Relazione
su “ Padrona di giochi di luce” di Silvia Cozzi
“Lento, incalzante, meditativo, epico… quindi rondò, canzone, ode, madrigale, sonetto…
e poi distico, settenario, novenario, endecasillabo… e ancora alternata, baciata,
incatenata, interna, sdrucciol… ed infine iato, sinalefe, dieresi, sistole,
diastole, afèresi e sincope.”
Sono solo alcuni dei termini che definiscono il ritmo, la tipologia
del verso o della composizione, le figure metriche e le licenze del prezioso patrimonio
rappresentato dalla poesia metrica italiana. Tutti i grandi poeti del passato
ne hanno fatto ampio uso: da Petrarca a Dante, da Boccaccio ad Ariosto, dal
Tasso a Leopardi, da Pascoli a Carducci. Ma anche gli autori che in seguito
hanno scelto nuove prospettive poetiche utilizzando il verso libero sono prima passati
per quella scuola ed hanno deciso di infrangere le sue regole nella perfetta conoscenza
delle stesse, così come sempre si dovrebbe fare. Oggi, però, è opinione frequente
che la metrica sia una struttura che razionalizza e di conseguenza limita il
pensiero poetico privandolo della spontaneità e dell’ispirazione. Ciò a mio
parere è vero solo in parte, o meglio lo è solo all’inizio del percorso, quando
l’impegno che l’autore profonde nello studio delle regole e nella loro
applicazione impedisce effettivamente il libero volo dei pensieri. Ma quando il
poeta raggiunge la padronanza degli strumenti e non ha più bisogno di “pensare”
in metrica ecco che la tecnica da gabbia si trasforma in una solida, armonica
struttura che si fa sostegno e protezione delle sue emozioni, divenendo così
quel “vestito buono” con cui un concetto può presentarsi al meglio ad una
platea di ascoltatori. La difficoltà maggiore per chi scrive in metrica sta nel
riuscire a sincronizzare il pensiero con la tecnica utilizzata, tecnica che
nelle migliori esecuzioni non si dovrebbe nemmeno percepire in quanto fusa in
unico corpo con la poesia stessa. In alcuni autori esiste una sorta di naturale
predisposizione in tal senso che, al di la della pur importante competenza
tecnica, consente il concepimento della cosidetta “magia letteraria”. Ecco,
questa è la prima caratteristica che si percepisce sfogliando la nuova silloge
di Silvia Cozzi “Padrona di giochi di luce”, dove questa dote appare subito chiara.
Con competenza e personalità la nostra autrice si avvale di diversi schemi
metrici sfruttando al meglio la loro potenzialità espressiva e riuscendo a coniugarli
con un linguaggio fluido e moderno. Le sue opere risultano così apprezzabili
sia da un pubblico di appassionati, sia dai severi “addetti ai lavori” in
quanto il valore dei contenuti va di
pari passo con quello dell’architettura dei versi. A tal proposito vorrei
sottolineare la sua abilità nell’uso del novenario, un verso insidioso in
quanto i tre accenti presenti cadendo ad intervalli regolari paventano il
rischio della “sindrome della filastrocca”. L’autrice, invece, lo fa suo vestendolo
di un lessico fresco e spontaneo, rendendolo ora armoniosa espressione di
gioia, ora attenta riflessione sul tempo passato, come nel caso della poesia “
Ognuno ha una storia”. “Ognuno ha una storia nel cuore / legata
a un ricordo lontano,/ di quelle che fanno clamore / lasciando un sapore un po’
strano…”Altrettanto interessanti, poi, sono i cambi di tempo che si apprezzano
nella lirica “Quel giorno” dove ai novenari si avvicendano i senari “ E resta soltanto nel cuore / il senso di
un sogno rubato /il gusto davvero insapore / di un bacio non dato” ed ancora ne “Il profumo della notte”, dove
l’alternanza di enedecasillabi e settenari ci regala un’atmosfera delicatamente
introspettiva “ La notte mi confonde / e
mi racconta sempre vecchie fiabe. / Nel libro del passato / ritrovo quello che non
si è avverato”. O ancora la gradevole sequenza di settenari con cui l’autrice
confeziona “La speranza”, una scelta facile solo in apparenza, perché questa
tipologia di verso la costringe a mantenere sempre alto il livello di pathos “ Ha un vestito leggero / di finissima seta
/ agli albori del giorno / il suo canto dispiega”. Ed eccoci giunti allo
schema preferito dall’autrice: il sonetto, ottimamente eseguito nelle sue versioni
classica, caudata ed elisabettiana. In tutte il rispetto dei tempi narrativi e
la scelta degli argomenti si sposano con una struttura che non risulta mai pesante
o stucchevole e accompagna i pensieri fin dentro al cuore. Ma l’analisi tecnica
sulla poetica di Silvia non può ancora dirsi terminata: come spesso accade l’applicazione
delle regole metriche stimola la mente a far tesoro dell’armonia contenuta nei
lemmi utilizzati, dunque la sua naturale evoluzione ci offre delle liriche che
non presentano rime, ma attingono la musicalità direttamente dal suono delle
parole stesse. In tal senso vorrei segnalarvi la lirica “ La carezza del
silenzio”, dove i pensieri si fondono in un equilibrio perfetto di stile e
sentimento che avvolge il lettore rendendolo protagonista. Assai coinvolgenti, infine,
i riferimenti alla quotidianetà intesa come dimensione in cui nulla può
impedire alla vita di sbocciare, sincero omaggio al prezioso, spesso incompreso
ruolo che l’anima assume nelle scelte e nei rapporti di tutti i giorni.
Persiste in tutta la raccolta un’alternanza di buio e luce, un senso come di
mistero inespresso, di amore inafferrabile, quasi a suggerirci che la felicità
si può raggiungere solo instaurando un dialogo con la nostra parte più profonda.
La stessa dove nasce la poetica di Silvia Cozzi, che prosegue con passione il lungo viaggio dell’umanità alla
ricerca del senso della vita. E ci sussurra
“Non so che cosa siamo, / non so cosa eravamo in un passato che distorce le forme / e
deforma certezze nel presente…”
Una stupenda istantanea che ci comprende tutti e ci invita alla
lettura di questa silloge in cui la tradizione accoglie a braccia aperte il
futuro.
Paolo Buzzacconi
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