venerdì 19 marzo 2021

CARMEN MOSCARIELLO LEGGE: "ALLA VOLTA DI LEUCADE" DI NAZARIO PARDINI




Nazario Pardini “ Alla volta di Lèucade” Prefazione di Vittorio Vettori. Postfazione di Floriano Romboli. Editrice Mediterranea. Finito di stampare all’inizio del Terzo Millennio.

Carmen Moscariello,
collaboratrice di Lèucade

 Magnolia d'autunno[1]

Poi l’estate svanisce e passa, arriva ottobre. Si fiuta l’umidità, si sente una chiarezza insospettabile, un brivido nervoso, una felice esaltazione, un senso di tristezza e di partenza.[2]

Che cos’è l’autunno per un poeta? Che cos’è l’Autunno per il Poeta Pardini ? Fin dalla Poesia più giovane, Egli ha creato versi,  per certi aspetti, evanescenti, avvolti dai ritmi  coraggiosi di oltrepassare la nebbia. Una ricerca mai soddisfatta di una vita che abbia, fino in fondo, o meglio ,fina al gradino più alto, un senso.

 Quando leggo i suoi versi penso a certi quadri di Van Gogh, mi riferisco in particolar modo a un Autoritratto, quello a tempera segnato e scavato dalla spatola del 1887, forse l’unico in cui non è rappresentata nello sguardo la follia, qui gli occhi  esprimono una poetica lontananza, una  malinconia  dell’impossibile. Altro elemento importante nei versi di Pardini, come nell’Autoritratto, sono i segni materici  che non nascono dai pennelli, ma dall’uso accorto di un punteruolo. Né è difficile cogliere una tridimensionalità della scrittura, soprattutto nelle descrizione dei paesaggi, che sono una costante dei suoi versi. Mi è sembrato che definirli descrittivi fosse un grande limite, né possiamo chiamarli pascoliani, se solo pensiamo a “L’autunno “ di Pascoli. Sembrerebbe all’inizio che “l’attacco” sia proprio quello di Pascoli, ma Pardini non si contenta di un lancio epigrammatico e basta, egli ama l’affondo che è conoscenza, che è sapienza. Questa è una radice importante della sua cultura classica e di grande conoscitore dei testi latini e greci. Quello che ho detto non si intende come “attingere” dagli antichi. Nei suoi lunghi anni di studio, grazie a quelle radici, ha saputo maturare una tecnica linguistica che si è ampiamente inzuppata della sua malinconia. Ci riferiamo all’eleganza, alla finezza nel costruire poesie. Come se esse fossero opere architettoniche con colonne ioniche che dovranno durare per millenni.

Vogliamo  soffermarci anche su una costruzione tridimensionale della poesia di Pardini (Come Dalì  nel quadro Mediterraneo),  se pensiamo a quest’opera del Pittore e la guardiamo frontalmente, si vede la sua donna dipinta di spalle,  nuda, che guarda il mare, se, invece, quel quadro lo guardiamo di notte con gli occhi dal basso verso l’alto ci appare prepotentemente il fuoco di una croce e, poi, ancora, da altre angolazioni e proiezioni di luce ,si può scorgere chiaramente il viso di Abramo Lincoln. E, così  è per il Poeta Pardini:  quella, che apparentemente può sembrarci una poesia classica che ci apre a ventaglio “ Le stagioni”, in verità ha compiuto  grandi spirali, vere e proprie volute palladiane, non dissimili da un capitello ionico. Dunque attua nella lingua, come nei molteplici contenuti, una grande rivoluzione  ed evoluzione. Infatti se in una poesia sembrerebbe che ci parli del mare o del suo passato, si colgono,  invece , anche percorsi meditativi da scandaglio su più superfici, quali la natura, l’anima, il ricordo, la tensione di un amore non vissuto , così come accade  in “ Gala mirant el mar”(1974-76).

