Maria Grazia Ferraris, collaboratrice di Lèucade |
I
grandi scrittori internazionali. O. Pamuk e la riscoperta del mito
Gli
strumenti letterari di cui mi servo e che mi mettono in comunicazione con mondi
e culture apparentemente lontanissime e diversissime, – storiche e geografiche
–, mi ripropongono in continuazione il problema che i grandi letterati sanno
tradurre con incomparabile emozione nell’immaginario poetico, romanzesco ed
autobiografico.
Nonostante
la cultura occidentale e post moderna abbia messo tra parentesi i miti classici
per valorizzare lo sviluppo della tecnica e della scienza, pure ancor oggi la
storia, la politica, la società, la scienza e le culture sono ancora costruite su miti: cosa sono,
infatti, gli idoli di oggi se non surrogati dei vecchi miti?… L’ultimo
romanzo del Nobel O. Pamuk, 2017, LA DONNA DAI CAPELLI ROSSI ci
riporta nel cuore delle problematiche che Pamuk espresse a varie riprese nei
suoi romanzi; intreccia una storia
ambientata nella periferia di Istanbul tra gli anni ’80 e i nostri giorni, con
le radici più profonde del mito.
Il vero
problema mi pare sia quello di interrogarci sul tema più sotterraneo, più
culturalmente intrigante dell’identità e dell’autenticità, tema che sta alla
base del romanzo, e che si deve pur affrontare convivendo con le modernità
esasperate, mutanti e rutilanti della globalizzazione.
I
miti operano su quelli che secondo gli
antropologi sono le dimensioni archetipiche del mondo umano (vita, morte,
amore) e sugli elementi fondativi della vita nell’universo e dunque anche della
cultura sociale (acqua, terra, aria, fuoco). Rafforzano perciò le tradizioni e
i legami collettivi, insegnando alle persone che la vita può trionfare sulla
morte e che dunque è possibile risolvere la contraddizione principale che si
trova alla base dell’esistenza umana. I miti, infatti, dicono gli antropologi,
sono anche delle narrazioni costruite con l’obiettivo di armonizzare e
facilitare le relazioni esistenti tra gli esseri umani e ciò che va al di là
della loro quotidianità, a cominciare dalla dimensione del sacro. Il mito racconta da dove veniamo, chi siamo,
dove andiamo, e queste domande rimangono inalterate ancora oggi; occorre
guardare il mondo di oggi con gli occhi del mito: è un messaggio forte che
trova la sua verità nel fatto che i miti – e gli eroi – costituiscono la
necessità permanente dell’umanità di andare oltre la terrestrità proiettandosi
in una dimensione superiore, in una vita più grande, in un racconto di
fondazione.
I miti
sono, a ben riflettere, fondati sul nostro modo di vedere, sugli occhi, che
riescono ad intercettare “l’immagine riflessa della verità”,e fungono quasi da
“ facoltà d’intuizione”, che ha le sue radici negli strati più profondi
dell’anima: la facoltà capace di afferrare intuitivamente le realtà invisibili,
trascendenti; con gli occhi del mito l’uomo ha la possibilità di ricercare la
“verità dell’interpretazione metafisica” che tende a ricostruire le fondamenta
di una società dove gli idoli e i suoi surrogati hanno fatto piazza pulita di
ogni dimensione valoriale.
Si
guarda al mito come ad un “bisogno dell’anima”: non è una mera illusione o un
semplice frutto della fantasia, ma un’intuizione che entra nella dimensione
della verità dell’ “oltre” ove scorgere il bello del mondo. E il mito è
gratuito, essenziale, rivolto al bello, radicato nella tradizione, nella
ripetizione e nel rito ma aperto all’eccezionale, al miracoloso. Il mito,
insomma, riporta l’uomo alle origini di se stesso, perché nessuna cultura
riesce a fare a meno dei miti che costituiscono
una sorta di osservatorio in grado di capire, spiegare e interpretare gli
accadimenti che avvengono nel nostro tempo, siano essi politici, sociali,
economici, religiosi, culturali.
