Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
Franco Campegiani. I dintorni della solitudine, di Nazario Pardini
ALLA PAG. 172 DELLA RIVISTA "IL PORTICCIOLO" ANNO XII-N° 4-DICEMBRE 2019 |
Che cos'è la
"solitudine"? può avere dintorni
la solitudine? Non nel senso in cui viene di norma intesa. Quando un uomo è
solo, o tale si sente, non ha nessuno intorno,
tantomeno se stesso, e niente, ma proprio niente, lo può confortare. Ebbene, la
poetica pardiniana ha e promuove un'idea diametralmente opposta di solitudine:
una solitudine non intimistica o crepuscolare, ma una solitudine che è afflato
cosmico e intensa compagnia. In primis,
compagnia dell'uomo con se stesso, con il proprio mistero, ma poi con tutto un
mondo (visibile ed invisibile) che con lui è in empatica relazione. Un dialogo
incessante con la terra, con il cielo, con il mare, nonché con altri uomini,
viventi o scomparsi, con cui lui ha stabilito legami. Un panismo struggente, un
sentimento di fusione con tutto il vivente: "Mi sposto, e vado a
miscelarmi / alla furia spaventosa della foce" (La piena del Serchio).
Un vero e proprio animismo,
una polifonica armonia in grado di accogliere ogni voce del creato. Si legga Piccioni, un inno alla natura libera e
selvaggia, alle sue creature umilissime "che hanno solo l'istinto",
una sapienza infallibile che le rende padrone di se stesse e del loro destino.
Tutto è vivo ed armonico in natura, dove perfino gli oggetti hanno un'anima. Il falcione, ad esempio, che se ne sta
lì, "fra le miste ferraglie di cantina", ed è "senza voce: una
bestia ferita", finché il poeta lo trasporta in cortile, "all'aperto,
fra i richiami / di paperi e galline", e gli sembra che torni ad essere
felice. E quanta tenerezza nell'aratro che, triste per esser finito "fra
aggeggi logorati", rimpiange i tempi della sua giovinezza e "vorrebbe
tanto il ventre di sua madre". Un vitalismo travolgente e festoso, ma al
tempo stesso dolente per il mistero di morte intrecciato all'urlo di vita
dell'intero creato.
E quando giunge
l'autunno, e la melanconia si estende per la morente stagione, il poeta osserva
con tristezza il "sudario di languore e di morte" che avvolge ogni
cosa, ed è colto da un interrogativo lancinante: ci sarà la rinascita, oppure
tutto finirà irrevocabilmente in un Nulla nefasto e mortale? "... Questo
autunno / ha un cielo nuvoloso e non promette / sereni panorami. Spunteranno /
i nuovi bocci chiusi dentro l'anima / dei rami sonnolenti? / Niente dicono. /
Protetti dalle scorze delle rame, / sanno solamente della morte / di quelli
spersi dentro la foresta". Può sembrare perplessità, esitazione,
incertezza, ed invece è certezza della natura duale ed armonica di tutte le
cose. Amore e Morte, Eros e Thanatos, si rincorrono e si resta in
apnea di fronte al mistero dell'equilibrio universale, che dà e toglie a suo
piacimento ogni dono.
Pandoro, il cane
fedele che continua ad attendere il padrone scomparso, dopo anni, alla fermata
della corriera, mostra di avere una fede incrollabile in questo mistero: "Per
lui ad ogni arrivo era una festa, / ed è convinto che lo rivedrà. / Non molla.
/ Ogni giorno, alla stessa ora, / Pandoro te lo vedi lì davanti / con lo sguardo
fisso alla corriera". Negazioni e affermazioni fanno parte allo stesso
titolo di quel mistero di armonia, dove limitato e illimitato occorrono l'un
l'altro ed il senso della precarietà si sposa con quello della pienezza e
dell'assoluto. Una poetica fondata sull'armonia dei contrari, che è poi la
filosofia dell'assoluto, la filosofia del tutto
che necessariamente accoglie tutto nel suo abbraccio, finanche il suo
contrario. Ed è la filosofia della natura, pronta ad abbracciare i più
dissonanti contrasti in un progetto unitario di armonia.
