oppone un’indignazione che sentiamo vibrare in parole esatte e dure. Eppure, l’ispirazione profonda del suo dettato poetico è l’empatia, la forma emotiva della fraternità, che emerge dal mobile ritmo dei versi liberi. L’empatia è espressa già nell’esergo, che è una citazione da Chesterton: “Comprendere non vuol dire tanto sentire con tutti quelli che sentono, ma soffrire con tutti quelli che soffrono”.
        Questa scrittura poetica, pur nella brevità delle composizioni, ha un respiro epico: celebra l’eroismo di creature dolenti. Le vittime del nostro tempo sono poveri eroi che resistono o lottano per la dignità, per una vita migliore o per la semplice sopravvivenza. A volte seguono rotte precarie nella morsa della violenza e della fame, sognando un approdo fortunato. Spesso muoiono senza vedere la terra promessa oppure vivono schiacciati dalla vergogna e dal disprezzo.
       La lirica Non ditemi di Natale evoca una spettrale atmosfera di solitudine (pag.17-18). I colori della quaresima – simboli di contrizione e di pena – oscurano quelli del Natale e le pastorali si trasformano in gemiti. I consueti simboli della festa sono sfigurati e distorti, il presepe è triste nella campagna desolata (Presepe triste pag. 18).
       La poesia evoca una vicenda tragica che contrasta con lo spirito gioioso della festa: alla Vigilia dell’Epifania, in una povera tenda nel gelo dei Balcani, una famiglia siriana trova riparo: tre esseri umani si stringono per trovare un po’ di calore, ma il bimbo muore assiderato tra le braccia materne (pag. 56).
       Protagoniste delle liriche sono persone ferite che cercano la salvezza.
I testi sono disposti con un crescendo: dopo una specie di prologo con immagini di pena e desolazione, si delineano i drammi individuali che toccano adulti e bambini, ma gradualmente le tragedie umane si collegano a problemi sociali suscitando un’accorata partecipazione. Incontriamo in queste pagine tante creature di pena: il poeta pacifista iraniano impiccato, il cui corpo oscillava lieve / come un ramo dalla tempesta divelto (Per sempre parlerai pag. 45); il gay cresciuto come un fanciullo ferito, travolto da risa e scherno, che affida la sua vita al volo senza ritorno (Gay pag.23);  il lavavetri, che spende la vita  tra ostilità e polveri sottili, si rifugia all’ombra di semafori pietosi e somiglia a un passero scacciato dalle spighe (Lavavetri pag. 33). Come un rimorso aleggia l’interrogativo sulla sorte di Vitaliano, il bimbo abbandonato presso l’Ospedale degli Innocenti a Firenze con la medaglia che fu nascosta dalla madre tra le fasce (La Medaglia pag. 28).
       Nella parte centrale si accentua la coralità del dolore con risonanze profonde e la tragedia assume proporzioni più vaste. I protagonisti sono emblematici di una condizione sociale: l’emigrante che stipa in una valigia la sua vita e prova l’angoscia dello strappo e di orizzonti incerti (La vita in una valigia pag. 20); le vittime di un attentato che col boato squassa l'aria e le coscienze (Attentato pag. 39); la bimba nigeriana kamikaze che ignara saltellando s’avvia verso la morte (Colorate farfalle pag.40).
 La poetessa dagli scogli ascolta il Pianto da sponde lontane (pag.48): per il piccolo migrante, nato e morto durante la traversata, il mare in burrasca diventa culla e bara (E ti fu culla e bara il mare pag. 50).
       Il tema delle donne in un mondo violento è affrontato come una tragedia antica: c’è l’africana cui non è concessa sosta e ha la vita segnata da graffiti profondi (Graffiti sull’anima pag. 64); la sposa bambina che gioca con la bambola di pezza, poi è costretta al fianco di un respiro rivoltante e deve arrendersi allo strazio come dal ghibli vinto / tenero germoglio (Bambola di pezza pag. 66).
 In un’altra lirica (Le tue mani pag.68) è rappresentata una scena terribile: tra le sapienti carezze e i brividi di piacere la donna non s’accorge del lampo d’odio che s’accende nell’uomo a cui languida si abbandona. Le mani si serrano sulla sua gola. Il respiro le manca, non per l’estasi d’amore ma per l’orrore della morte.
       Nel libro c’è un tema che suscita grande inquietudine. Di fronte all’odio razziale, al fanatismo religioso e alla violenza estrema, la poesia pronuncia al Dio dei cristiani e al Dio dei musulmani (Dimmi Dio, rispondimi Allah pag. 36) una domanda sulla faida di giovani vite falciate, ma a questa atrocità non c’è risposta:

“Dimmi Dio, rispondimi Allah”
Dimmi Dio,
chi ha ragione?
Rispondimi Allah,
dov'è il torto?
È forse negli increduli volti
da strisce rosse rigati
di creature innocenti?

Spiegami Dio,
cos'è un'etnia?
Parlami Allah,
perché tanto odio?

Smisura l’assurdità
d’una faida che sanguina
di giovani vite falciate.
Che persino la morte
fatica a portare con sé.

       E questo è l’interrogativo più angoscioso oggi, presente nella coscienza di credenti e non credenti.
       Le ultime poesie segnano un ritorno all’interiorità dell’autrice: c’è la visione di una donna che supera la cattiva risacca (Il cuore in una bottiglia pag. 73), si apre all’accettazione della vita con un sorriso, contemplando la luna comprende l’infinitamente piccolo / e l’infinitamente grande (Improvvisamente, la luna pag.71), si protende verso acque tranquille e scopre l’Angusto infinito (pag.72) nella visione di stelle che occhieggiano come minuscole monete.
       Al termine di questo limpido percorso, l’orizzonte della speranza si apre anche ai nostri occhi.                                                                                                                               
Vanna Corvese


4 commenti:

  1. La condizione umana con le sue sofferenze, i suoi pianti disperati, i suoi silenzi, le sua urla mute nel deserto e la tragicità dell’indifferenza, l’angoscia del quotidiano nella universale fragilità umana. Coinvolgente presentazione del lavoro di Ester Cecere, poetessa indignata, commossa e partecipe: la scoperta che la voce poetica può comunicare molto e forse di più di un saggio impegnato ed analitico sui mali sociali, la scoperta della poesia di pena, di partecipazione, pur nell’impotenza della sola voce nuda che denuncia la tragedia del vivere.

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    1. Grazie infinite cara Maria Grazia! Hai compreso appieno il “mio sentire” e “il fine”, se di fine è concesso parlare, di questa mia ultima raccolta di poesie.
      Ester Cecere

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  2. Definisco poematica l'opera di Ester Cecere: per il senso epico che le appartiene; per l'energia e la forza, con le quali traduce il suo oltre; per avere intuito la necessità della Poesia nel ricomporre valori sgretolati; per scuotere, con il suo urlo lungo, incessante, la coscienza al tramonto di un'umanità nomade, senza oasi…
    Maria Luisa Tozzi

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  3. Grazie di cuore cara Maria Luisa, il tuo commento è esaustivo e pregno di significato!
    Ester Cecere

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