LORENZO SPURIO; COLLABORATORE DI LEUCADE |
Gli sguardi sul mondo di Ester Cecere: immigrazione, povertà lotte civili, ambiente e dissacrazione dell’uomo contemporaneo
A cura di Lorenzo Spurio
del tuo mare l’umida sabbia
e delle tamerici la materna ombra!Ester Cecere |
Recentemente
ho ricevuto in dono le ultime pubblicazioni della poetessa e scrittrice
tarantina Ester Cecere, volumi ricchi di riflessioni, dai contenuti spesso
mossi da una forte tensione sociale e da una chiara impostazione solidaristica.
È il caso, in particolare, del volume Sguardi
che porta quale sottotitolo didascalico – utile per anticiparci quel che
andremo a leggere – “riflessioni e poesie della rivista Quaderni-Incontri per
Riflettere”. Si tratta, infatti, di un volume che appartiene alla Collana Wiola
delle Edizioni del Movimento Letterario-Artistico “UniDiversità” diretto e
coordinato dalla scrittrice e saggista Giuseppina Rossitto.
Tale volume, che si apre con una breve introduzione della stessa autrice, nella quale tende a sottolineare come è nato il progetto, ovvero raccogliendo suoi testi scritti nel tempo e man mano pubblicati nell’omonima rivista, si offre al lettore come miscellanea, tanto di generi che di tematiche. Vi si ritrovano, infatti, dissertazioni dal carattere prettamente letterario, con incursioni anche in altre branche delle scienze umane, in taluni casi articoli d’indagine e riflessione geo-politica, in altri veri e propri mini saggi, assai affabulanti, ricchi di dettagli, ben argomentati, mai troppo eruditi eppure ben lontani dalla facile convenzionalità dei nostri giorni. C’è, infatti, in essi, oltre a un grande amore per la cultura e per lo studio, anche una certa raffinatezza nelle descrizioni che proviene da una lettura partecipe alle vicende del mondo, per mezzo di uno sguardo attento, che non ha remore di confessare le brutalità del contesto in cui viviamo.
Si dirà che questi testi
sono pur sempre “parola di poeta”, e non di un professionista nei vari ambiti
nei quali decide di introdursi (con l’eccezione del saggio “Posidonia oceanica
(Linnaeus) Delile: la pianta indice di acque marine di buona qualità” che,
invece, attiene al suo mondo professionale[1])
essendo Ester Cecere un’affermata poetessa, vincitrice di molti concorsi di
prestigio e di meritati premi alla Cultura ma, in fondo, chi meglio del Poeta,
anima docile e vero barometro sociale, è in grado di narrare il vissuto della
contemporaneità? Vale a dire dell’età che gli è data di vivere?
La
Cecere spesso lo fa in maniera disincantata, altre volte non si fa difficoltà a
percepire lo sdegno della Nostra dinanzi a vicende e situazioni annose,
deprecabili e logoranti della specie umana. La sua speculazione critica è
permeata dalla sensibilità di donna autentica, di madre, di cittadina responsabile
ed è dunque empatica: non si può non solidarizzare con la Nostra e non assumere
una posizione che è allineata a quella che espone. Questo perché lo fa con
puntualità e in maniera circostanziata, ben lontana dai pregiudizi nei quali
spesso siamo portati a cadere, in forma disinteressata a livello personale e,
al contrario, fortemente motivata a un contesto di pluralità, che è il senso
stesso della società. Al di là del metro tendenzialmente argomentativo, reso
possibile anche da una ricerca meticolosa degli argomenti e dei fatti ai quali
si riferisce, la Nostra è fedele testimone del presente, il suo narrato di
cronaca si fa pagina di storia; al contempo, come già rivelato, i suoi brani
non sono asettici e ragionati dall’esterno col solo scopo di descrivere una
realtà, di confezionarla in maniera obiettiva per chi avrà l’interesse di
approfondirla, ma se ne percepiscono anche le trame affettive, il vero
trasporto della Nostra, la sua foga e condivisione. Sono, per tali ragioni,
testi che descrivono ma anche che sono stati capaci di cristallizzare stati
emotivi, riflessioni non sempre edeniche e che, al contrario, provengono da un
senso di malessere, da una sfiducia dell’uomo d’oggi, da circostanze che
tormentano la Nostra e, come lei, molti di noi. Ecco perché credo che opere di
questo tipo – difficilmente catalogabili in un genere specifico, è vero –
risultino oggi particolarmente necessarie e il plauso, oltre all’Autrice che
tanta competenza e amore ha messo nella stesura degli stessi brani, va
senz’altro rivolto anche alla dottoressa Rossitto che con la sua instancabile
attività letteraria (associativa, redazionale, editoriale) permette la
concretizzazione di progetti analoghi, motivo di approfondimento per ciascuno
di noi.