Queste
le considerazioni per avvicinarmi al
mondo mitico di O. Pamuk.
Oran
Pamuk è il primo autore turco (è nato ad Istanbul nel 1952) ad essere
stato insignito del premio Nobel
(2006) per la letteratura ad assurgere a
questo onore mondiale.
Certo
non è estranea alla sua fama l’intervento deciso, di ammissione, circa il tema,
da sempre contestato in Turchia, argomento considerato tabu, del genocidio
degli Armeni del 1915, che gli è costato il processo…., ma senza dubbio il suo
indiscutibile valore si focalizza nella multiforme produzione letteraria, nella
sua capacità affabulatoria, nei suoi notevoli e ben conosciuti romanzi,
(
scrive continuativamente dal 1974) ormai tradotti regolarmente in Italia da
Einaudi.
Orhan
Pamuk racconta, con trame complesse e ricche di particolari, la storia e la
cultura della Turchia, attraverso il succedersi delle generazioni, e le
tensioni fra laicità e religione, modernità e tradizione. I suoi personaggi
sono espressione delle forze che attraversano il mondo turco, mentre si
interrogano sulla propria identità, indagano e mettono in questione la storia e
la cultura di cui fanno parte, e si dibattono fra tradizione e modernità, Islam
e laicità.
Con la
sua città natale – Istanbul-, Pamuk ha un rapporto particolare, ed è sempre
stata al centro della sua opera. Nel 2003 le ha dedicato un libro di memorie, Istanbul,
un originale romanzo, in gran parte autobiografico, in parte storico, coi
ricordi e la città, raccontando il complesso rapporto tra oriente e occidente
che essa incarna. È in questa città o attorno ad essa che spesso si svolgono le
vicende che racconta e si chiarisce la sua personalità. Essere “doppio” è una
metafora di cui Pamuk si serve per raccontarci a suo modo il nodo in cui ci
dibattiamo: la radice nel passato, il futuro diverso, moderno che ci alletta,
col rischio di corteggiare l’alienazione: “Ho trascorso la mia vita ad
Istanbul, sulla riva europea, nelle case che si affacciavano sull'altra riva,
l’Asia. Stare vicino all’acqua, guardando la riva di fronte, l’altro
continente, mi ricordava sempre il mio posto nel mondo, ed era un bene. E poi,
un giorno, è stato costruito un ponte che collegava le due rive del Bosforo.
Quando sono salito sul ponte e ho guardato il panorama, ho capito che era
ancora meglio, ancora più bello di vedere le due rive assieme. Ho capito che il
meglio era essere un ponte fra due rive. Rivolgersi alle due rive senza
appartenere totalmente né all'una né all'altra svelava il più bello dei
paesaggi. Istanbul come sentimento di identità, talvolta difficile e faticosa,
dolorosa, talvolta gratificante, ma vissuta anche come incapacità di uscirne, per
eccesso di fantasia che si nutre del quotidiano e su di esso si sorregge e
riproduce in modo creativo, talvolta ancora perché il conosciuto dà sicurezza e
pur apre alla possibilità di cambiare il punto di vista, di aprirsi
all’altrove.
Ne Il
libro nero l’ha dipinta come una città labirintica e malinconica,
contemporaneamente orientale e occidentale, dove fantasia e realtà si
sovrappongono, dove è quasi impossibile distinguere fra il vero e il falso.
Istanbul come crocevia tra l’Europa e l’Asia,
un ponte fra questi due mondi, è una città che ha incontrato i grandi
viaggiatori occidentali ottocenteschi, come Nerval, Gautier e Flaubert, e si è
confrontata con i loro giudizi, spesso affascinati dai miraggi del suo
esotismo. È una città che conserva l’identità orientale, ma allo stesso tempo
invidia le qualità e i successi dell’occidente. Soprattutto Istanbul, afferma
Pamuk, è dominata da una particolare tristezza, che i turchi chiamano “hüzün e
di cui in qualche modo vanno orgogliosi: nata dal declino dell’impero ottomano,
dai sogni delusi di grandezza della Turchia moderna, dalle antiche rovine che
le case hanno inglobato senza cancellare, dal legno delle vecchie costruzioni
che si annerisce per l’umidità e il freddo, si nutre di innumerevoli dettagli…
Ogni volta che mi soffermo sulla bellezza e la poesia del Bosforo, di Istanbul
e delle strade buie, una voce dentro di me mi invita ad amplificare le virtù
della città in cui vivo, proprio per nascondere a me stesso le lacune della mia
esistenza, come gli scrittori delle generazioni precedenti..”
