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giovedì 31 gennaio 2019

RODOLFO LETTORE: "LINKS DI POESIE RECITATE"

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mercoledì 30 gennaio 2019

CLAUDIO FIORENTINI: "HO SU DI ME..." DI GREG LAKE

Claudio Fiorentini,
collaboratore di Lèucade


Ecco una vera poesia, forse tra le più belle del mondo rock, di Greg Lake. A quanto sembra la canzone, quindi la poesia, l'ha scritta a 12 anni. In questo video ne aveva 23, ed era la prima volta che la suonava in pubblico. Era il 1970, in occasione del raduno hippie, o meglio, del festival dell'Isola di Wight.

Il saggio

Ho su di me la polvere di un viaggio
che non può essere spazzata via.
Vive nel profondo,
l’ho respirata ogni giorno.
Tu ed io siamo le risposte di ieri.
La terra del passato fatta carne,
erosa da fiumi di tempo
divenuta le forme che ora siamo
poi parte del mio respiro e della mia sostanza,
che mischia le nostre sorgenti e i nostri tempi
in infiniti, brillanti momenti,
i nostri perché sono persi nelle nostre rime.

Greg Lake


martedì 29 gennaio 2019

CLAUDIO FIORENTINI: "TESTO DI ECHOES, DEI PINK FLOYD"

Claudio Fiorentini,
collaboratore di Lèucade


Mi è capitato, già in altre occasioni, di parlare di poesia nel rock. Oggi propongo il testo di Echoes, dei Pink Floyd.

Lassù l'albatro rimane sospeso a mezz'aria,
e giù nel profondo di onde fluttuanti
in labirinti di caverne coralline
l'eco di un tempo remoto giunge
tremante attraverso la sabbia,
e ogni cosa è verde e sommersa.
E nessuno ci mostra alla terra,
nessuno conosce il dove o il perchè
ma qualcosa si agita, qualcosa si muove
e comincia a scalare la luce
Sconosciuti camminano per strada
per caso due sguardi separati si incrociano,
e io sono te, e tutto ciò che vedo sono io,
e ti prenderò per mano
per condurti in questa terra,
e per aiutarmi a capire per quanto mi è possibile
E nessuno ci fa segno di muoverci,
nessuno ci fa abbassare gli occhi,
nessuno parla, nessuno cerca,
nessuno vola intorno al sole
Senza nuvole, ogni giorno, ti mostri ai miei occhi al risveglio,
invitandomi e incitandomi ad alzarmi,
e attraverso la finestra, sul muro
ondeggiano sulle ali della luce
un milione di brillanti ambasciatori del mattino
E nessuno mi canta ninne nanne,
nessuno mi fa chiudere gli occhi,
così spalanco la finestra
e grido il tuo nome fino al cielo.