Particolarmente
rilevante, all’interno del volume, in relazione al mondo retrogrado e inquinato
di tabù, pregiudizi, falsi miti e credenze errate è quanto viene sostenuto nel
brano dal titolo “Muri e piazze: due infrastrutture con funzione antitetica”
nel corso del quale la Cecere va indagando, ricorrendo alla storia passata, la
funzione e il significato, tanto pratico quanto simbolico, di due costruzioni
architettoniche quali la piazza e il muro. A tal riguardo leggiamo: “Mi sembra
molto importante sottolineare che esistono muri non solo di mattoni e cemento
ma anche di convinzioni, di pregiudizi, di ignoranza, spesso molto più efficaci
di una barriera fisica, “costruiti” per paura, paura della verità e oggi,
sempre più spesso, per paura del “diverso”, di ciò che non conoscendolo, ci
spaventa e vogliamo tenere fuori dalla nostra vita”.
Ed
ora, com’è giusto che sia, un accenno ad alcune delle varie tematiche
investigate dalla Cecere. Il volume si apre con “Navigazione difficile” che
l’Autrice definisce quale “racconto” sebbene sia ben di più, difatti apre alla
non facile tematica dell’immigrazione che verrà ampliata nella pagine che
seguono. In questo racconto, infatti, leggiamo: “Fu un attimo e si vide su di
un barcone di migranti, in balia del mare in tempesta, senza nessuno che
governasse l’imbarcazione. S’immaginò senza salvagente”. Si tratta di un
momento cruciale della storia dove, di colpo, l’io narrante perde i tratti
distintivi fornitigli dalla narrazione stessa per diventare qualcos’altro:
sembra infatti che si trasporti esso stesso – e con lui, dunque la narratrice
stessa – all’interno di quel contesto convulso e d’emergenza che lei stessa
aveva scritto, ricreato, rielaborato sulla base di accadimenti reali. L’io
narrante è per un momento – sembrerebbe – alle prese con un naufragio: sta
sognando? Realmente si trova in quella situazione? La narrazione si fa
particolarmente avvincente perché, tanto nell’Autrice che ha scritto l’opera
che nel lettore che la fa sua, si viene portati progressivamente, in chiave
mimetica e immedesimativa, a ragionare “come se” ci si trovasse realmente lì.
Non un mero esercizio di psicologia cognitiva o sociale, semplicemente – ed è
questa l’anima dell’intero percorso del libro – la volontà dell’autrice,
accolta come “necessità” da noi tutti, di calarci nei panni dell’altro. Perché
– come qualcuno ha detto – l’Altro siamo noi ed è solo guardando il mondo con
gli occhi della compassione e con una reale spinta sociale che possiamo capire
e dare soddisfacimento a noi stessi in quanto uomini.
Questo
racconto è dopotutto un testo che svolge la funzione di apripista sul tema dal
momento che, quello che segue, è una riflessione dal titolo “Aiutiamoli a casa
loro: utopia o realtà?”[2]
dove – come il titolo ben mette in luce nell’aporia dilaniante di quest’epoca –
si riflette sulla questione dell’accoglimento e del respingimento di profughi.
L’Autrice sa che se prendesse il sopravvento una delle due possibilità da lei
indagate, questo libro finirebbe per apparire tendenzioso, seppur lievemente si
mostrerebbe di chiara piaggeria verso determinate ideologie scagliandosi,
indirettamente, verso quelle opposte. Non è questo che le interessa, difatti
non partorisce giudizi perentori e definitivi dicendoci quel che, secondo lei,
è “giusto” o “migliore” o “auspicabile” ma, al contrario, lascia semplicemente
– come il migliore dei giornalisti – parlare i fatti, snocciolando anche cifre
per dare la giusta misura di quel che si sta parlando. Non impropriamente, ma
con cognizione di causa.
Il
tema in oggetto si presta anche per accennare ad altre circostanze d’interesse
globale quali, ad esempio, il disboscamento e la sottrazione di ricchezze, in
generale, operata sul continente africano, le problematiche relative (e
conseguenti a quel che è stato appena detto) al cambiamento climatico. Le
guerre che concernono il bombardamento e le azioni di forza sui civili, alle
quali si accenna, non fa venire meno l’interesse e l’approfondimento della
Nostra verso il mondo buono delle organizzazioni filantropiche e solidali,
quale è il tessuto sociale di ONG che con pochi mezzi, molti sacrifici e
impegno, operano in vari contesti martoriati del Pianeta.
Tra
le altre tematiche investigate vi è senz’altro l’arretratezza del terzo mondo,
con riferimento all’analfabetismo di intere fasce della popolazione. Ester
Cecere ne parla diffusamente nell’intervento dal titolo “L’istruzione nei paesi
in guerra: la scuola di Al-Hikmanh nel campo-profughi di Atma in Siria”
portando ad esempio una delle “realtà buone” in un contesto di crisi delle
speranze quale è il contesto siriano, da anni in balia di una lunga e intestina
lotta civile. Si accenna (ma per chi vuole approfondire in calce vi sono gli
opportuni collegamenti a siti e pagine in Internet) alla realtà della Scuola di
Atma sostenuta anche dal giornalista RAI Sebastiano Fezza.