Con Il
museo dell’innocenza, racconta la
storia d’amore di un ricco giovane, Kemal, che sacrifica tutta la sua vita, dal
matrimonio con la precedente ragazza fino alla carriera imprenditoriale, dagli
amici alla propria reputazione pubblica, per amore della splendida Fusun. Il
museo raccoglie gli oggetti collezionati da Kemal come ricordi del tempo
passato con Fusun, segno d’amore per Fusun, ma anche per la Istanbul di quegli
anni ’70 e ’80, quando erano assieme, gli anni più belli della sua vita. L’opera di Pamuk mantiene un legame profondo
tanto con la storia passata della Turchia,( si pensi ad opere come Il mio
nome è rosso o Il castello bianco, ambientate nella Turchia del XVII
secolo), quanto con la società turca contemporanea, e la politica non può non
entrarvi con prepotenza, dal momento che la storia della Turchia moderna, fino
ai giorni nostri, è un susseguirsi di sconvolgimenti politici: il disfacimento
dell’Impero ottomano e la rivoluzione kemalista di Atatürk, la nascita della
Repubblica e i colpi di stato militari degli anni Settanta. Fino agli ultimi
eventi contemporanei… Il romanzo più
legato alla attualità politica è Neve.
Pamuk
ci racconta del poeta Ka, che ritorna in Turchia dalla Germania dove vive da
anni in esilio per scrivere degli articoli su una serie di suicidi avvenuti a
Kars: parecchie ragazze si sono tolte la vita piuttosto che togliersi il velo
per continuare a frequentare l’università.
Un viaggio di ritorno, quello di Ka, che è
un ritorno alle origini e alla propria cultura, senza però cancellare la sua
esperienza di vita all’estero, in quell’Occidente a cui si guarda con un
sentimento misto di ammirazione, desiderio di emulazione e disprezzo: si ammira
la ricchezza, l’abbondanza di beni materiali, la libertà, e si disprezza la
controparte di tutto questo, la mancanza di spiritualità e la licenziosità. una
storia legata alla mitologia orientale. È un libro senza risposte e pieno di
domande. Un libro - almeno ai nostri occhi - rivolto all’Europa, perché la
Turchia è una specie di laboratorio, un paese aggrappato al nostro continente e
insieme un paese tutto avvolto dalle contraddizioni del Medio Oriente e
dell’Islam. Un paese dove essere occidentali significa impedire alle ragazze di
usare il velo, ma anche usare l’esercito per tenere a bada i poveri e quel
richiamo all’Islam che la borghesia nazionale avverte come un richiamo al
passato e all’arretratezza. Un paese dove parole come Illuminismo e ordine sono
sembrate sinonimi, dove gli studenti di sinistra venivano mandati in carcere
insieme agli imam tradizionalisti.
Un
protagonista, Blu, il leader degli
integralisti gli raccontò una storia:
“ In
Iran, c’era una volta un eroe straordinario, un guerriero instancabile. Tutti
lo conoscevano e lo amavano. Anche noi oggi lo chiamiamo Rüstem, come lo
chiamavano coloro che lo amavano.
Un
giorno Rüstem andò a caccia e smarrì la via: si fece notte e durante il sonno
perse il suo cavallo Rakş. Mentre lo cercava, entrò nelle terre dei suoi
nemici, nelle terre di Turan. Ma la sua fama lo aveva preceduto e venne
riconosciuto e trattato con ogni riguardo.
Lo scià organizzò un banchetto in suo onore. Dopo il banchetto arrivò
nella sua stanza la figlia dello scià che gli dichiarò il suo amore e disse che
voleva un figlio da lui: lo convinse con la sua avvenenza e le sue belle
parole.