Un realismo
vivacissimo, una coralità che sconfessa quanti tendono a definire intimistica una poetica così lontana dai
clangori delle sferraglianti metropoli, produttrici - quelle si - di isolamento
psichico, di solitudine estrema, di chiusura dell'uomo in se stesso e di intimismo radicale. Ma non si pensi di trovare,
nella poetica di Pardini, il benché minimo accenno polemico nei riguardi del
mondo tecnologico. Nessun astio, nessun rancore ideologico nei confronti dei cosiddetti
paradisi artificiali, la cui negatività, semmai, è risolta in positivo, come
contraltare necessario per dare risalto all'esuberante umanità della terra in
cui l'autore vive, come di tutte le terre non ancora pesantemente contaminate
dai miasmi della globalizzazione: "Vieni a trovarmi, caro forestiero, /
vive da me ogni palpito di storia, / ... / Vieni a trovarmi nella mia Toscana"
(Vieni al mio paese).
Non tutto il mondo è
megalopolitano e la sola cosa che conta per un poeta - come per chiunque - è di
credere in se stesso e nel mondo in cui vive. Sprofondato in quelle radici, che
ama e canta da sempre con passione sconfinata,
Pardini non mostra risentimenti nei riguardi di un mondo appeso ad opposti
valori, dai quali non avverte minacce e i cui risvolti poetici, qualora non
effimeri, egli non ha mai mancato di incoraggiare nella sua lunga e feconda
attività di critico letterario. Sa benissimo, Nazario, che tutto concorre a
formare il mosaico universale, in quella complementarità degli opposti che è la
filosofia stessa del creato, filosofia di cui il suo animo è profondamente permeato.
Semmai l'intolleranza è perseguita da un certo modernismo ideologico che tende
a costruire steccati, forzando oltre misura la giusta istanza di ricerca di
nuove formule espressive.
Chiunque conosca
Pardini, sa che egli difende strenuamente la soggettività del fare artistico contro chi pretende di insegnare
una volta per tutte i veri ed esclusivi canoni dell'arte e della poesia. Se si
crede nella singolarità dell'esperienza creativa, non si può credere nella
dogmatica oggettività di regole già date. Non sto difendendo, sia chiaro,
l'assenza di regole in poesia. Le regole devono esserci, ma sono squisitamente
personali. Ogni poeta ha le proprie e le scopre solo lavorando. Non sono un
vestito preconfezionato, le regole, perché l'unico vestito della poesia è la
nudità con cui essa viene alla luce. Sembrerebbe anarchia e pressapochismo a
buon mercato, ma non è così, giacché il soggettivo
di cui qui si parla non è altro che lo spirito
profondo, individuale e universale a un tempo, e non certo il capriccio o
lo psicologismo sfrenato.
Ogni poeta ha la
propria maniera. Il brutto è
codificare, trasformare in manierismo qualsiasi
maniera. La maniera di Pardini ha un nome specifico: tradizione, ma occorre chiarire che non c'è nulla di meno codificabile,
di meno sclerotico e di meno antiquato della tradizione. Tradizione non
è conservazione. Fra i due termini
corre una distanza incolmabile, la stessa che corre fra mitopoiesi e mitologia. La
tradizione è viva e molteplice, la conservazione è monocorde,
cristallizzata. La tradizione è
creativa, la conservazione è reazionaria.
Non a caso il ribelle Pasolini poteva scrivere: "Io sono una forza del Passato. / Solo
nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d'altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le
Prealpi, / dove sono vissuti i
fratelli" (da Poesia in forma di rosa, Garzanti 1964).
Non la mummificazione, ma il rinnovamento è la
peculiarità delle radici. Non ciò che si
tramanda passivamente nei secoli è tradizione,
ma ciò che rinasce nei secoli da ogni annullamento, da ogni arresto, da ogni
distruzione. Un mistero insondabile. Tradizione
è ciò che muore e si rinnova ad ogni generazione, come il fogliame dai rami
stecchiti, come i frutti dai disfatti semi. Tradizione è l'immutabile che rivive in ogni mutazione: l'humanitas di sempre, l'essenza stessa dell'animo
umano. E' l'eterno presente, l'illo tempore del mito, l'attimo sacro
delle origini, perennemente attuale. E' questo il Memoriale di cui parla
Pardini: non un arido esercizio mnemonico, un insignificante mandare a
memoria. Piuttosto un filtro coscienziale, un ricordo di esperienze vissute
e dimenticate che affiorano decantate dalle acque dell'oblio per illuminare di
nuovo e sempre il cammino. Una purificazione.
Nella mitologia
greca Lete e Mnemosyne sono strettamente abbracciate tra di loro. Esiodo, nella
Teogonia, presenta le due divinità
come gemelle inseparabili, antitetiche e complementari. Per lo stesso Platone,
nel mito di Er, la dimenticanza è
considerata premessa indispensabile per ogni rinascita. E sempre nella
mitologia, Lete, è anche il nome di un fiume degli Inferi, la cui acqua,
bevuta, concede ai defunti il dono di dimenticare la vita precedente per
disporsi a rinascere in un corpo nuovo. Questo, a mio parere, è il vero
significato del Memoriale in Pardini.