domenica 27 gennaio 2019

PAOLO BUZZACCONI, RELAZIONE SU: "LA VERITA' PE RIDE..." DI LUCIANO GENTILETTI



Relazione su “La verità pe ride…e pe penzà” di Luciano Gentiletti

“La verità, pe ride… e pe penzà” è il titolo dell’ultima raccolta poetica di Luciano Gentiletti, un titolo da cui già si evincono le intenzioni dell’autore, che nel rispetto della migliore tradizione romanesca si propone di coniugare il sorriso alla riflessione profonda. Dunque si può fare poesia in romanesco senza cavalcare i falsi stereotipi del romano superficiale, ingordo e scansafatiche? E addirittura è possibile testimoniare la propria identità popolare senza urlare, senza cadere nella banalità o peggio ancora nella volgarità e soprattutto senza rimanere nel cerchio ristretto degli appassionati del genere comunicando con il proprio dialetto la preziosità di valori e sentimenti universali? Ebbene si. In questa nuova silloge poetica di Luciano Gentiletti c’è la risposta a tali domande e di conseguenza la spiegazione del clamoroso successo delle sue liriche nei tanti concorsi in ogni angolo d’Italia, dalla Val d’Aosta alla Sicilia. Quali sono, dunque, gli ingredienti “segreti” della poesia di Luciano? Pochi, ma buoni.
 Inizierei con la tecnica, che l’autore padroneggia con capacità e rigore, ma che al contempo riesce quasi a nascondere al lettore sfruttando la naturale musicalità dei lemmi del dialetto romanesco e avvalendosi di schemi metrici quali il sonetto, che se adeguatamente utilizzato da “gabbia” si trasforma in armonica intelaiatura. Vorrei inoltre sottolineare come l’autore faccia uso dell’endecasillabo rispettando rigorosamente sia la struttura di undici sillabe che la posizione degli accenti, che oltre a quello principale in decima cadono correttamente ora sulla quarta sillaba (a minore) evocando un quinario ora sulla sesta (a maiore) realizzando un settenario, contribuendo così all’armonia dell’insieme. C’è poi una perfetta esecuzione dei tempi poetici (descrizione dell’argomento, approfondimento dello stesso, riflessioni finali e pensiero poetico) che unitamente all’accurata scelta dei termini atti a descrivere le sfumature del pensiero accompagnano il lettore in un percorso solido e lineare, in cui si può godere senza fatica sia della forma che della sostanza del narrato.
Un altro aspetto importante della poetica di Luciano Gentiletti è nella sua capacità di trasferirere le emozioni dal passato al presente e proiettarle poi nel futuro, onorando così il bello che è stato senza limitare però la visione della realtà e senza precludere lo sguardo verso nuovi orizzonti. Nelle sue liriche il pensiero si rivolge spesso con affetto ad un passato che nella sua apparente semplicità era ricco di saggezza, ma l’autore non lo vive esclusivamente come parentesi nostalgica, bensì come riscontro di quelle qualità che nel contesto odierno, troppo concentrato su denaro e potere, dimentichiamo di avere e non utilizziamo. Il famoso detto “Era meglio quando era peggio” viene così ricondotto alla  responsabilità dell’uomo, spesso incapace di far tesoro delle opportunità che il progresso gli offre. In altre parole la causa della nostra infelicità non è da ricercare nelle nuove opportunità che ci si presentano o nella tecnologia delle cose che abbiamo, ma nell’uso che egoisticamente ne facciamo.
L’autore, con attente riflessioni, mette in risalto le debolezze e i difetti tipici dell’animo umano, ma al contempo ci ricorda anche quei valori e quelle potenzialità su cui è possibile costruire una società civile degna di tale nome. Emblematica, in tal senso, la considerazione che anima la chiusa della lirica “ La nostargia”, ove il Nostro sottolinea come “ L’omo ce nasce, co ’sta malatia che lo condanna a nun godesse gnente: sogna er futuro e fa scappà er presente, poi lo rimpiagne… quanno è annato via.”
Non mancano poi l’ironia e la satira sul costume e sulla società tipiche del pensiero romanesco, con cui  Luciano ci strappa più di un sorriso. Liriche che raccontano gli eccessi e le contraddizioni dei nostri tempi con versi schietti e graffianti in cui nessuno viene risparmiato. Dalla politica nazionale a quella delle alleanze mondiali l’ipocrisia e la falsità di chi esercita il potere vengono smascherate con versi dal sapore dolce amaro in perfetto stile alla “Pasquino”, senza escludere quello che avviene nelle alte sfere e nelle piccole realtà della comunità ecclesiastica. Si ride, ma intanto si riflette sulle tante, troppe pseudo verità a cui per pigrizia o convenienza facciamo finta di credere e si comprende l’importanza di avere un’opinione libera da schemi e preconcetti, basata sui dettami della propria coscienza. Arguta attenzione, poi, è dedicata alle piccole  schermaglie coniugali quotidiane dando vita a deliziose sitcom in cui la donna finisce inevitabilmente per avere la meglio già dai tempi di Adamo ed Eva.
Ed eccoci arrivati all’ultimo, preziosissimo ingrediente presente in questa raccolta, quello con cui l’autore riesce a dare il tocco del maestro a tutte le sue produzioni: l’umanità. Umanità intesa come capacità di far proprie le gioie e i dolori altrui al punto di sentirli parte del proprio bagaglio e riuscire ad evocarne la forza nella totalità delle coscienze. Umanità che trasmette la felicità per le piccole meraviglie di ogni giorno, per quelle ricchezze che nella frenesia del quotidiano non ci accorgiamo di avere fino a quando non vengono meno. Nel leggere queste poesie ci si ritrova a vivere in prima persona le vicende narrate e si torna a ragionare con il cuore, liberi da schieramenti politici e sociali, sino a ritrovare la consapevolezza delle cose che ci uniscono, infinitamente più numerose di quelle che ci dividono. I drammatici fatti di cronaca che l’autore ci racconta con emozione e calore ci appaiono diversi dai resoconti senz’anima che riportano i giornali e la televisione. Non ci sono alibi o giustificazioni ai soprusi e alla violenza e la verità emerge invitando tutti a fare di più, a non girare la testa. La poesia di Luciano, complice la splendida cornice del dialetto romanesco, si fa dunque comune denominatore di speranza e di armonia invitando il lettore a riprendere il dialogo con la sua parte più profonda, quella con cui è possibile condividere, accogliere e lavorare insieme per un futuro migliore. È questo, a mio parere, il valore aggiunto della poetica di Luciano Gentiletti, che permette ad un opera dialettale di superare i confini della propria identità rendendola poesia universale, musica per il cuore senza ne limiti ne confini.
                                                                                                 Paolo Buzzacconi