Il poeta è sempre rivolto al suo passato bucolico, con forti passioni, anch’egli, lo troviamo spesso a mirare il mare, mentre  la sua  volontà tersa, come una spatola,  incide nel paesaggio con l’unico scopo di lasciare un filo d’Arianna alla sua anima. E’, quello della Poesia di Nazario, un percorso terso e , nel contempo, accidentato. L’eleganza della sua parola nutritasi alle fonti di Apollo e di Calliope, non fa che esaltare quel senso accidentato della vita, morso da una precarietà dannata. Un destino accovacciato sulle nostre porte, pronto a toglierci tutto, anche la vita. Nella straordinaria prefazione di “Alla volta di Lèucade” che porta la firma di uno dei più importanti degli intellettuali- poeti  pisano- fiorentini ,che certamente ha conosciuto personalmente il Poeta, avendo soggiornato a Pisa per molti anni, mi riferisco a vittorio Vettori, il grande critico-poeta scrive  e titola la prefazione ,fondendo in modo originale e inappuntabile, la grandezza signorile e solitaria di Pisa con quella del Poeta, nato da “Quel che resta di una solitudine” (e di un impero), riferendosi in particolare agli scritti sulla città imperiale di Rudolf Borchardt [3], ma soprattutto lo pone le parole dello scrittore tedesco  all’ incipit dell’introduzione, per l’accomunamento di studi con il Pardini, in quanto Borchardt aveva le sue radici negli gli studi di scienze antiche che   aveva compiuto all’università di Bonn e di Gottinga.  L’anima del Pardini è talmente permeata della cultura classica che la sua scrittura anche quando diviene oggettiva, agreste, contadina, non ha cadute , continua come un brano di Brams senza iato in un concerto di involucri di violini, così bene intonati che, a volte, durante la lettura dei suoi testi, mi sono chiesta  se non stessi leggendo Omero o Sofocle, o ascoltando l’arpa del Tiaso sull’isola di Lesbo. Insomma la sua scrittura è eleganza, ma mai freddo estetismo, è musica, ma di quella alla quale era educato l’orecchio di Holderlin, prima di impazzire. Non cito a caso Holderlin e il suo impazzire, sappiamo che il grande Poeta tedesco, da me molto amato, quando si accorgerà che  di quella somma arte dell’armonia, nella Grecia moderna se ne  era persa ogni traccia, egli impazzirà. Quello che voglio dire è che il Poeta in solitudine ha occhi bene aperti sul mondo, anzi la sua conoscenza è sapienziale, se ne sta da parte, ma ha  creato la sua isola di Lèucade, dove fa approdare solo le navi o le navicelle che ritiene degne. Credo che lo stesso miracolo culturale e poetico di “Lèucade” che il Poeta cura come un innamorato, sia  un ennesimo trinceramento, in  spazi dove poter vivere vite molteplici e attese sublimi, lontananze o vicinanze, di un’antica malinconia che scandisce i suoi versi.

 In nessun poeta , come in Nazario Pardini, il dualismo vita-morte, questi due estremi, vengono, simmetricamente, direi matematicamente, divisi e, sempre, nel contempo, presenti, anzi fin da giovane, permane quella sottile essenza della morte, nemmeno tanto invisibile.  Ritornando alla prefazione di Vittorio Vettori, passando tra gli Epilegomini su Dante (1923) di Borchardt, con tutta l’infinita stima e ammirazione che nutro per le opere di Vettori , credo che lo spirito pisano del grande Poeta sia solo un aspetto, una configurazione immediata: nel profondo del puzzle c’è un’anima antigonea, un ribelle della sorte, uno che conosce il male e lo disdegna come la peste di questi nostri giorni drammatici. Con questo non voglio dire che la prigione di Antigone sia quella del Poeta, credo sia quella di molti di noi intellettuali, che non ci sentiamo di appartenere ad un tutto estraneo alla nostra anima. Voglio dire con queste mie considerazioni che non ci dobbiamo lasciare incantare solo  dai versi così unici e straordinari di Pardini, che racchiudono senza ombra di dubbio tutta l’eleganza e l’armonia, certamente anche la bellezza che cercava Holderlin nella Grecia antica, oltre quella (certamente rara e importante), insisto su una verve, che in altri tempi mi ha fatto pensare a un a poesia  “decadente”, crepuscolare, autunnale, aspetti anche questi presenti, ma bisogna guardare a “quest’angelo che guarda il passato”[4] anche con altri presupposti , non possiamo dimenticare anche la sua saggezza che gli viene dalla terra di suo padre che lo rende uomo attento che sa creare netti spartiacque tra l’isola di Lèucade e quella che è davvero la vita. Vita amata e temuta da  quell’angelo della malinconia, che  sembra sussurrargli all’orecchio tutta la nostra precarietà.

Carmen Moscariello



[1] Rudolf Borchardt

[2] Thomas Wolfe

[3] Rudolf Borchardt (1877-1945)

[4] Thomas Wolfe

Nessun commento:

Posta un commento