Mirella Crapanzano. La fragilità del bruco.
2020
ogni cosa avviene
è una sera rossa dai petali accesi
che sgrana lentamente le sue ore
una sera di maggio senza fretta
in contrasto col vociare dei bambini
che si rincorrono in giardino
col verde impettito all’arrivo della
pioggia
una danza ipnotica che scorre sulle
punte
ruota come i dervisci spiega l’amore
che Dostoevskij scrive -
quell’intreccio
di sguardi inaspettato tra te e un
altro
assolutamente estraneo dove non
servono parole
è una sera che non si ripete
dove appaiono graffiti colorati
sui vecchi muri abbandonati del
quartiere dove finisce il limite e
ogni
cosa avviene così semplicemente
sotto la magnolia sostiene la mia
casa.
Iniziare da questa poesia testuale
significa penetrare da subito nelle strategie emotivo-strutturali della poetica
di Mirella Crapanzano; nel suo mondo fatto di creazioni improvvise, di
invenzioni formali che ne tratteggiano la caratteristica principale: il volo;
le ciel est par-dessus le toit direbbe Paul Verlaine, quel cielo verso cui è
diretta la fantasia poetica della Nostra per ovviare alle aporie del
contingente; eccoli gli apporti creativi: una sera
rossa dai petali accesi, una sera di maggio senza fretta, col verde impettito
all’arrivo della pioggia, una danza ipnotica che scorre sulle punte, ruota come
i dervisci spiega l’amore, graffiti colorati sui vecchi muri abbandonati del quartiere,
ogni cosa avviene così semplicemente. Una successione di slanci iperbolici,
di sinestetiche invasioni, di novità sonore con cui la poetessa cerca di volare
ricorrendo a fragranze di lessemi che ci lasciano storditi. Due le
occasioni interiori scatenanti: la
fragilità, e lo slancio verso la bellezza, il superbo. E non è forse ciò che
riguarda la natura dell’uomo, del suo vivere, del suo esserci? L’uomo è cosciente della sua fragilità, della
brevità del cammino, ma tenta in ogni modo di staccarsi da tale impedimento con
uno slancio verso la perfezione, verso l’approdo alla bellezza della farfalla,
ciò che più l’avvicina all’inarrivabile. Il fatto poi che la poetessa faccia
poesia trascurando interpunzioni di tradizione sintattica, è la dimostrazione
che il suo ingegno è cotto a puntino per tradursi subito, con immediatezza; per
trasferire il suo patema in corpi
lessicali prima che tale ispirazione perda il fuoco generatore. Poesia agile,
snella, ontologicamente vicina agli input emotivi, dove l’autrice cerca di
trovare le latebre del suo esistere, gli angoli più nascosti del suo essere. Il
diagramma oscillatorio della versificazione, spesso endecasillabi e versi di
minore o maggiore quantità metrica, sta a convalidare i sobbalzi di un’anima
tutta presa da una ricerca di stile, di umana convalida connotativa. Ibi omnia
sunt, c’è la vita col suo carico di vicissitudini: emozioni, tempus fugit,
speranze, abbandoni, riflessioni sul fatto di esistere, ma soprattutto
inquietudine umana. Il tempo fugge come tutte le cose del mondo, e la poetessa vorrebbe farle sue le immagini
che l’attorniano, vorrebbe essere
padrona di una storia che mostra tutta la sua riluttanza. Vorrebbe costruire
una relazione con quel tutto che la contorna, anche se è con esso, coi suoi
segmenti visivi, che costruisce il suo linguaggio. La sua è una vera ricerca
spirituale, un vero affondo psicologico tramite cui poter trovare l’essenza
della vita. Vivere è un po’ morire. Cotidie morimur, afferma Seneca. Ma la
poetessa semmai cerca i punti focali che condizionano il suo cammino. La
memoria affianca questa bella poesia, la impreziosisce, la contorna di figure
che purtroppo si sono mutate in ombre che l’accompagnano nel triste viaggio della
vita. Un vero viaggio in un mare non sempre tranquillo; in un mare costellato
di scogli e trabucchi che ostacolano e fanno da impedimento al prosieguo. La
poetessa affronta la sua storia con animo sereno e vòlto a raggiungere il porto
di un’isola che forse non esiste. Basta
essere in possesso della voglia di
andare, di navigare, anche con un asse scampato al naufragio, questo conta.