EMANUELE ALOISI: "SE QUELLO E' UN UOMO"



Emanuele Aloisi,
collaboratore di Lèucad
e










Se quello è un uomo, suo fratello è questo

Non pensava di venire al mondo
un uomo
se quello è un uomo, suo fratello è questo-
il tempo non discrimina la razza,
il braccialetto è senza nome al polso-
Sarà il sigillo del suo sangue: la trasparenza delle lettere
destino orfanotrofio di placente. Dov'era
l’uomo, quando teneva un aquilone in mano?
Il filo si è reciso,
avvolto al moccolo di un nulla
una mollica senza pane, una candela spenta!
Temeva il fuoco della cenere, disconosceva il ruolo...
il legno serve a cuocere la carne.
E poi è volato e se n’è andato via, lontano
lungo una linea di confine, lungo una scia di storia
-servisse a piovere memoria!- Rimane uguale
un uomo nudo senza numeri
ma tendini di lettere sguarnite: una parola
tra le spume, e si cancella tutto. Non è servita
la salamoia della carne: il mare
baratta il forno dell’inferno, l’affanno è odore della primavera,
mentre scoppietta il sole, tizzone di un ciliegio rinsecchito.
E brucia brucia l’aquilone ardente!
Rimane il fumo della nebbia a disegnare in cielo
le nuvole di manna con le lettere
una parola il figlio, un Dio minore il padre.

Em@nuele Aloisi


PATRIZIA STEFANELLI, PREFAZIONE A: "SCHIUMA ROSSA" DI ENZO BACCA



SCHIUMA ROSSA, con l’introduzione di Patrizia Stefanelli, vince la XXIII edizione del Premio Internazionale Poseidonia- Paestum. L’autore è Enzo Bacca, già vincitore del Premio Nazionale Mimesis di Poesia nel 2017.

Patrizia Stefanelli,
collaboratrice di Lèucade

Credere in una silloge e farla propria non è cosa da poco, specialmente quando la “scrittura” è diversa dalla tua. Non è facile scrivere di quel che accade nel mondo, delle tragedie che percuotono l’umanità, inflitte dalla stessa, senza cadere in facile retorica. Enzo Bacca è uno dei pochissimi che riescono nell’intento.

INTRODUZIONE

(…) Neanche il Vecchio della torretta
aveva previsto simile grascia.
Il guardiano, sulla roccia
binocolo (forse) appannato
faccia sconvolta per tale geenna
sprofondava nel tormento.
Non erano tonni alla deriva
ma uomini-donne-bambini...
polmoni scoppiati!
Pezzo d’universo senza custode?

Domani, un’altra odissea. (Schiuma rossa)