La
mattina Rüstem lasciò un bracciale al bimbo che sarebbe nato e lasciò il paese.
Il bambino nacque e lo chiamarono Suhrab. Quando seppe di chi era figlio meditò
di far salire al trono dell’Iran suo padre e lui stesso nel Turan. Avrebbero
governato con giustizia tutto il mondo.
Ma
spie, furbizie e inganni fecero sì che all’incontro il figlio non riconoscesse
il padre.
I due
guerrieri corazzati cominciarono a combattere, e dopo essersi scannati per ore,
si ritirarono stanchi morti senza che nessuno avesse vinto. Al secondo giorno
la fortuna sorrise a Suhrab. Con il pugnale sguainato sta per sferrare il colpo
di grazia quando corrono a dirgli: <In Iran non è tradizione prendere la
testa del guerriero nemico subito la prima volta. Non ucciderlo, sarebbe
scortesia>. E Surhan non uccide suo padre. Ma il terzo giorno, a dispetto di
ogni attesa, il combattimento ha una fine repentina. Rüstem disarciona Surhab e
con uno slancio gli ficca la spada nel petto e lo uccide. La velocità
dell’azione è sorprendente quanto la violenza. Allorché dal bracciale Rüstem
capisce di aver ucciso il figlio, s’inginocchia a terra, abbraccia il cadavere
sanguinante e piange. Surab che ha agito per amore del padre, viene ucciso dal
padre.
Questa
storia ha come minimo mille anni è raccontata dal poeta Firdusi. Una volta
milioni di persone la conoscevano. Oggi in Occidente si pensa al parricidio di
Edipo e alla morte di Macbeth, abbiamo dimenticato questa storia per
l’ammirazione dell’Occidente.”
Pamuk
ci vuol dire che gli dei della Grecia cantati in Occidente sono ancora tra noi
e soprattutto non lontani da quelli dell’Oriente. L’Iliade e l’Odissea sono
alle origini della nostra letteratura, sempre reinterpretate e riscritte a
cominciare da Eschilo per arrivare a James Joyce.
L’ultimo
romanzo di Pamuk tesse un dialogo tra
l’idea di parricidio come simbolo della ribellione occidentale contro il
potere, contrapposto al concetto di figlicidio, che emerge con forza tramite la leggenda del guerriero Rostam che
assassina inconsapevolmente il figlio in un campo di battaglia, e che, secondo
Pamuk, rappresenta la figura autoritaria asiatica.
Storie
che parlano di giustizia e destino, di padri e figli, come quella di Giuseppe e
i suoi fratelli, figli di Giacobbe, che per gelosia lo buttano nel pozzo. A sua
volta il giovane protagonista “con la
forza impetuosa di un ricordo vissuto in prima persona”, racconta la storia che
ha letto in un libro sull’interpretazione dei sogni e solo anni dopo ritroverà
in Sofocle: Edipo che uccide il padre, sposa e fa figli con la madre dando
compimento senza saperlo al destino annunciato proprio quando tenta di
sottrarvisi. E ugualmente quando cercherà di scoprire il colpevole della peste
che si è abbattuta su Tebe per punirlo dei suoi misfatti.
A
fargli scoprire “l’altro io che c’è in noi” è soprattutto l’incontro
perturbante con la Donna dai capelli rossi, che ha il doppio dei suoi
anni ma lo rapisce fin dal primo scambio di sguardi nelle strade del vicino
paese, dove la insegue furtivamente per giorni, gli compare in sogni “che mi si
schiudevano nella testa come fiori selvatici”, fino a una notte indimenticabile
di sconvolgente passione e sessualità in cui scopre il “vero se stesso”.
La
storia prende qui una brusca accelerazione nel concatenarsi di susseguenti
eventi dirompenti.
L’intreccio
realistico si fa simbolico, in un potente gioco di specchi e riprende nella
seconda parte dopo una lunga cesura temporale.
