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mercoledì 1 gennaio 2020

NAZARIO PARDINI LEGGE: "NON RACCONTARMI IL CIELO" DI LUIGI PALAZZO


Luigi Palazzo. Non raccontarmi il cielo. Manni Editore. 2019



Mi è giunta oggi 24 dicembre una plaquette bene editata, con gusto e professionalità, dai tipi dell’editore Manni. Il titolo: NON RACCONTARMI IL CIELO. L’opera si divide i tre sezioni: Osservazioni, Impressione d’amore e dintorni, L’universo in un imbuto. Si apre con una poesia di nove strofe a rima baciata, in cui l’autore ci mette subito in guardia sulle sue abilità versificatorie,  per poi fuggire verso lidi lontani da ogni tradizionale schema nostrano, quasi a criticare, con ironia, le melense di correnti arpionate dalla metrica:

“Come il cazzaro non crede al sincero
polvere bianca col suo velo nero
mantide antica di nova religio
cielo d’estate, ma cielo già grigio;...” 

 Seguono poesie d’ispirazione libera, e svincolata da ogni regola prosodica, in cui l’autore, con vene di malinconia, esprime tutto il suo patema esistenziale sul mondo, la terra, le persone, la natura, e gli ambienti che più gli sono cari: “Lasciare Roma/è una certa malinconia/ di visi sconosciuti/ di carte in gioco/ lanciate come dadi,/ d’America in osteria,/del vortice di pietra Coppedè,/del capotreno triste/ sul regionale lento/ come il traffico d’illusioni/ sul tempo ormai perduto...”, dove i versi, tenuti insieme da un gioco prolungato di engambements, assumono una connotazione apodittica, concisa, breve. La fantasia, l’invenzione, la creatività si fanno focus di un poema che si distende su uno spartito di note musicali; di un tracciato in cui la singola parola occupa un posto essenziale nell’organicità del tutto per farsi essa stessa verso con la sua portata significante: giusta parola in giusto verso: “... Seduto sul lato/ sinistro/ di uno smartphone/ascolto la sospensione del suono/ed osservo fluttuare/ Karl e Carmelo...” (Osservazioni). Un andamento di surreale portata, dove Palazzo trova il terreno fertile per dare spazio alle sue esigenze scritturali: filosofia e morale in una incarnazione verbale di resa vicissitudinale, storica, dove persino un articolo può fungere da verso: “Ho visto la memoria/nelle mani di/ un/ vecchio/ contadino/ che grondano anni...” (La storia). Il poeta ci dà una visione del corso degli anni piuttosto accorata per quello che gli uomini subiscono, “sconfitti dal ricordo che scivola/balordo/nello stesso mondo/ che gira/ allo stesso modo. Da sempre.”. Il linguaggio si fa moderno, verticale, asciutto; e la Storia è letta nei sospiri affannosi e irregolari/ solenni e definitivi,/ nel sangue lasciato per strada,/negli ultimi letti infami/ nei raggi/ di insoliti soli,/ spezzati/ come anni/ pesanti sulla schiena,/leggeri sullo stomaco,/nelle lacrime di vita da passare,....”. Si giunge, così, alla lettura di D’amore, di sogni, di libertà, dove il poeta: “Valuta(o) ironico un’angoscia costante./ Sfugge(o) cercando crescenti vertigini./ Ammira(o) scettico spazzole in ferro/scorrere sopra al torace malconcio./Offeso da noie d’amore./scavato da vili speranze...”. Parole che struggono in un balsamo di vita  dove noie e speranze si fanno offese, deliri. Mentre Linda, in una comunità di recupero, vedova da sempre, convive col suo piano Lodovico. Si spoglia per una sigaretta. Vomita. “Quando morirà,/al suo funerale, probabilmente,/ non suonerà/ Elton John”. Invenzioni verbali, schizzi di luce quando meno te l’aspetti in serate di trito buiore, dove gli uomini, le donne, si trovano abbandonati in una società di relitti. Questo è lo sguardo dello scrittore sul mondo che lo circonda; e tutto appare filtrato da un animo che tinge di noia, di tristezza e di abitudinario tran tran lo scorrere del tempo: ci sono Charlie e Gilles che sorridono sorseggiando un  caffè corretto; il Novecento col parrucchino e il phard; la Storia  nei sospiri affannosi; c’è Linda, vedova da sempre; Elisa, di trenta secoli colma;  ma ci sono anche punte di vero lirismo che infiocchettano con eleganza il pacco di Natale. “Il sole cade,/ s’arrampica/ ogni luna./ Gli occhi/ rimpiangono/ le stelle/ che cadono.”. In Vite si torna ai soliti tormenti, mante il cane assiste alla violenza di inconsapevoli facce. Un realismo minimalista, quasi un correlativo oggettivo di stampo eliotiano, in cui parlano le cose, soggetti e le persone oggetti, come nel realismo terminale di Guido Oldani. Ma non è di certo improprio dire che la poesia di Luigi Palazzo è nuova per originalità comunicativa, per improvvise e impreviste punte di diamante, per contenuti che ti arrivano con un carico di sapida ironia. Non è di certo una poesia di sperimentale positura prosastica, visto il nerbo della funzione verbale, ma di sicuro una poesia che si pone come vera innovazione in un tempo dove il lirismo sembra riprendere il sopravvento. Mi piace chiudere con Oggi, pag. 66, dove un gomitolo di metafore e sinestesie, contribuisce a dare un tocco di vivacità allo scorrere del testo: “Miro incomparabili nuvole,/ falsifico carte per giocare pulito,/ siedo su spine indecenti,/ bevo violenti succhi d’anima,/ scrivo sostanziali sprazzi d’orgoglio.”, e dove aggettivazioni di rara fattura creativa danno idea della freschezza di questo collage. 

Nazario Pardini




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