Di tale rifornimento, di simile grascia oggi sono piene le rive? Una schiuma rossa, mattanza umana, vi si posa. Schiuma rossa, la poesia che apre la silloge di Enzo Bacca, e che è esplicativa del suo titolo, ha la peculiarità di introdurci alla sua poetica che mi piace chiamare “dell’esodo”; un esodo dettato dalla necessità di sopravvivenza di popolazioni provenienti soprattutto dalla Siria, Iraq e Afghanistan ma in Italia soprattutto da paesi dell’Africa subsahariana. Esodo significa “uscita” e nel suo riferimento biblico narra la storia del popolo d’Israele liberato da Dio dalla schiavitù in Egitto, guidato da Mosè. Il popolo schiavo è liberato e protetto sia nell’uscita dall’Egitto sia nel tragitto. Una bella storia di custodia. Esodo è anche uscire da se stessi, dal proprio giardino d’idee e benessere circoscritto da paletti e ben curato. In un mondo che ha puntato alla globalizzazione e al relativismo come idee vincenti di scambio, tutto frana di fronte al potere economico, religioso e politico unito, spesso, in un’unica soluzione di continuità: una ferita infetta che coinvolge l’intera umanità.  (…) ero straniero e non mi avete accolto, (Matteo 25,31-46) sono le parole del Vangelo che è impossibile equivocare. Questa la tara umana dell’oggi come ieri e nessun insegnamento riduce le “potenze” al rispetto dell’umanità intera. Si rischia facile retorica anche soltanto nell’accennare alla vita difficile, anzi la non-vita dei nostri tempi ma questo è il compito dell’artista, dello scrittore, del poeta: consegnare la sua parola al mondo per il mondo, ai posteri per la storia.  Il Nostro, per lavoro, amore e una serie di circostanze, sente forte il bisogno di esprimere in versi la realtà che vede ed esperimenta. E’ il suo un umanesimo costante e incisivo che attraverso il viaggio vitale, di cui Ulisse è archetipo, non può fare a meno di parlare di geenna (dall’aramaico ge hinnòm, “valle di Hinnom”), la valle a sud-est di Gerusalemme dove ai tempi di Cristo si bruciava ogni rifiuto: l’inceneritoio o l’inferno. Rifiuti umani sono tutt’uno con rami d’acacia, agavi amaranto e gabbiani, gli uccelli che tanto beffardamente sono accostati all’idea di libertà.
Bacca tocca quella schiuma rossa attraverso il suo disagio di essere umano che compatisce la più cruda realtà. Kamal è il nome di un bambino, un nome qualsiasi, il nome di uno dei tanti innocenti uccisi dalle granate a Kabul. Le bianche divise degli operatori sanitari hanno un fiore rosso sul petto, una croce di rabbia e d’impotenza nell’ultimo atto d’amore… (Kamal, dieci anni). Bambini che diventano adulti in una notte sola, quella del viaggio che a volte è una rinascita, altre è la morte. Barconi come balene, rigonfi di vite umane appese alla decisione di un Nettuno.
Dalle sabbie clandestine/ alla pancia gravida/ di natanti fantasma…/… Gonfia balena sfida onde grosse, / Nettuno vibra nell’aria umida/ minaccioso tridente, / questa volta clemente lascerà la “zattera” a riva. (La nave dei bambini)
Tutta la natura è partecipe della tragedia che ci investe. Il grido che giunge dal mare è il grido dell’agnello immolato, del pianto delle madri che colmano la sacra coppa del sacrificio. Il Poeta si avvale di climax ascendente e di numerose metafore e analogie che s’intersecano a visioni simboliche di grande efficacia: Giunse dal mare un grido. /S’elevò dalla torre bruna/cantico di morte rasposo./ Onda genuflessa attraversò/ cresposo specchio come balena.  I luoghi della realtà, come la baia della tabaccara a Lampedusa con la sua trasparenza d’acqua, si accostano all’acqua mara di una canzone popolare salentina e a quella dell’oasi nel deserto trovata dagli ebrei durante l’esodo. Acqua salata, impossibile da bere nel desiderio d’un sorso d’acquazzina, acqua del campo profughi di Yarmouk tinta d’odio, acqua che per analogia ricorda l’Acheronte nel terzo canto dell’Inferno. Metafora aderente quella
delle cinghiate a sangue di caron dimonio a traghettare la vita verso la morte di cento e poi cento e altri cento!
Eppure, nonostante l’attitudine a tenersi il più possibile abbracciato a una poesia asciutta, di cronaca, Bacca non può fare a meno del valore evocativo e musicale della parola, anche quando ci parla della striscia di Gaza, martoriata e sventrata, dove i fori dentro i mattoni/sono grandi pupille sui balconi di fronte, le donne dai veli scuri, senza volto, sono foglie nel vento, contorno amaro/ soffio leggero tra le macerie, quelle del cuore.(Syria Street) e ancora in Oro blu, storia di Bamòko che scava in miniera, chiarissime sono le assonanze, le consonanze e le allitterazioni che aggiungono al testo un valore fonosimbolico.  
