Mi piace riportare una tranche di
quello che avevo scritto su degli inediti di Margherita Celestino:
“Poesia morbida, gentile, fluente,
in versi di lapidaria fattura, segmentati in un percorso apodittico e vòlto
alla concretizzazione di un’anima disposta a confessare i suoi frammenti
emotivi. Se la poesia deve essere semplice, spontanea, e diretta effusione di
un cuore; se la poesia deve essere tatuaggio di un sentire cotto a puntino; se
deve essere verbo concretizzante slanci verso cime di difficile ancoraggio; se
deve essere complessità di ricami interiori che dettano inquietudini; se deve
essere tutto questo, le composizioni della Celestino sono poesia. Naturalmente
la semplicità ne è un presupposto valido, ma ne è anche un valido supporto la
parola pensata, inventata, rielaborata, riposata, e disponibile per iuncturae
di metaforici allunghi. Qui tutto scaturisce da un sentire fresco e impulsivo
dove non ha avuto spazio una meditazione lessicale più ampia e spaziosa (…).
Una poetessa che, oltre ad affidarsi
ad una liricità di estetica intrusione, a sinfonie di memoria wagneriana, vive
anche l’illusione di cambiare il mondo con l’influenza etico-sociale dei suoi
versi, è sicuramente carica di un humus che la rende apprezzabile.”.
Il
tempio dei ricordi
Scavo dentro ogni ruga che passa
per ritrovare un sorriso lontano,
un verso, un cenno o forse solo un
ghigno.
Se infilo gli occhi tra gli squarci bui
più non vi trovo quello che cercavo
solo i rottami del mio tempio sacro.
Fermate il passo, non osate entrare!
non profanate i cocci moribondi,
altro non chiedono che tornare in vita.
Quando la polvere si sarà dissolta
io vestirò la tunica di Giobbe
e i cocci torneranno a palpitare.
Iniziare, ora, il tragitto esegetico da
questa poesia testuale significa andare a fondo fin da subito nelle pluralità ontologiche
della ricerca verbale e spirituale di Margherita Celestino. Un mondo polisemico e polivalente quello della
Poetessa, che tocca punte di alta liricità, dove l’umano vivere, con tutta la
sua irrequietezza esistenziale, si affaccia alla pagina con la voglia di
rinascere e farsi poièin; precarietà della vita, illusioni, delusioni,
speranze, amore, saudade, memoriale sono i tanti ingredienti di un canto di
estrema fluidità narrativa; di acchiappante energia sonora; di eufonica
incursione ritmica. Sì, la memoria si fa alcova personale e privata; si fa
tesoro da custodire nei cassetti più sacri dell’esistere. E memoria per Ella significa
momento di raccoglimento, momento di rigenerazione; significa rivivere attimi
di sperdimento in un’isola dove riposare
la mente e l’anima ma anche ripescare il serbatoio a cui attingere per la freschezza
della poesia. Ma memoria significa anche tempo che fugge e che dà la dimensione
di quanto la vita passi improrogabilmente senza tenere di conto dei nostri sacri
altari; di quanto la morte ci corra addosso giorno per giorno: “Corre,
sospeso, tra l’immenso e il mondo/l’uomo, avvilito, come canna al vento,/
rincorre mete che lo fan brillare/sopra sentieri d’insulso domani./Ramingo e
immenso senza una speranza/ superbo l’io oscura ogni cammino/un vuoto immane
spazia nella mente,/ detta il decalogo della sua esistenza:…”. Nonostante che la Poetessa sia
cosciente della futilità del tempo e della brevità dell’esserci affida i suoi
cocci ai versi perché la vita torni a palpitare. C’è questa intenzione umana e
sovrumana nella silloge: affidare una storia
al canto quasi per perpetrarne la sacralità; per tramandare ai posteri un
patema esistenziale che non può essere legato al dove e al quando ma che,
sbrigliato dal tempo, abbia la consistenza di vincerlo col patrimonio dell’arte
in cerca della luce. Ella sa che la vita è un’esperienza unica e
inconfondibile, e per questo unire il presente
al passato per donarlo al futuro resta un leitmotiv che s’insinua nel processo
musicale di uno spartito che fa dell’endecasillabo la voce preminente del
verseggiare. Ma sa anche che la vita è fatta di privazioni e sottrazioni, di
esperienze non sempre positive, di ingiustizie sociali, che si mutano in ricordi
dolorosi: “Scavo dentro
ogni ruga che passa/ per ritrovare un sorriso lontano,/ un verso, un
cenno o forse solo un ghigno./ Se infilo gli occhi tra gli squarci bui/ più non vi trovo quello che cercavo/ solo i rottami del mio tempio sacro./ Fermate il passo, non
osate entrare!...”. Questo è il parenetico input “non osate entrare”. Ci sono
