“Non
vedo, non sento e …” di
Ester Cecere
Nota
critica di Vanna Corvese in occasione della presentazione della raccolta presso
“La Canonica” a Caserta (18 gennaio 2018)
Ester Cecere |
L’ultimo
libro di poesia di Ester Cecere rivela antenne sensibilissime alla sofferenza e
alla solitudine umana quale si manifesta nella vita di molti, ma soprattutto
nella vita degli ultimi della terra. Lei fa suo il dolore del mondo mentre
scandisce una dura denuncia nella forma nitida e armoniosa della poesia. Leggendo
con emozione i testi, mi rendo conto che il linguaggio poetico, pur con la sua
fragilità, ha il potere di comunicare il nucleo profondo delle umane esperienze,
attuando una forma essenziale di conoscenza, al di là della semplice emozione.
Ho parlato di fragilità: la stessa autrice
ha intitolato una sua precedente raccolta: "Fragile.
Maneggiare con cura" (Kairòs Edizioni, Napoli,
2014).
In questo mese si celebra il giorno
della memoria. I versi di Ester Cecere sembrano echeggiare il monito di Primo
Levi: ricordate che questo è stato… che qui si trasforma in meditate
che questo accade qui, oggi.
Più
penetrante di ogni altra voce è il lamento di chi soffre che la poetessa, impotente,
ascolta, ancorata a scogli (Pianto da
sponde lontane pag. 48).
Poi
dichiara che non bisogna tollerare ipocrite commiserazioni e invoca il silenzio
sul dramma dei bambini morti sulla battigia, come il piccolo migrante sulla
spiaggia di Bodrum (Non uccidetelo ancora pag.53).
Ester
Cecere, dunque, con un forte linguaggio metaforico nel ritmo armonioso del
verso traduce la sua visione della condizione umana, ponendosi dalla parte più
dolente e misera del nostro mondo, apparentemente progredito e civile, e invece
segnato dalla discriminazione e dalla violenza.
Sulla
copertina del libro c’è l’immagine di un rilievo presente in un santuario
giapponese, con le tre famose scimmiette: non vedo, non sento, non parlo, che
corrispondono a un atteggiamento d’indifferenza, molto comune nella nostra
società, cui l’autrice oppone un’indignazione che sentiamo vibrare in parole
esatte e dure. Eppure, l’ispirazione profonda del suo dettato poetico è l’empatia,
la forma emotiva della fraternità, che emerge dal mobile ritmo dei versi liberi. L’empatia è espressa già nell’esergo,
che è una citazione da Chesterton: “Comprendere non vuol dire tanto sentire con
tutti quelli che sentono, ma soffrire con tutti quelli che soffrono”.
Questa
scrittura poetica, pur nella brevità delle composizioni, ha un respiro epico:
celebra l’eroismo di creature dolenti. Le vittime del nostro tempo sono poveri
eroi che resistono o lottano per la dignità, per una vita migliore o per la semplice
sopravvivenza. A volte seguono rotte precarie nella morsa della violenza e
della fame, sognando un approdo fortunato. Spesso muoiono senza vedere la terra
promessa oppure vivono schiacciati dalla vergogna e dal disprezzo.
La
lirica Non ditemi di Natale evoca una
spettrale atmosfera di solitudine (pag.17-18). I colori della quaresima –
simboli di contrizione e di pena – oscurano quelli del Natale e le pastorali si
trasformano in gemiti. I consueti simboli della festa sono sfigurati e
distorti, il presepe è triste nella campagna desolata (Presepe triste pag. 18).
La
poesia evoca una vicenda tragica che contrasta con lo spirito gioioso della
festa: alla Vigilia dell’Epifania, in
una povera tenda nel gelo dei Balcani, una famiglia siriana trova riparo: tre
esseri umani si stringono per trovare un po’ di calore, ma il bimbo muore
assiderato tra le braccia materne (pag. 56).
Protagoniste
delle liriche sono persone ferite che cercano la salvezza.
I
testi sono disposti con un crescendo:
dopo una specie di prologo con immagini di pena e desolazione, si delineano i drammi
individuali che toccano adulti e bambini, ma gradualmente le tragedie umane si
collegano a problemi sociali suscitando un’accorata partecipazione. Incontriamo
in queste pagine tante creature di pena: il poeta pacifista iraniano impiccato,
il cui corpo oscillava lieve / come un
ramo dalla tempesta divelto (Per
sempre parlerai pag. 45); il gay cresciuto come un fanciullo ferito,
travolto da risa e scherno, che affida la sua vita al volo senza ritorno (Gay
pag.23); il lavavetri, che spende la vita tra
ostilità e polveri sottili, si rifugia all’ombra
di semafori pietosi e somiglia a un passero scacciato dalle spighe (Lavavetri pag. 33). Come un rimorso aleggia l’interrogativo sulla sorte di Vitaliano,
il bimbo abbandonato presso l’Ospedale degli Innocenti a Firenze con la medaglia che fu nascosta dalla madre
tra le fasce (La Medaglia pag. 28).
