Maria Grazia Ferraris,
collaboratrice di Lèucade
La
vita della parola, di Bonifacio
Vincenzi, ed. Macabor, 2020
La
parola è vita, la poesia è vita. “Non
conosco altra vita se non nelle parole” dice, con la sicurezza di chi ha molto
pensato, l’Autore, meditando sul tema più generale e filosofico del dire poetico. E mentre ricordiamo, diciamo,
riscriviamo, confondiamo luci ed ombre e consumiamo le nostre parole
disconoscendone spesso il peso e la forza, l’ambiguità labirintica.
Viviamo con i nostri dubbi, le nostre incertezze, le nostre attese
letargiche, i nostri limiti, in un connubio mai del tutto chiarito di reale e immaginario, virtuale, come in modo
molto efficace B. Vincenzi scrive:
“ No,
l’insidia non è/ nella luce ma in questo buio/ che non riconosce neppure il
nero/ dove io vivo con tutte le mie vite” (Non è la voce che torna). Questo è
il tema più significativo della prima parte della silloge di B. V. che porta il
titolo sommativo ed esplicativo ad un tempo, ed in un certo senso catartico di
“La vita della parola”.
È
contemporaneamente ricerca di luoghi e di tempi: quelli della gioventù
passata, del tempo in fuga,
dell’apparire di contro all’essere, scelto come difesa del proprio esile io in
costruzione, delle emozioni fuggite, dei ricordi, nella distanza, che sanno
tradire: virtuali come le effimere immagini vuote che fingono dolori immaginari
e pianti nella rete, poiché “ che il tempo non esista lo sanno/in pochi; tutti
gli altri recitano la loro parte/ cancellando giorni da un calendario” (Che il tempo non esista…), dimentichi della
realtà, dell’autenticità della sofferenza, ciascuno per sé, in un gioco demente
ed infernale, credendo di aver saldo in mano il proprio timone e ignorando il
buio abissale nel quale ci rifiutiamo di guardare, tutti presi dalla
quotidianità furiosa, dalle conquiste fasulle, disincantati, dimentichi dei
sogni, ed infelici. L’esserci, come dice il filosofo, non è semplicemente nel
tempo, ma il tempo è piuttosto il senso dell’esserci.
La
seconda parte, dal titolo Un soffiare di vento gelido nell’aranceto, un
bel titolo metaforico e suscitatore di emozioni profonde, si dipana
problematicamente intorno al tema del silenzio e del vuoto – l’alto aspetto
della parola che cessa di essere comunicativa- e sviluppa la parte filosoficamente più impegnata della
silloge. Nessun stupore, l’autore esce dall’ovvio descrittivo e paesaggistico e
si cimenta abitualmente con la riflessione filosofica. Ne sono una prova i
versi finali delle composizioni che nella loro sentenziosità, frutto di
sofferta meditazione, ci offrono la chiave interpretativa di questa originale
poesia, come nella lirica che apre la sezione:
“I luoghi, i tempi, l’esistenza/ inafferrabile, la sofferenza. Una rete
gettata/ intorno…/ il passato in agguato. Non si sfugge al delirio/ intorno al
vuoto. Non si sfugge alla scomparsa/ e alla sua attesa”, scelta di nuovo
riconfermata: “ il mondo era una narrazione errante in cui si/ contemplava il
nulla riempiendolo di presenze già/ promesse all’assenza” ( L’agonia d’amore
dei gatti) o nella lirica conclusiva “ Si poteva invecchiare anche rimanendo
seduti/ al tavolino del solito caffè” ( Da un’assurda circostanza nacque il
gioco).