Sono
gli anni dell’ascesa al potere del nuovo partito islamico e, qui come altrove,
si aprono scorci di una declinazione anche politica dei temi della libertà e
della dipendenza, del paternalismo dispotico e delle multiformi servitù
volontarie. La “parte oscura” del passato mai del tutto rimosso continua a
interrogare il protagonista, filtrata attraverso suggestioni letterarie o
pittoriche di ogni epoca e civiltà in cui la vede adombrata, la “parte oscura” del passato mai del tutto
rimosso continua a interrogarlo. E sarà il demone della curiosità, quando per
un gesto imprudente si trova a fronteggiare l’enigma di una sua presunta
paternità, a farlo precipitare in una sequenza di eventi sorprendenti, sfidati
con ignara hybris fino al drammatico scioglimento finale della vicenda. Epilogo
affidato al rientro in scena della fatale Donna dai capelli rossi, che
riprende la parola rivelandosi la vera regista del teatro dei molti destini
incrociati giunti a compimento nella rete invisibile di legami, di colpe
inconsapevoli e occulte, che hanno annodato in una trama sotterranea la recita
delle loro vite.
Un
mito dell’Occidente che s’intreccia, a Istanbul, con un racconto della
mitologia persiana e islamica. Parricidio e figlicidio. Le imperfette
democrazie nostrane contro l’arcaico dispotismo dell’Est. Il tutto
sull’impianto di un intreccio cucito con fascino e tensione.
Cosa
spiega questa stagionale tendenza letteraria che rispolvera la tragedia greca e
risveglia gli dei? Forse la greca semplicità archetipica della tragedia umana è
sopravvissuta anche ai precoci annunci della morte del romanzo, alla
letteratura post-moderna, alla moda della saggistica e della reality fiction
proprio perché interpreta al meglio un’universale umanità che sembra esser
cambiata poco dai tempi di Zeus e Atena.
È
proprio la necessità di trovare un senso
ai nostri incubi quotidiani, alle nostre paure, nelle promenade europee,
o tra la polvere dei bombardamenti siriani, che la letteratura scava di nuovo
nelle sue origini per cercare una spiegazione che può essere la ciclicità della
storia, o il fatto che l’umanità è irrimediabilmente piccola, feroce,
vendicativa, ma capace anche di gesti nobili, di amore e sacrificio.
Gli
archetipi mitologici e le tragedie greche saranno pure una semplificazione
delle tragedie del presente, ma delineano un’immagine più nitida di come vanno
le cose, creando una storia con un significato che non si lascia né intimidire né manipolare.
Un saggio di finissima interpretazione critica; di elevate conoscenze letterarie; e di rara rielaborazione creativa. "...Un mito dell’Occidente che s’intreccia, a Istanbul, con un racconto della mitologia persiana e islamica. Parricidio e figlicidio. Le imperfette democrazie nostrane contro l’arcaico dispotismo dell’Est. Il tutto sull’impianto di un intreccio cucito con fascino e tensione". La vastità del tema è ben controllata da una narrazione fluida e avvincente.
RispondiEliminaBozzi Angelo
Maria Grazia possiede capacità esegetiche che le consentono di renderci edotti su molti scrittori con disinvoltura e rara elasticità mentale. Nel caso dell'autore turco Pamuk,Premio Nobel 2006, s'addentra nella sua ossessione inerente il mito. Oserei dire che si tratta del tema prediletto dal nostro Franco Campegiani, il quale ci illumina da anni sulla valenza di questo argomento. Non fiaba, leggenda, ma conoscenza. Nel caso di Pamuk e della sua opera "La donna dai capelli rossi", Maria Grazia Ferraris conduce una lunga e interessantissima disamina sul senso del mito e delle tragedie greche. La chiusa, quanto mai esplicativa, riassume il senso dei vari concetti 'Gli archetipi mitologici e le tragedie greche saranno pure un’eccessiva semplificazione delle sfumature del presente, ma aiutano a dissipare la confusione e il rumore dell’adesso, delineando un’immagine più nitida di come vanno le cose', creando una storia accettabile, con un inizio e una fine. Danno un significato alla ciclicità delle vicende che stiamo vivendo e rendono il male un concetto intellegibile esattamente come il bene. Ringrazio Maria Grazia e l'abbraccio!
