INCONTRO CON ALFONSO ANGRISANI
Oggi 3
gennaio del nuovo anno ho incontrato una bella persona con signora, figlia e
cane. Alfonso Angrisani romano con radici pugliesi. Abbiamo parlato a lungo di
diverse questioni: poesia, letteratura, cultura, vita... E dalle sue parole ho
potuto conoscere il suo mondo, le sue idee, la sua franchezza: calvinismo, rapporto diretto con l’Aldilà,
questioni escatologiche, il rapporto con l’arte, con la poesia, con la Natura.
Una persona polivalente, versatile, eclettica, che ama il verso e la
confessione diretta delle conflittualità umane. Mi ha confortato il suo
pensiero sulla natura, l’uomo, e la vita; la sua condanna della corsa verso il
nulla, verso lo spaesamento, verso la spersonalizzazione a cui l’uomo si
sottopone continuamente nella ricerca di un obiettivo che non ha ben chiaro. L’essere
ha bisogno di meditare, di riposare, di pensare a sé e a quello che è per non finire in una sottomissione alle
cose di memoria oldaniana; sì, pensare e riflettere sulla sua posizione
nell’universo, sulla brevità
dell’esistere, e sulla precarietà della sua
vicenda; forse, dalla coscienza di tale situazione, deriverebbe anche
una nuova visione dei rapporti umani: i valori, la fratellanza, l’amore. Il
rispetto per la natura e per l’ambiente esce con virulenza dalla sua parola.
Come la visione di una poesia fatta di lavoro e di connaissance. Tutto ciò che
raccattiamo dal fuori ha bisogno di sedimentare in noi per tramutarsi in
immagine, cuore del canto. I versi hanno bisogno di riposare per essere in
seguito ripresi e trasferiti sulla pagina. Quindi lavoro, lavoro, di parola, di
vocabolario e tanta meditazione. Ho avuto il piacere di leggere la sua silloge
dal titolo Placor, su cui, a suo
tempo, avevo steso una mia lettura poi pubblicata sul IV volume di Lettura di
testi di autori contemporanei, editato
nel 2019. Una personalità complessa, articolata, folta di ampi respiri,
di larghe motivazioni esistenziali impegnata in diversi generi: saggistica,
narrativa, poesia, visto che il suo linguismo paratattico breve e conclusivo
(ho il manoscritto di un suo romanzo dal titolo IL PANNO STELLATO) si adatta a
qualsiasi genere letterario. Ma sopratutto mi ha colpito il suo amore per la
letteratura in genere; per lo studio dell’uomo in quanto essere vivente, zeppo
di tante conflittualità, di tante antitesi ombra-luce. Dal suo romanzo emerge
innanzi tutto la filosofia di un popolo che vede l’occidente come un mondo di
decadenza, che antepone la calma, la
quietezza del vivere, e il sapore del tempo alla frettolosa e convulsa andatura
dell’uomo occidentale: filosofia di
Angrisani. Si capovolgono i concetti: l’idea dell’occidente si tramuta nella considerazione
che quel popolo nutre su di noi; noi esseri che sciupano la vita in una corsa
che annulla, anche, la nostra possibilità di gustare le cose belle a noi vicine:
“... ogni volta che incrociavo lo sguardo profondo di una persona del posto
avevo come la sensazione che loro vedessero in noi una sorta di divinità
tragiche, carnefici e vittime nelle stesso tempo, condannati alla
prevaricazione sulle cose e quelle persone anche contro la nostra stessa
volontà. Più di una volta, nei loro sorrisi, mi era parso addirittura di
cogliere una sorta di compassione nei nostri confronti, come se provassero
pietà per il nostro ruolo e la nostra
presunzione di detentori del progresso materiale... Ma noi eravamo padri e
figli della tecnica illuministica. A noi non erano concesse quelle dimensioni
atemporali. Noi eravamo per le costruzioni e distruzioni, secondo la sola
prospettiva logico-razionale, e in questa dovevamo muoverci, possibilmente
orientarci, cercare di non autodistruggerci... ”. Un romanzo zeppo di
motivazioni umane: confronto di civiltà, amore, passione, amicizia, natura...;
e il tutto sorretto e disciplinato da una filosofia di vita che rende organico
e ben strutturato l’insieme. La forza scritturale, la limpidezza dell’azione
narrativa, e le sequenze descrittivo-psicologiche, sono portate avanti con esperita attrazione. Tutto scorre con
energica fluidità, tanto che la lettura si fa agile e spedita. Pagina dopo
pagina siamo incuriositi e attratti dal prosieguo, dalle immancabili e belle
descrizioni ambientali, occasionali che tanta influenza hanno sulla psicologia
dei personaggi; ma anche segno di una piacevole
sosta dello scrittore su ambienti da cui si dimostra attratto: “...
Tornando a casa, quella notte alzai per un attimo lo sguardo al cielo stellato.