storie di delusioni e smarcamenti, di sogni irrealizzati, di promesse non
mantenute, di gioie mancate, di vicende anche dolorose, che l’Autrice tiene per
sé nella cella inviolabile di un tempio sacro dove nessuno deve entrare. E. A. Poe (1809-1840), pubblicate le
sue Poesie nel 1831, nel saggio postumo Il principio
poetico definisce la poesia “creazione ritmica della bellezza”,
convinto che “il sentimento poetico si ottiene nell’unione tra poesia e musica,
giacché nella musica, forse, l’anima raggiunge quasi interamente il grande fine
per il quale, se ispirata da un sentimento poetico, essa lotta… per raggiungere la creazione della Bellezza Suprema…”. E tutto ciò possiamo riscontrare nella
plaquette: una sinestetica armonia che dà il meglio di sé in una semplicità
comunicativa di urgente impatto emotivo; quella semplicità verbale e formale
che un artista raggiunge dopo anni di sperimentazioni e di rielaborazioni dacché
si accorge che la poesia è lavoro, lavoro, lavoro, unito ad una forza creativa da
trasmettere agli altri; a chi può intendere un messaggio arrivante e
conturbante nella sua totalità. Fenollosa Ernest
Francisco afferma che “La poesia è l’arte del
tempo”; e Alfredo Panzini definsce i poeti “simili al faro del mare”.
Perché queste citazioni? Perché è umano, fortemente umano cercare di
sbrigliarsi da questa terrenità, da tutte le aporie del quotidiano per
allungare lo sguardo verso territori da scoprire; verso orizzonti che segnano i
limiti del nostro essere ed esistere. Da qui il mare con la sua vastità e un
faro che ne illumina una esigua parte. Quale simbolo più idoneo a rappresentare
la miseria della nostra esistenza tra rien e tout come afferma Pascal? Forse è
la speranza a dare forza all’uomo; a dare quell’energia idonea ad attraversare
le colonne del sapere e dell’amore: “… una brezza leggera, fischiettando,/monta la scena con un mulinello,/ sfratta le nubi e, con un
sole amico,/ ridipinge l’universo di speranza…”. Le nubi se ne vanno e il sole della vita
torna a risplendere con raggi di luce. Una simbologia accattivante, una
metaforicità panica in cui gli ambiti naturali si fanno corpo di un’anima tutta
volta a ritrovare i suoi abbrivi. Una ricerca attenta e spontanea in cui la
Celestino assegna al verso il compito di concretizzare un mondo di fughe e
ritorni, di giochi sentimentali e meditativi di valenza lirica, dove, spesso,
ci invita a non disperare “…Non disperare, anima raminga,/strappata al mondo da uno scellerato,/ scuoti i calzari alla
dipartita/ o porterai il fango oltre la
vita./ Dimentica la scena del massacro/
non ti voltare verso l’empietà,/ fra
poco il Sole caldo arriverà,/ e ti ripagherà dal tristo inverno”, a volgere lo
sguardo verso una luce che non mancherà di ripagarci dei rigori invernali:
ricorrere alle stagioni per dare concretezza al senso della vita è uno stratagemma stilistico di cui si
avvale spesso. D’altronde la vita si
gioca tutta su un equilibrio precario e provvisorio ma quello che conta è avere
la coscienza di esser-ci per amare il mondo:
“… Un soffio lieve/vela diafano cristallo,/ nello stesso
riflesso/ nasce e muore./ In bilico precario/ tra il mio ieri e
l’oggi/ capire non mi è dato,/ ma questo non m’importa/ perché io ancora sono,/
e ancora vivo/ per amare il mondo”. Qui
il verso si fa più stretto, più raccolto, più breve, forse perché si sente il
bisogno di dare più valenza apodittica ad un pensiero di vita e di morte; di
etica filosofica e cognitiva, cosciente la Nostra del dubbio e dei perché
irrisolti e irrisolvibili: non sappiamo quello che siamo, non conosciamo il
nostro destino e non abbiamo il potere di risolvere i tanti quesiti che ci
assillano. L’opera si chiude con una bella lirica in dialetto calabrese dove la
Poetessa scopre una verità che da tempo va cercando; d’altronde l’uomo è sempre
alla ricerca di un perché che lo
inquieta; di un porto a cui attraccare con la speranza che sia l’accesso all’isola
felice; ma il fatto sta che si accorge che l’unica verità è proprio il luogo
che ha lasciato alla sua partenza; ed è fra questa gente che l’Autrice ritrova
la sua serenità; al suo paese; ma anche la gioia di essere triste, come afferma
Hugo; la solitudine tra tanta
gente: Ora che non stai più in un fazzoletto/
ormai sei sordo pure se ti canto/ e pur
tra tanta gente sono sola.”:
(…)
La
mamma mia, non me la toccare
ora
che sta come Cristo in croce!