L’attenzione, per la figura femminile e l’infanzia, è costante in Enzo Bacca: Kalìda, dice, non voleva nascere sotto membra sconfitte di madre. Non voleva e non poteva, in quel Mare Nostrum quotidiano che è grembo e partorisce morte, nascita contro natura. L’elegia: dell’innocenza stuprata (Il velo di Bianka: Sul collo ligneo di Bianka, (tra le anche)/il sigillo viola della sconfitta.), della donna coraggio, della fanciulla- farfalla in una danza haram e della maternità è cardine che muove la sua essenza di Uomo e poeta. Poserò rose di solitudine/sull’abito bianco senza veli/bacerò la fronte fredda/che odora di ginestra e vento. (Adua delle acque).
Lo sguardo è a 360°. Tutt’intorno è teatro di guerra e, al centro del bersaglio, le persone di ogni paese, amici e nemici che si confondono nelle divise, negli occhi di chi muore e di chi vede morire. Qualche omelia e rosari sgranati metteranno in pace le coscienze? Strisce di terra sono terreno di rivalsa, dove l’umanità ripete i suoi crimini e la storia non insegna: per ogni israeliano ucciso trenta palestinesi? Achtung, attenzione! Non coprite Arbeit macht frei./C’è ancora tanta nebbia sulla piana. Cosa mai si salverà da tanto orrore? Forse il timo di Rafah: Cresce forte il timo selvatico/incurante del torto subito/e s’espande fiero nel giardino morente oppure Sarà delle cicale l’ultimo frinire? Gocce di miseria che dilatano lo spazio della sopravvivenza degli Invisibili: da spostare altrove/nuovi campi di pomodori, altri dolori/da interrare insieme a nuove semenze. (Il silenzio degli invisibili).
A Kabul la notte è lunga, e John, soldato americano, chiede birra scura prima che il rumore di una saracinesca arrugginita lo riporti al rumore della guerra. Un’eco che si perpetua ovunque, in se stesso come fuori: Un po’ d’olio per quella fottuta saracinesca, /grigia come il cielo dei bombardieri/arrugginita come baionetta usurata. /L’umidità corrode, anche i ricordi/ieri è troppo vicino e la paura non demorde. (La lunga notte di John). E al rumore di saracinesche abbassate ovunque, nelle città, s’apre un mondo/di pozzanghere, anfratti e pertugi d’ogni sorta/ombre sconfitte e carne putrefatta agli angoli/fuori tutto e senza cortesia, sterco e rigurgiti, /folate di vento che spazzano il vomito, la lisciva. (Abbassando le saracinesche).
In Mary e Spugna, un ritmo serrato, ostinato e continuo ci introduce ai chiaroscuri di Manhattan, tra la vita dei barboni e lo sfavillio di vetrine e limousine. Due mondi diversi quanto speculari, voyeur d’indifferenza. E 1,2,3,4, venti, cento, mille… poveri cristi fuori dal tempio, dove i mercanti fanno il gioco della Borsa in un’economia retta dalle banche e dalle multinazionali adoranti il dio petrolio: Abracadabratoti!
dice il Nostro Impertinente aedo. Le immagini evocate dalla poesia di Enzo Bacca, sono forti, di un realismo devastante, procede spesso per frammenti, accumulazioni e antitesi come in Sottosopra, quasi un tautogramma in cui ogni verso comincia con la consonante “ S” di speranza: Sopra/ su quell’abisso che s’alza allo sguardo/ s’ammanta la notte/ silente/ senza luna.  Simbolismo di baudelairiana memoria che si nutre d’ogni metafora presa dalla natura ostaggio d’inganno che si fonde a quella umana in un unico grido di dolore: Poi, l’ultima gundèlia recisa, fatale/le raffiche di mitra menù di contorno/ e la pianura dormiente si tinse di rosso.(L’ultima gundèlia).
C’è da imparare molto dalla poesia di Bacca. Ci introduce al non visto, al non detto a ciò che i più vivono indirettamente stando seduti sul divano ascoltando un TG, proferendo parole di sdegno e di pietà per realtà lontane, turbanti una giornata già difficile. La poesia può insegnare, aprire la mente alla curiosità di conoscenza, a nomi, luoghi, costumi e folclore uniti dallo stesso colore: il rosso del sangue dei popoli della Terra. L’importante è saper ascoltare, vibrare all’unisono oltre i significanti, agire il cambiamento che in ognuno si avvera, comprendendo i fatti, l’offerta d’amore più grande che è la propria vita, donata da chi lavora di carità per la salute e la dignità dell’altro. Parlo dei medici senza frontiere, dei missionari, di Madre Teresa, di Carlo Urbani ecc… Persone che hanno fatto dei loro sogni il proprio lavoro, il loro senso della vita per la vita.