Tutto era sereno, limpido e profondo. Giù nel mondo passavano rade macchine,
falciando di luce il buio sulla strada, e ogni cosa sembrava come in ogni
notte, avvolta nel buio che a milioni di anni vince e perde sulla luce. Se mi
fossi messo a gridare in quel mentre, paventando l’imminente Apocalisse, sarei
stato io la nota stonata: forse allora era così che doveva giungere la fine di tutte le fini, nascosta nella pace di una sera
qualunque...”. Descrizioni sì, ma finalizzate ad un pensiero di
imperscrutabilità universale, che l’autore contorna del suo substrato speculativo, straniante, di
totalità medicatrix, in cui poter reificare, magari, le inquietudini esistenziali; come non si astiene
dal proporci una natura che tiene in sé tutta la simbologia di un valore cardine
del pensiero di libertà. “... Poco dopo, rallentando per parcheggiare, una
meravigliosa farfalla dai colori blu e verde ci svolazzò attorno. E mi sembrò
che quella farfalla volesse ricordarci quella tatuata sul petto di Papillon,
una farfalla destinata a volare libera, sempre, al di fuori di ogni gabbia ed
al di sopra di ogni possibile sventura...”. D’altronde non nasconde nemmeno,
Angrisani, il suo pensiero sull’arte: arte attiva, partecipativa, presenza e
non assenza; visione nettamente contraria ad ogni sperimentalismo di positura
prosastica che pretende di fare della poetica un messaggio privo di storia e di
memoria. E così non ci dobbiamo meravigliare se il suo romanzo contiene
sprazzi della sua vicenda, di un
autobiografismo nascosto, magari, in àmbiti naturistici o in intrighi
vicissitudinali. Un libro complesso che tiene in sé tutti quanti i contenuti
che fanno riflettere sull’uomo e sulla sua vicenda. E non mi pare, senza dubbio,
inopportuno, a questo punto, riportare un semplice lacerto della mia recensione alla sua plaquette dal titolo
PALACOR, per ampliare l’angolo di prospettiva sul suo mondo: “...Una silloge di
ampia caratura introspettiva dove ogni tasto dell’umano vivere è affrontato con
soluzioni di sperdimento o di sana inquietudine. D’altronde è proprio dell’uomo,
in quanto tale, sentirsi a disagio di fronte alle insoluzioni che lo
attanagliano; o ai tanti perché di difficile soluzione. Si cerca di stare coi
piedi per terra, di prendere nutrimento da fatti e cose di ogni giorno, anche se spesso in maniera
traslata, per non pensare magari agli intrichi esistenziali o a sorti
misteriose che ci toccheranno:
parole cadute una notte, al bar, il
ritorno di Caterina, l’amore sui prati, il gatto, una croce in A4, i disegni
delle ombre, la perdita di certezze, città deserto disumano, l’illusione del
sogno, il riposo dell’anima, l’alibi del mare, cieli di nuvole e sorrisi
d’amore. Tutto questo nella silloge di Alfonso. Una panoramica
suasiva e persuasiva che, con i suoi tocchi vari e articolati, intrecciati da
rime e assonanze, ci chiama alla lettura perché, in fin dei conti, è un po’
come le ciliegie, un canto tira l’altro e mai ci sentiamo pienamente sazi, a
meno che non ci sperdiamo come naufraghi nella città; visto che anche da una
città si può ricavare un sogno, un calviniano Marcovaldo che si stordisce
facendo la villeggiatura in piazza o vedendo nel semaforo la luna.
mistico rosa del mattino
camion passano come bestioni
a mezza strada tra la cità
e il cielo
non ho più bisogno
di chiudere gli occhi
per credere
non ho più bisogno
di allargare le braccia
per volare
le stelle andate
il fresco nelle valli
freme d’attesa tutto l’orizzonte
un canto di sirena questa febbre
dell’andare.
(Ulisse
in città)
Nazario Pardini
Nazario caro, innanzitutto ci tengo a scusarmi per l'assenza degli ultimi giorni. Il mio vecchio computer ha tirato le cuoia e sono impazzita su quello del figlio scoprendo di aver perduto dati e di dover recuperare anche le mail. Oggi, con serenità nuova torno sullo Scoglio che amo tanto e trovo il tuo incontro con Alfonso. Da tempo desiderava incontrarti e immagino la sua emozione nel conoscerti. La stessa che provai io ad Abano Terme, quando non avemmo tempo per parlare, ma al solo prendere atto della tua umiltà, della genuinità, del candore e del senso dell'umorismo che si celano dietro alla tua grandezza, rimasi conquistata. Ti presi nella vita e seppi che non ti avrei mai lasciato. Ho rubato spazio ad Alfonso, altra persona che ammiro infinitamente. Un uomo vero, pulito, schivo, che si batte per le grandi cause e che compone straordinari versi metropolitani. Presentammo la sua Silloge Placor a Roma e vinse anche un Premio importante al nostro "Voci". La lirica che hai postato lo rappresenta in pieno. Alfonso è un "Ulisse in città". In fuga dal caos, dalla febbre del consumismo, dal 'qui e ora', dall'assenza di armonia. l nostro dolce avvocato è in fuga dai:
RispondiElimina"camion passano come bestioni
a mezza strada tra la città
e il cielo".
Sogna altro, protegge i cosiddetti 'scarti', resiste impavido alla superbia, all'egocentrismo, di cui si ammalano troppi poeti. Un fiore raro, che cresce tra l'asfalto e i rumori sognando il volo e la libertà.
Un incontro di altissimo valore il vostro. Chiudo gli occhi , ci penso, vi vedo e mi commuovo.
Vi abbraccio entrambi con stima e affetto infiniti.
Maria Rizzi