parla
e non sa quello che dice
ma
con la bocca sta sempre a lodare.
I tempi
di una volta stan passando
le
famiglie si son
sparpagliate.
gli
amici si son fatti tutti grandi
chi
è partito e chi è sotterrato.
Il
cuore piange lacrime angosciate
io
ti ho innaffiato con sospiri e pianto,
perché
mio fiore ora sei seccato?
Ora
che non stai più in un fazzoletto
ormai
sei sordo pure se ti canto
e
pur tra tanta gente sono sola. (Il mio paese)
Nazario
Pardini
DAL TESTO
A
te lo offro in dono
Ovattato silenzio in chiaroscuro,
deboli battiti in attesa del sole,
una carezza lontana è una promessa;
poi
lo schianto, il silenzio e la paura,
le tenebre scendono come a notte fonda,
la nenia dolce ora è un urlo infranto,
il sorriso di madre si fa pianto:
inerme, un fiore, ha conosciuto il
mondo e se n’è andato,
lieve come la piuma il suo volare
greve il tormento racchiuso dentro il
cuore.
Poi il pianto, nei giorni si fa canto,
e il canto sale come una preghiera:
a Te lo offro in dono o mio Signore,
curalo con le note del tuo amore,
tienilo stretto che più non vacilli,
per me che sono sangue del suo sangue,
fa che spunti luce nuova all’orizzonte,
donami la speranza per calmare
un dì con un vagito questa
ambascia.
Autunno
Scheletri
imploranti,
piangono, nel bosco foglie gialle,
la pioggia scroscia e sferza i poverelli
incoraggiando
il pianto delle nubi,
una brezza leggera, fischiettando,
monta la scena con
un mulinello,
sfratta le nubi e, con un sole amico,
ridipinge l’universo di speranza.
Camminerò
(1° classificata
alla VI
edizione del Premio Letterario Capannese
“Renato Fucini”ottobre 2010)
Camminerò
nel
respiro più intimo del mondo,
mi
aggrapperò
ad ogni
lacrima di bimbo
per
dare un urto
alle
coscienze addormentate,
piangerò
quando
per tutti sarà festa
e
loderò il Fattore
se
nelle pene umane
saprò
capire
quando può giovare la pietà.
Canna al vento
Corre,
sospeso, tra l’immenso e il mondo
l’uomo,
avvilito, come canna al vento,
rincorre
mete che lo fan brillare
sopra sentieri d’insulso domani.
Ramingo
e immenso senza una speranza
superbo
l’io oscura ogni cammino.
Un
vuoto immane spazia nella mente,
detta
il decalogo della sua esistenza:
violenza,
invidia, odio e vanità.
E
corre il passo a ricercare allori,
vacilla
ignaro sulle foglie morte
di una
fosca stagione di menzogne.
corre e
non vede l’ombra dei cipressi,
né ode
il cupo gemito del vento.
Non mi tentare corsa iniqua e buia
per
ottenere ciò che non so dare!
Voglio
cambiare la rotta mendace
voglio
seguire sentieri di pace,
urlare ai sordi con versi suadenti
fermare
il passo che guida all’occaso.
Evidentemente non è poesia costruita nel suo impianto strutturale e credo sia questo il pregio di queste liriche che sanno di genuinità, di naturalezza, spontaneità come slancio dal profondo dell'autrice che si ferma sul foglio così come emerge e sgorga dal suo intimo sentire; perciò poesia immediata, la definirei sanguigna, seppure a volte rustica nella sua ingenuità verbale. Ciò non toglie merito, anzi, al messaggio universale di ammonimento ai simili con "un urlo alle coscienze addormentate", per "una fosca stagione di menzogne". Pasqualino Cinnirella
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