E' il vissuto che attira a sé e ingoia
nelle sue spire, ma che sempre restituisce vita e prepotentemente spinge a vivere
e a vivere ancora. Vissuto sempre inconcluso,
attraverso cui torna e ritorna la potenza imperitura dell'amore e del principio
vitale.
"L'ultimo
autunno che vivremo assieme / sarà per impolparci dei colori / della nostra
stagione. Verrà il mare / con le sue inquiete onde a raccontarci / storie di
antichi approdi; a suonarci / ottobrine romanze. Stai con me. / Sarà bello
abbracciarsi; sarà di nuovo bello / confondersi coi lampi di una fine, / come
lo era, / coi fremiti nascenti delle fronde" (L'ultimo autunno). Memorie non chiuse in soffitta, ma da vivere e
rivivere ancora. Se così non fosse, sarebbero nient'altro che gabbie mentali, i
ricordi, un limbo dove andarsi bolsamente a rifugiare. Tutto ciò è detto
magistralmente nella poesia Il fiore:
anziché coglierlo, il fiore, e in tal modo farlo morire, lasciamolo
in vita ed accettiamone la morte naturale, foriera di altre primavere: "Mischiamoci,
non temiamo la morte! / Bagniamoci del pianto, / intingiamoci nel sangue".
Soltanto così potrà
rinascere, quel fiore: "... Arriverà / profumo d'erba nuova / a riportarci
al fiore, / a respirarne l'odore selvaggio, / il capriccio d'amore. / E sia
motivo / per scoprirci di nuovo e non ricordo, / solo ricordo di una
primavera". Questo è il Memoriale per
Nazario Pardini. Non un limbo di ricordi dove cercare sollievo, ma un angolo
dove scoprirci di nuovo e così
tornare a vivere e a soffrire, a lottare e ad amare. Non fuga dal mondo, bensì
radicamento nel mondo, uno stare hic et
nunc, a combattere realmente, lontani dalle ribalte, senza retorica e senza
ruota di pavone. I timidi "sono
quelli laggiù, in fondo al gruppo: / ascoltano, / e lasciano parlare gli
oratori. / ... / Sono quelli che amano di più, / magari di nascosto, / e se lo
tengono dentro / per paura di essere scoperti". Questa folla anonima non
firma la storia con atti memorabili,
ma è l'unica a vivere degnamente la vita.
Il tema è ripreso e
sviluppato in Dialogo, un confronto fra la Storia e Leonida, fra celebrità e
anonimato, fra l'agrodolce autenticità e la megalomania violenta e sfrenata. La
poesia di Pardini ha matrici fantastico sentimentali, ha radici in un cuore che, se spesso propina illusioni,
sa comunque restare profondamente legato al reale. C'è su questo punto un'interessante
e amabile ambiguità. Il Nostro, infatti, rispetto a Leopardi che non ha dubbi
sul carattere illusorio (sia pure indispensabile) della fantasia, conserva
quell'interrogativo fecondo che gli fa dire: "Ma ero vivo? / o dentro me
costruivo una coscienza / che non aveva a che fare col reale?" (Verso la luce). Sta qui la natura
"binaria", genuinamente interrogativa di questa poesia, consapevole
che nel sogno c'è tutto: l'illusione senz'altro, ma anche la verità.
Verso la luce è il titolo del poemetto finale: una sorta di viaggio astrale, al di
fuori del corpo, dove l'autore aggancia persone scomparse (il babbo, il
fratello, un amico) che si soffermano a dialogare amabilmente con lui. Finché
una ninfa, Silva, lo avverte: "Tu non puoi, / umano fra gli umani, stare
qui / a gioire delle bellezze eterne / ... / Quello che vedi è fumo". Silva
svanisce e una voce invita il poeta a tornare al reale, alla vita concreta,
unico luogo dove è possibile coltivare la luce dell'innocenza. La verità sta
dentro di noi, non possiamo fuggire da noi stessi nell'illusione di poterla trovare
altrove. Vivere da umani, con fedeltà piena all'umano, è l'unica via
percorribile che abbiamo: "forse non era luce, / forse non era / quella
che io bramavo, / ma pur sempre la luce, quella chiara, / quella di casa mia. /
Chi dice che non fosse / quella che io cercavo". Un programma decisamente
antiorfico, direi
Franco Campegiani
Nessun commento:
Posta un commento