Davvero
siamo ammessi con circospezione ed attenzione nel diario di un “fuggiasco che
crede più al silenzio della parola”, che alla parola che si banalizza,
distrugge, si annulla, diventa slogan per il gregge. Il silenzio protagonista,
inteso come respiro tra i suoni, tra le parole…Uno spazio tutto interiore da
ricercare con cura: la solitudine come ricerca è legata al silenzio; recepisce
la parola definitiva e prova a conservarla senza che svanisca, affinché possa
permanere, non entrare nella catena della parole umane quotidiane che si
susseguono le une alle altre, irrisolte…. Esiste infatti anche la moltitudine delle parole che hanno
perso la qualità, il peso e quel minimo di silenzio evocativo necessario a
sostenerle e a farle apparire; una moltitudine che può trasformarsi in un
esercito in marcia, ma senza una meta. Il silenzio: «intensità di essere»
rispetto al mare delle voci. “L’uomo vive a metà strada tra il mondo e il
silenzio da cui proviene e il mondo dell’altro silenzio verso cui si dirige,
quello della morte”, dice il filosofo: paradossalmente, l’unico modo per
colmare questo vuoto è il silenzio, che è a volte più forte di ogni rumore.
Riflettendo
sul tema il filosofo Adorno scrive: “l’arte ha bisogno della Filosofia, che la
interpreta, per dire ciò che essa non può dire e che però può esser detto solo
dall’arte, che lo dice tacendolo”. Ecco il paradosso che il nostro poeta sa ben
cogliere e coniugare. Si pone così il tema intrigante e doloroso del rapporto
del silenzio che pur parla e della vita che tace. La filosofia ha bisogno
dell’arte per poter parlare… “deve sfidare l’abisso ontologico che separa la
parola, cioè la struttura che materia e articola il pensiero, dalla realtà”.
“Del
«vuoto» che sta dentro e fuori tutte le cose è difficile dire, che cosa si può
dire se non niente?” Il linguaggio umano
può trattare soltanto delle cose piene, non sa trattare delle cose vuote. In
realtà, quando l’arte ci parla del «vuoto», ci inganna, perché noi parliamo
sempre delle cose piene. E allora l’arte è costretta a chiedere aiuto alla
filosofia perché illumini questo tratto e
gli eventi si susseguono come assenti, manifestano la loro implacabile provvisorietà che può sconfinare perfino
nella crudeltà…
La
terza parte della silloge-La memoria dell’assenza- è dedicatala padre.
Ad essa l’Autore ha dedicato ben tre anni di lavoro, alla ricerca della
faticosa elaborazione del lutto e alla metabolizzazione della scomparsa.
È
interessante notare che pur poetando di una situazione affettiva del tutto personale l’Autore non si abbandona al
sentimentalismo e non perde di vista le coordinate interpretative che ci ha
offerto nelle due sezioni precedenti: il tema del nulla “Solo uno spasmo di
nulla/ recita il dolore e il suo trionfo” ( Chiedo al sentiero degli ulivi),
“…la vita non comprende/ la memoria dell’assenza” (Uno strano livore); del
silenzio: “… Spegnevi ogni parola col silenzio/ già attratto dall’assenza..” (
Mi distingue la consapevolezza )...; del vuoto: “ Tu/ incerto ricordo
acquoso/non parli./ ..inseguo il sasso/ lanciato da te/ nel vuoto ( Foglie
arrugginite) … e “finalmente ti ritrovo/
dietro le parole mai dette ( Le cose che saranno). E alla fine il dolore si
scioglie in un canto di elegia, di abbandono, musicale, che riconfermando i
temi che gli sono cari, sfocia nell’attesa ansiosa di un “prodigio”, quello
quotidiano della presenza che il ricordo, ancor palpitante rende credibile:
“Potrei
innalzarmi/ dall’inesorabile bianco/
della pagina/ e sciogliere l’enigma/ muschiato del ricordo./ Ma resto
fermo/ in attesa di un prodigio./Sotto il noce/ la tavola imbandita/ e tante
sedie intorno.” ( Scrivo di te ancora). La vita della parola. La memoria
dell’assenza: poesia carica di sentimenti autentici, pensosa e struggente.
Maria
Grazia Ferraris, aprile 2020
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