RispondiEliminaMaria Rizzi
Trovo estremamente stimolanti queste riflessioni della Ferraris sulla figura di uno dei maggiori narratori dei nostri tempi, il turco Orhan Pamuk, Nobel 2006. Il discorso ruota intorno alla riscoperta del mito, argomento da cui da sempre io sono affascinato per le implicazioni che direi rivoluzionarie che contiene, in una cultura omologata, massificata e piatta come quella in cui viviamo. Maria Rizzi è una cara amica e conosce a fondo le mie pulsioni culturali, ma dovrebbe rendersi conto che di fronte a giganti come quello oggetto del presente studio il sottoscritto non è che un misero orecchiante. Io ho tutto da apprendere da un autore di orizzonti così vasti, che ha fatto della riscoperta del mito il tema fondamentale della sua ricerca artistica. Pamuk, dice la Ferraris, si sente "ponte tra due rive", occidentale e orientale nello stesso tempo. E aggiunge: "Essere doppio è una metafora di cui egli si serve per raccontarci a suo modo il nodo in cui ci dibattiamo... col rischio di corteggiare l'alienazione". Ed è paradossale che si corra questo rischio proprio nel momento in cui si parla del mito, ovvero del "tema più sotterraneo, più culturalmente intrigante dell'identità e dell'autenticità... che si deve pur affrontare convivendo con le modernità esasperate, mutanti e rutilanti della globalizzazione". Il mondo occidentale ha coltivato lungamente la presunzione che i problemi dell'anima potessero essere superati e accantonati, ma proprio nel momento in cui la massificazione e l'omologazione sembrava potessero avere partita vinta, ecco che l'interiorità profonda, sentendosi compressa e minacciata, è esplosa sotto forma di un inconscio sempre più inquietante e livido, pericoloso. Ma dove l'Occidente opulento mostra di essere spiritualmente povero, l'Oriente spiritualmente ricchissimo risulta materialmente povero. Tra queste due pulsioni si muove l'universo culturale ed umano di Pamuk ed io trovo sommamente interessante, parlando del parricidio di Edipo, la seguente riflessione della Ferraris: "L'ultimo romanzo di Pamuk tesse un dialogo tra l'idea di parricidio come simbolo della ribellione occidentale contro il potere, contrapposto al concetto di figlicidio, che emerge con forza tramite la leggenda del guerriero Rostam che assassina inconsapevolmente il figlio in un campo di battaglia, e che, secondo Pamuk, rappresenta la figura autoritaria asiatica". Dove l'Occidente tende a soffocare lo spirito, l'Oriente tende a soffocare la materialità. Sempre e comunque di soffocamento parliamo, ma forse i tempi sono maturi per tentare vie diverse, che sappiano finalmente tendere all'equilibrio tra i due piani. Come del resto viene da sempre indicato, ma raramente realizzato, da quella conoscenza universale che prende il nome di Armonia dei Contrari.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Ringrazio i lettori partecipi (A. Bozzi, M. Rizzi, F. Campegiani) che hanno sottolineato sia la vastità del tema che l’interpretazione dello scrittore O. Pamuk: certo vale la pena di leggere almeno un romanzo di questo grande scrittore. Ci darà le coordinate per entrare in questo -vicino- mondo orientale , nelle sue ambiguità e contraddizioni , ma anche di confrontarci con i nostri temi privilegiati (identità, doppio, paradosso, mito…) e con la potenza conoscitiva della letteratura e della lettura.
