Nazario Pardini “ Alla volta di Lèucade” Prefazione di Vittorio Vettori. Postfazione di Floriano Romboli. Editrice Mediterranea. Finito di stampare all’inizio del Terzo Millennio.
Carmen Moscariello, collaboratrice di Lèucade |
Magnolia d'autunno[1]
Poi l’estate svanisce e passa, arriva ottobre. Si fiuta
l’umidità, si sente una chiarezza insospettabile, un brivido nervoso, una
felice esaltazione, un senso di tristezza e di partenza.[2]
Che cos’è
l’autunno per un poeta? Che cos’è l’Autunno per il Poeta Pardini ? Fin dalla Poesia
più giovane, Egli ha creato versi, per
certi aspetti, evanescenti, avvolti dai ritmi
coraggiosi di oltrepassare la nebbia. Una ricerca mai soddisfatta di una
vita che abbia, fino in fondo, o meglio ,fina al gradino più alto, un senso.
Quando leggo i suoi versi penso a certi quadri
di Van Gogh, mi riferisco in particolar modo a un Autoritratto, quello a
tempera segnato e scavato dalla spatola del 1887, forse l’unico in cui non è
rappresentata nello sguardo la follia, qui gli occhi esprimono una poetica lontananza, una malinconia dell’impossibile. Altro elemento importante
nei versi di Pardini, come nell’Autoritratto, sono i segni materici che non nascono dai pennelli, ma dall’uso
accorto di un punteruolo. Né è difficile cogliere una tridimensionalità della
scrittura, soprattutto nelle descrizione dei paesaggi, che sono una costante
dei suoi versi. Mi è sembrato che definirli descrittivi fosse un grande limite,
né possiamo chiamarli pascoliani, se solo pensiamo a “L’autunno “ di Pascoli.
Sembrerebbe all’inizio che “l’attacco” sia proprio quello di Pascoli, ma
Pardini non si contenta di un lancio epigrammatico e basta, egli ama l’affondo
che è conoscenza, che è sapienza. Questa è una radice importante della sua
cultura classica e di grande conoscitore dei testi latini e greci. Quello che
ho detto non si intende come “attingere” dagli antichi. Nei suoi lunghi anni di
studio, grazie a quelle radici, ha saputo maturare una tecnica linguistica che
si è ampiamente inzuppata della sua malinconia. Ci riferiamo all’eleganza, alla
finezza nel costruire poesie. Come se esse fossero opere architettoniche con
colonne ioniche che dovranno durare per millenni.
Vogliamo soffermarci anche su una costruzione tridimensionale
della poesia di Pardini (Come Dalì nel
quadro Mediterraneo), se pensiamo a
quest’opera del Pittore e la guardiamo frontalmente, si vede la sua donna dipinta
di spalle, nuda, che guarda il mare, se,
invece, quel quadro lo guardiamo di notte con gli occhi dal basso verso l’alto
ci appare prepotentemente il fuoco di una croce e, poi, ancora, da altre
angolazioni e proiezioni di luce ,si può scorgere chiaramente il viso di Abramo
Lincoln. E, così è per il Poeta Pardini:
quella, che apparentemente può sembrarci
una poesia classica che ci apre a ventaglio “ Le stagioni”, in verità ha
compiuto grandi spirali, vere e proprie volute
palladiane, non dissimili da un capitello ionico. Dunque attua nella lingua,
come nei molteplici contenuti, una grande rivoluzione ed evoluzione. Infatti se in una poesia
sembrerebbe che ci parli del mare o del suo passato, si colgono, invece , anche percorsi meditativi da
scandaglio su più superfici, quali la natura, l’anima, il ricordo, la tensione
di un amore non vissuto , così come accade in “ Gala mirant el mar”(1974-76).