E l’autrice è intenzionata a raggiungere
con ogni mezzo quell’isola, quella che è nella sua mente. E lo fa con una barca carica di verbi di assoluta novità
lessicale; di fonemi e lessemi che la rendono unica, capace di proseguire,
visto che la natura, con tutta la sua forza simbolica, l’aiuta non poco; dato
che attraverso figure retoriche di ampio valore significante, la arricchisce di
un tono verbale di assoluta novità epigrammatica e formale. Sì, perché la
padronanza di un verbo dalle callide iuncturae aiuta molto a rifinire un percorso di indagine e di
analisi. E’ proprio con una parola nuova, pregna di ampie tessiture fonemiche,
che Mirella Crapanzano riesce a indagare il mondo che l’attornia per scovare
ciò che è nascosto. Un‘indagine che Ella persegue con tutti i mezzi che le sono
propri: circolarità del verbo, andata e ritorno sui passi del poema, viaggio
umano e troppo umano, storia di un’anima volta a perseguire un vero troppo
lontano dai nostri desideri. Quello che conta è continuare a scrivere, a
partorire parole, a meravigliarsi di fronte ad improvvise invenzioni, inattese,
inaspettate. Sta nel verbo, nei contenitori lessicali il cuore del nostro
messaggio. E forse è proprio leggendo le nostre confessioni non è detto che non
scopriamo quella verità di cui andiamo in cerca. Compatto è il tutto, una grande sinergia tra
sentire e dire costituisce il valore aggiunto di questa silloge, netta, pulita,
franca per architettura lessico-fonica e umana valenza speculativa.
Mi piace ultimare questo mio scritto riportando una
pericope della prefazione di Franca Alaimo:
“…Anche questo lavoro della Crapanzano ubbidisce ad una idea poematica
per compattezza e di contenuto e di stile, pur nell’intrecciarsi molteplice di
motivi e sfumature percettive che sorprendono e meravigliano. Da questa lettura
si esce col cuore mutato, perché, come scrive lei, “l’inatteso si coglie al
passaggio/ dell’ ignoto al riverbero di un sogno”.
Ed è proprio nella malinconia di
un colore, nel palpito delle aiuole
fiorite, che Mirella Crapanzano ritrova se stessa, il suo mondo spesso trafitto
da irrequieti pensieri che danno alimento al suo canto.
la malinconia del rosso
sopravvengono le nubi
a formare la malinconia
una fuliggine nella pupilla
un movimento inusitato
sopra le cose costringe
a colmare l’assenza dentro
ci sono aiuole fiorite e sentieri
che conosco fin da piccola
l’istinto mi guida a un cespuglio
di sole consola del muschio sulla
corteccia e lì appoggio la fronte
pronuncio il mio nome e ascolto
tutto il paesaggio intorno è carta
di frontiera da reinventare
Nazario Pardini
L'immenso Nazario ha dedicato alla Silloge "La fragilità del Bruco" di Mirella Crapanzano una simile disamina, che ogni parola sarebbe inutile. Posso solo asserire che le due liriche postate mi sono apparse di un respiro così grande da trascinare in altra dimensione. La natura, tanto offesa da noi uomini, regna sovrana nei versi dell'Autrice e sembra frontiera, riparo dalle storie che si svolgono nel 'paesaggio di carta', che la circonda. Immagini vibranti, dense di pathos e di allegorie dolci, mai sanguigne, che toccano l'anima. Il nostro Nazario ha messo in evidenza i punti salienti dei versi della Poetessa, lo ringrazio, gli rivolgo il mio plauso ed estendo l'ammirazione alla signora Mirella, che merita una pagina così intensa. Mi permetto di abbracciarli entrambi!
RispondiEliminaSono molto onorata e felice di poter essere qui, su quest'isola di grande poesia, e con una bellissima recensione di Nazario Pardini al mio libro! Sono grata e non posso che ringraziarlo ancora con tutto il cuore per avermi dedicato tanta attenzione.
RispondiEliminaUn grazie sentito anche alla signora Maria Rizzi per il gentile commento.
Mirella Crapanzano