RispondiEliminaPamuk scrive : “… l’effetto vero, esclusivo, di quest’arte è fondamentalmente diverso da quello degli altri generi letterari, del cinema e della pittura. …Pagina dopo pagina, quel mondo nuovo si cristallizza e acquista nitidezza, come quei disegni segreti che appaiono a poco a poco Quando siamo immersi in un romanzo, la nostra mente lavora sodo …come quando ci si versa sopra un reagente; e vengono messi a fuoco linee, ombre, avvenimenti e personaggi. Essere un romanziere è l’arte di essere nello stesso tempo ingenuo e riflessivo…”
Il caro amico Franco Campegiani si auto definisce un "misero orecchiante" su un argomento -il mito- cui è stato sempre "affascinato". Ma allora il sottoscritto, che ne è completamente a digiuno, è fisiologico sentirmi meno di una virgola di questo dotto saggio critico su uno scrittore Nobel ed internazionale quale O. PAMUK. Non mi resta che fare i complimenti più che sentiti alla Prof. Ferraris per tanta capacità critica ed incuneante perchè questo (pur nella mia pochezza curturale in merito) l'ho percepito tutto al compimento della lettura di questo eccezionale lavoro critico che denota lavorio fisico, acutezza mentale e certo determinatezza nel suo porlo in essere. La mia più profonda ammirazione Sig/ra Ferraris. Mi permetto esporre uno spontaneo quesito, dettato forse dalla mia sconoscenza totale in merito: " perchè anche il mito del 3° Millennio ha necessità per imporsi di violenza,padricidio? Pasqualino Cinnirella
RispondiEliminaRingrazio P. C. per la sua partecipazione. La domanda che pone sottintende un’argomentazione letteraria, storica e psicologica e una documentazione vasta e complessa. Mi limito a qualche suggerimento. (Secondo Freud, nell’uomo con lo sviluppo avverrebbe la costituzione dell’Ideale dell’Io o Super-Io, cioè di quella istanza che corrisponderebbe alla “voce della coscienza”, alla censura morale. Tale istanza si formerebbe dalla “prima e più importante identificazione dell’individuo, quella col padre della propria personale preistoria” e “mediante la costituzione di tale ideale, l’Io è riuscito a padroneggiare il complesso edipico). Il pensiero freudiano continua a rimanere potente nella capacità di lettura problematica della società.
RispondiEliminaA Freud si continua a “ritornare”: per il fascino della sua scrittura che non è invecchiata - una trama maestra dell’esistenza che non è semplicemente un messaggio di saggezza, ma una potente euristica, e per la sua interpretazione di Edipo, che non è soltanto la nota tragedia di Sofocle, ma rappresenta il crocevia generazionale che svela la natura intima di un MITO a carattere universale.
Edipo, ovvero il padre, il figlio, la donna; il potere, l’autorità la violenza; il desiderio, l’istinto e la sessualità; il dogma, …. Edipo è tutti noi! Ed è sempre attuale, più che mai oggi, in questa società dove sembra che il concetto di autorità paterna (portatrice dei valori tradizionali) sia diventata inconsistente: invisibile, imprendibile, contestabile, ….perché non c’è più!: ucciso dall’affermarsi di un mondo sempre più super-tecnologizzato in cui il “tutto” sembra potersi risolvere con un semplice click, alla perdita di riferimenti di valori antropologici all’arido monopolio di un’economia mondiale imperante che non “sente” ragioni umane.
Di grande interesse culturale l'argomento, di notevole profondità il saggio sulla figura dello scrittore O.Pamuk ad opera della nota studiosa scrittrice e poetessa Maria Grazia Ferraris. Dai suoi scritti c'è sempre da apprendere qualcosa e ogni volta ne restiamo affascinati per l'eleganza e accuratezza del suo dire.
RispondiEliminaNon ho la profonda conoscenza della Ferraris sui romanzi di Pamuk, ma per quello che ho potuto notare concordo sull'importanza del mito. E' un fatto che il mito non è mai uscito dalla letteratura. E' attrattiva troppo forte e stimolante ...con facilità si piega a narrazioni e commenti sui comportamenti umani. In Pamuk "il tema dell'identità e autenticità" dice la Ferraris. Tema dunque moderno, ma anche non solo del nostro tempo; inoltre è sempre utile a mettere i evidenza un pensiero più generale. Per Pamuk quel pensiero è nei confronti della società del suo Paese...
E' d'obbligo un ennesimo riconoscimento e un grazie a Nazario per l'interesse che il suo blog non manca mai di suscitare in tutti noi lettori, specialmente dopo pagine come questa.
Edda Conte.