Il poeta è
sempre rivolto al suo passato bucolico, con forti passioni, anch’egli, lo
troviamo spesso a mirare il mare, mentre
la sua volontà tersa, come una
spatola, incide nel paesaggio con
l’unico scopo di lasciare un filo d’Arianna alla sua anima. E’, quello della
Poesia di Nazario, un percorso terso e , nel contempo, accidentato. L’eleganza
della sua parola nutritasi alle fonti di Apollo e di Calliope, non fa che esaltare
quel senso accidentato della vita, morso da una precarietà dannata. Un destino
accovacciato sulle nostre porte, pronto a toglierci tutto, anche la vita. Nella
straordinaria prefazione di “Alla volta di Lèucade” che porta la firma di uno
dei più importanti degli intellettuali- poeti pisano- fiorentini ,che certamente ha
conosciuto personalmente il Poeta, avendo soggiornato a Pisa per molti anni, mi
riferisco a vittorio Vettori, il grande critico-poeta scrive e titola la prefazione ,fondendo in modo
originale e inappuntabile, la grandezza signorile e solitaria di Pisa con
quella del Poeta, nato da “Quel che resta di una solitudine” (e di un impero),
riferendosi in particolare agli scritti sulla città imperiale di Rudolf Borchardt
[3], ma
soprattutto lo pone le parole dello scrittore tedesco all’ incipit dell’introduzione, per
l’accomunamento di studi con il Pardini, in quanto Borchardt aveva le sue
radici negli gli studi di scienze antiche che
aveva compiuto all’università di
Bonn e di Gottinga. L’anima del Pardini
è talmente permeata della cultura classica che la sua scrittura anche quando
diviene oggettiva, agreste, contadina, non ha cadute , continua come un brano
di Brams senza iato in un concerto di involucri di violini, così bene intonati
che, a volte, durante la lettura dei suoi testi, mi sono chiesta se non stessi leggendo Omero o Sofocle, o
ascoltando l’arpa del Tiaso sull’isola di Lesbo. Insomma la sua scrittura è
eleganza, ma mai freddo estetismo, è musica, ma di quella alla quale era educato
l’orecchio di Holderlin, prima di impazzire. Non cito a caso Holderlin e il suo
impazzire, sappiamo che il grande Poeta tedesco, da me molto amato, quando si
accorgerà che di quella somma arte dell’armonia,
nella Grecia moderna se ne era persa
ogni traccia, egli impazzirà. Quello che voglio dire è che il Poeta in
solitudine ha occhi bene aperti sul mondo, anzi la sua conoscenza è
sapienziale, se ne sta da parte, ma ha
creato la sua isola di Lèucade, dove fa approdare solo le navi o le
navicelle che ritiene degne. Credo che lo stesso miracolo culturale e poetico
di “Lèucade” che il Poeta cura come un innamorato, sia un ennesimo trinceramento, in spazi dove poter vivere vite molteplici e
attese sublimi, lontananze o vicinanze, di un’antica malinconia che scandisce i
suoi versi.
In nessun poeta , come in Nazario Pardini, il
dualismo vita-morte, questi due estremi, vengono, simmetricamente, direi
matematicamente, divisi e, sempre, nel contempo, presenti, anzi fin da giovane,
permane quella sottile essenza della morte, nemmeno tanto invisibile. Ritornando alla prefazione di Vittorio
Vettori, passando tra gli Epilegomini su Dante (1923) di Borchardt, con tutta
l’infinita stima e ammirazione che nutro per le opere di Vettori , credo che lo
spirito pisano del grande Poeta sia solo un aspetto, una configurazione
immediata: nel profondo del puzzle c’è un’anima antigonea, un ribelle della
sorte, uno che conosce il male e lo disdegna come la peste di questi nostri
giorni drammatici. Con questo non voglio dire che la prigione di Antigone sia
quella del Poeta, credo sia quella di molti di noi intellettuali, che non ci
sentiamo di appartenere ad un tutto estraneo alla nostra anima. Voglio dire con
queste mie considerazioni che non ci dobbiamo lasciare incantare solo dai versi così unici e straordinari di Pardini,
che racchiudono senza ombra di dubbio tutta l’eleganza e l’armonia, certamente
anche la bellezza che cercava Holderlin nella Grecia antica, oltre quella
(certamente rara e importante), insisto su una verve, che in altri tempi mi ha
fatto pensare a un a poesia “decadente”,
crepuscolare, autunnale, aspetti anche questi presenti, ma bisogna guardare a
“quest’angelo che guarda il passato”[4] anche
con altri presupposti , non possiamo dimenticare anche la sua saggezza che gli
viene dalla terra di suo padre che lo rende uomo attento che sa creare netti
spartiacque tra l’isola di Lèucade e quella che è davvero la vita. Vita amata e
temuta da quell’angelo della malinconia,
che sembra sussurrargli all’orecchio
tutta la nostra precarietà.
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