Luigi
Palazzo. Non raccontarmi il cielo.
Manni Editore. 2019
Mi
è giunta oggi 24 dicembre una plaquette bene editata, con gusto e
professionalità, dai tipi dell’editore Manni. Il titolo: NON RACCONTARMI IL CIELO. L’opera si divide i tre sezioni: Osservazioni, Impressione d’amore e
dintorni, L’universo in un imbuto. Si apre con una poesia di nove strofe a
rima baciata, in cui l’autore ci mette subito in guardia sulle sue abilità
versificatorie, per poi fuggire verso
lidi lontani da ogni tradizionale schema nostrano, quasi a criticare, con
ironia, le melense di correnti arpionate dalla metrica:
“Come
il cazzaro non crede al sincero
polvere
bianca col suo velo nero
mantide
antica di nova religio
cielo
d’estate, ma cielo già grigio;...”
Seguono poesie d’ispirazione libera, e
svincolata da ogni regola prosodica, in cui l’autore, con vene di malinconia,
esprime tutto il suo patema esistenziale sul mondo, la terra, le persone, la
natura, e gli ambienti che più gli sono cari: “Lasciare Roma/è una certa malinconia/
di visi sconosciuti/ di carte in gioco/ lanciate come dadi,/ d’America in
osteria,/del vortice di pietra Coppedè,/del capotreno triste/ sul regionale
lento/ come il traffico d’illusioni/ sul tempo ormai perduto...”, dove i versi,
tenuti insieme da un gioco prolungato di engambements, assumono una connotazione apodittica,
concisa, breve. La fantasia, l’invenzione, la creatività si fanno focus di un
poema che si distende su uno spartito di note musicali; di un tracciato in cui
la singola parola occupa un posto essenziale nell’organicità del tutto per
farsi essa stessa verso con la sua portata significante: giusta parola in
giusto verso: “... Seduto sul lato/ sinistro/ di uno smartphone/ascolto la
sospensione del suono/ed osservo fluttuare/ Karl e Carmelo...” (Osservazioni).
Un andamento di surreale portata, dove Palazzo trova il terreno fertile per
dare spazio alle sue esigenze scritturali: filosofia e morale in una
incarnazione verbale di resa vicissitudinale, storica, dove persino un articolo
può fungere da verso: “Ho visto la memoria/nelle mani di/ un/ vecchio/
contadino/ che grondano anni...” (La storia). Il poeta ci dà una visione del
corso degli anni piuttosto accorata per quello che gli uomini subiscono,
“sconfitti dal ricordo che scivola/balordo/nello stesso mondo/ che gira/ allo
stesso modo. Da sempre.”. Il linguaggio si fa moderno, verticale, asciutto; e
la Storia è letta nei sospiri affannosi e irregolari/ solenni e definitivi,/
nel sangue lasciato per strada,/negli ultimi letti infami/ nei raggi/ di
insoliti soli,/ spezzati/ come anni/ pesanti sulla schiena,/leggeri sullo
stomaco,/nelle lacrime di vita da passare,....”. Si giunge, così, alla lettura
di D’amore, di sogni, di libertà,
dove il poeta: “Valuta(o) ironico un’angoscia costante./ Sfugge(o) cercando
crescenti vertigini./ Ammira(o) scettico spazzole in ferro/scorrere sopra al
torace malconcio./Offeso da noie d’amore./scavato da vili speranze...”. Parole
che struggono in un balsamo di vita dove
noie e speranze si fanno offese, deliri. Mentre Linda, in una comunità di
recupero, vedova da sempre, convive col suo piano Lodovico. Si spoglia per una
sigaretta. Vomita. “Quando morirà,/al suo funerale, probabilmente,/ non
suonerà/ Elton John”. Invenzioni verbali, schizzi di luce quando meno te
l’aspetti in serate di trito buiore, dove gli uomini, le donne, si trovano
abbandonati in una società di relitti. Questo è lo sguardo dello scrittore sul
mondo che lo circonda; e tutto appare filtrato da un animo che tinge di noia,
di tristezza e di abitudinario tran tran lo scorrere del tempo: ci sono Charlie e
Gilles che sorridono sorseggiando un
caffè corretto; il Novecento col parrucchino e il phard; la Storia nei sospiri affannosi; c’è Linda, vedova da
sempre; Elisa, di trenta secoli colma;
ma ci sono anche punte di vero lirismo che infiocchettano con eleganza
il pacco di Natale. “Il sole cade,/ s’arrampica/ ogni luna./ Gli occhi/
rimpiangono/ le stelle/ che cadono.”. In Vite si torna ai soliti tormenti,
mante il cane assiste alla violenza di inconsapevoli facce. Un realismo
minimalista, quasi un correlativo oggettivo di stampo eliotiano, in cui parlano
le cose, soggetti e le persone oggetti, come nel realismo terminale di Guido
Oldani. Ma non è di certo improprio dire che la poesia di Luigi Palazzo è nuova
per originalità comunicativa, per improvvise e impreviste punte di diamante,
per contenuti che ti arrivano con un carico di sapida ironia. Non è di certo
una poesia di sperimentale positura prosastica, visto il nerbo della funzione
verbale, ma di sicuro una poesia che si pone come vera innovazione in un tempo
dove il lirismo sembra riprendere il sopravvento. Mi piace chiudere con Oggi, pag. 66, dove un gomitolo di
metafore e sinestesie, contribuisce a dare un tocco di vivacità allo scorrere
del testo: “Miro incomparabili nuvole,/ falsifico carte per giocare pulito,/
siedo su spine indecenti,/ bevo violenti succhi d’anima,/ scrivo sostanziali
sprazzi d’orgoglio.”, e dove aggettivazioni di rara fattura creativa danno idea
della freschezza di questo collage.
Nazario
Pardini
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