Siamo tutti ai lati del redentore, impotenti,
ladroni pentiti e padroni di scempi, ipocriti parolai,
cristi in confusione mascherati tra la gente.

Versi, questi, tratti da La processione del Venerdì Santo perché non basteranno le processioni, i mea culpa battuti sul petto a salvare un’umanità che si perde nella ricerca di vana gloria e del potere economico che distrugge l’aria stessa rendendola irrespirabile e, con essa, ogni respiro. Tempus fugit, dice il Poeta e nel suo Credo regna la Speranza quale attesa di bene, tensione alla comunione fraterna.

Torneremo a ridere sotto l’olmo antico
negli amori, nel soffio caldo di novella vita
intorno, la sterpaglia sarà recisa per nuova vigna
e mangeremo il frutto della terra senza paura.
Bastano un albero, radici robuste, un orizzonte vero
e l’onda impetuosa che spazzi lo sterco, la gramigna.

Patrizia Stefanelli













sabato 26 gennaio 2019

MARISA COSSU LEGGE: " IL RITORNO" DI LINO D'AMICO


 Marisa Cossu legge “Il ritorno
Una poesia di Lino D’Amico

Marisa Cossu,
collaboratrice di Lèucade


Il poeta pone al centro di questa lirica il sentimento del tempo: è una riflessione interiore che coinvolge il cuore e la mente nell’indagine di ciò che si è perduto, di quelle periferie dell’anima che possono essere rivisitate dalla memoria e che evocano l’oraziana constatazione dell’attimo fuggente, da cogliere prima che scompaia per sempre. Che cosa resta del Tempo se non il presente, quell’attimo sottolineato più volte dal Poeta con l’anafora “c’è”, la persistenza del fragile vissuto che trae forza da emozioni, atmosfere, ricordi e sensazioni. Il passato è nel groviglio tenero del vissuto, nei suoi lampi di coscienza, mentre il futuro ancora non c’è, né lo potremo mai conoscere perché in realtà esso è il presente che stiamo vivendo qui ed ora.

“C’è un luogo che aspetta il ritorno
alla ricerca di uno stato di quiete …”

Nel presente, il poeta pone l’attesa del ritorno nell’emozione di un suono, dello sguardo puro di un bambino, nel ricordo di carezze d’amore. Sa che adesso è il tempo di avviarsi all’autunno della vita

lasciando che i pensieri spazzino/ là dove i passi non giungeranno mai,/ per cogliere nel palpito del vento/ la fragranza di aromi svaniti/ di una stagione che fugge inarrestabile/”.

Qui si legge la propensione intimistica e riflessiva del poeta che, ripiega in se stesso e nella nostalgia dei beni goduti dalla sua anima sensibile nel corso del lungo, eppur troppo breve, viaggio della vita. Sono polimetri, quelli di Lino, che spiegano e raccontano con profonda semplicità, la bellezza di un lungo peregrinare per stagioni e paesaggi:

“C’è un profumo per viaggiare con il pensiero
lungo sentieri da percorrere
nella melodia dell’esistenza …”
“C’è un luogo … un tempo ... un profumo”

C’è un “non luogo”, quindi, dove intravedere il ritorno delle emozioni, le ragioni di questa evanescente magia della memoria e divenire eterni nell’attimo presente. Lino ha classicamente trasposto in poesia, tenendo fede al proprio stile e all’inconfondibile dolcezza del verso, un concetto filosofico alto, quello del tempo, di ciò che noi intuiamo e sappiamo di questo mistero . Lo ha reso attraverso pensieri, parole e immagini che leggiamo con intensa partecipazione perché ci appartengono e ci regalano attimi di emozionante lettura.

“Anche le parole che ora diciamo
Il tempo nella sua rapina
ha già portato via
e nulla torna”.
(Orazio, I, II)
Marisa Cossu



Il ritorno

C’è un luogo che aspetta un ritorno
alla ricerca di uno stato di quiete
che vive nel suono di un’eco,
nella voce del silenzio,
nello sguardo di un bambino,
nelle carezze di chi ci ha amato.
C’è un tempo per scoprire ciò che sarà,
lasciando che i pensieri spazzino
là dove i passi non giungeranno mai,
per cogliere nel palpito del vento
la fragranza di aromi svaniti
di una stagione che fugge inarrestabile.
C’è un profumo per viaggiare con il pensiero
lungo sentieri da percorrere
nella melodia dell’esistenza
per ritrovare celati ricordi
tra le emozioni del gioco di colori
nascosti nella polvere delle sensazioni.
C’è un luogo … un tempo … un profumo …
che vogliamo ritrovare
per cercare la ragione di quel ritorno,
per dare voce ad una emozione,
per rifugiarci in un istante di eternità
e coglierne l’attimo, prima che si dissolva.

Lino D’Amico