Nella parte centrale si accentua la
coralità del dolore con risonanze profonde e la tragedia assume proporzioni
più vaste. I protagonisti sono emblematici di una condizione sociale:
l’emigrante che stipa in una valigia la sua vita e prova l’angoscia dello strappo e di orizzonti incerti (La vita in una valigia pag. 20); le
vittime di un attentato che col boato squassa
l'aria e le coscienze (Attentato
pag. 39); la bimba nigeriana kamikaze che ignara saltellando s’avvia verso la
morte (Colorate farfalle pag.40).
La
poetessa dagli scogli ascolta il Pianto
da sponde lontane (pag.48): per il piccolo migrante, nato e morto durante la traversata, il mare in burrasca diventa culla e bara (E ti fu culla e bara il mare pag. 50).
Il tema delle donne in un mondo
violento è affrontato come una tragedia antica: c’è l’africana cui non è
concessa sosta e ha la vita segnata da graffiti
profondi (Graffiti sull’anima
pag. 64); la sposa bambina che gioca con la bambola di pezza, poi è costretta al fianco di un respiro rivoltante e
deve arrendersi allo strazio come dal
ghibli vinto / tenero germoglio (Bambola
di pezza pag. 66).
In
un’altra lirica (Le tue mani pag.68) è
rappresentata una scena terribile: tra le sapienti carezze e i brividi di
piacere la donna non s’accorge del lampo d’odio che s’accende nell’uomo a cui
languida si abbandona. Le mani si serrano sulla sua gola. Il respiro le manca,
non per l’estasi d’amore ma per l’orrore della morte.
Nel
libro c’è un tema che suscita grande inquietudine. Di fronte all’odio razziale, al fanatismo religioso e
alla violenza estrema, la poesia pronuncia al Dio dei cristiani e al Dio
dei musulmani (Dimmi Dio, rispondimi
Allah pag. 36) una domanda sulla faida di giovani vite falciate, ma a
questa atrocità non c’è risposta:
“Dimmi
Dio, rispondimi Allah”
Dimmi
Dio,
chi
ha ragione?
Rispondimi
Allah,
dov'è
il torto?
È
forse negli increduli volti
da
strisce rosse rigati
di
creature innocenti?
Spiegami
Dio,
cos'è un'etnia?
Parlami
Allah,
perché tanto odio?
Smisura
l’assurdità
d’una
faida che sanguina
di
giovani vite falciate.
Che
persino la morte
fatica
a portare con sé.
E
questo è l’interrogativo più angoscioso oggi, presente nella coscienza di
credenti e non credenti.
Le ultime poesie segnano un ritorno all’interiorità
dell’autrice: c’è la visione di una donna che supera la cattiva risacca (Il cuore in una bottiglia pag. 73), si
apre all’accettazione della vita con un sorriso, contemplando la luna comprende
l’infinitamente piccolo / e
l’infinitamente grande (Improvvisamente,
la luna pag.71), si protende verso acque tranquille e scopre l’Angusto infinito (pag.72) nella
visione di stelle che occhieggiano come minuscole monete.
Al
termine di questo limpido percorso, l’orizzonte della speranza si apre anche ai
nostri occhi.
Vanna Corvese
La condizione umana con le sue sofferenze, i suoi pianti disperati, i suoi silenzi, le sua urla mute nel deserto e la tragicità dell’indifferenza, l’angoscia del quotidiano nella universale fragilità umana. Coinvolgente presentazione del lavoro di Ester Cecere, poetessa indignata, commossa e partecipe: la scoperta che la voce poetica può comunicare molto e forse di più di un saggio impegnato ed analitico sui mali sociali, la scoperta della poesia di pena, di partecipazione, pur nell’impotenza della sola voce nuda che denuncia la tragedia del vivere.
RispondiEliminaGrazie infinite cara Maria Grazia! Hai compreso appieno il “mio sentire” e “il fine”, se di fine è concesso parlare, di questa mia ultima raccolta di poesie.
EliminaEster Cecere
Definisco poematica l'opera di Ester Cecere: per il senso epico che le appartiene; per l'energia e la forza, con le quali traduce il suo oltre; per avere intuito la necessità della Poesia nel ricomporre valori sgretolati; per scuotere, con il suo urlo lungo, incessante, la coscienza al tramonto di un'umanità nomade, senza oasi…
RispondiEliminaMaria Luisa Tozzi
Grazie di cuore cara Maria Luisa, il tuo commento è esaustivo e pregno di significato!
RispondiEliminaEster Cecere