Ci
sono poi le apprensioni della Nostra in relazione al tema dell’inquinamento,
dell’accentuata industrializzazione e del capitalismo, della decrescita felice
ma anche un testo che, pur nella brevità della sua forma, indaga il non sempre
felice rapporto tra mondo umano e animale, partendo sin dalle giovani
generazioni. L’esempio che viene portato è quello familiare dove, tanto
l’Autrice che i suoi figli, sono cresciuti assieme a vari animali domestici, in
un contesto di profonda armonia e rispetto nei confronti degli animali che,
invece, latita – ne sono testimonianza inenarrabili fatti di cronaca – in molte
persone che non mancano di offendere gli animali (e con essi, se stessi)
mediante una serie deprecabile di azioni che va dalla noncuranza all’abbandono,
dalla sevizie alla malnutrizione, dal maltrattamento e altro ancora. L’esempio
del Tamagochi, moda dei tardi anni Novanta che la Cecere richiama, è esemplificativo
e conturbante al contempo del grado di schiavizzazione del bambino (e dell’uomo
in generale) contemporaneo alle moderne forme tecnologiche ma anche rivelatore
di quanto disattenzione e impassibilità siano preponderanti dinanzi all’affetto
e al calore di un amico a quattro zampe che sarebbe ben più importante e, in
taluni casi, anche terapeutico.
La
seconda parte del libro è occupata, invece, da una serie di poesie
accuratamente scelte, molte dei quali riflettono le considerazioni e le inquietudini
su alcuni degli argomenti di cui si è sin qui detto. In merito ai temi d’impegno civile mi sento di
citare alcuni testi che sono stati qui pubblicati: il conflitto civile e
l’esodo dei siriani nelle poesie “Erode è tornato” che fa riferimento ai bambini
deceduti a causa del gas nervino adoperato (“i corpi intatti. / […] / la morte / hanno respirato”) e “I bambini
di Atma non hanno scarpe”, relazionata al brano sulla mancanza d’istruzione in
Siria nel periodo del conflitto, di cui si diceva in apertura e la drammatica
“Letto di tumuli” dedicata al bambino che venne trovato dormire stretto ai
corpi ormai senza più vita di entrambi i genitori: “I tumuli dei genitori tuoi. / […] / In mezzo a loro rannicchiato, /
tumulo / avresti voluto essere anche tu”.
In “Muro d’odio” si riprende il discorso della costruzione di muri in
vari contesti del mondo, il tema del distanziamento, del tentativo subdolo di
contenimento, separazione e di ghettizzazione (com’è il muro di Orban in
Ungheria, quello americano costruito con l’intenzione di serrare in maniera decisiva
il confine col Messico); in “Migranti” ritorna l’endemico problema
dell’immigrazione: “Dal formicaio
allagato in fuga, / disorientati, / in ogni direzione / si disperdono”
mentre “Fibula” nell’asciuttezza della lirica (appena nove versi di breve
sillabazione) è condensata la riprovazione dinanzi una delle pratiche più
cruenti e dolorose che nel mondo vengono condotte su giovani ragazze,
l’infibulazione. Operazione che, in contesti di precarie condizioni sanitarie e
da operatori impreparati chirurgicamente, conducono per una non trascurabile
percentuale di casi, alla morte stessa delle giovani donne operate. E per loro,
come annota la Cecere, non è che una “Violenza
subita / Piacere negato / Mutilazione e terrore”.
Tra
le poesie che, invece, guardano più propriamente l’universo emotivo personale
della Nostra, come non notare la prevalenza dell’elemento acqua – tanto nel
mare come nella pioggia, immagini che spesso ritornano – con la prevalenza di
tutto quel che concerne il mondo marino, una vera e propria isotopia di questo
ecosistema col quale la Nostra vive non solo a contatto (nella litorale Taranto
di cui è originaria) ma anche per quel che attiene il suo universo
professionale. Motivo di apprezzamento sono poesie quali “Come la marea” e
soprattutto “Questo mio mare” che esordisce con uno stupendo incipit: “Con occhi sempre nuovi / m’accosto a questo
mare”: il fascino e lo stupore che il mare regala è qualcosa di continuo,
sorgivo, e di sempre nuovo, qualcosa che si rinnova, potenzialmente,
all’infinito. Motivo questo di tanto mistero e di quella suggestione profonda
che lega la Poetessa in maniera inscindibile all’elemento equoreo: “E mi chiama / lo sciabordio paterno./ E odo
l’eco”. Leggendo la successiva “Creatura di scoglio” sembra quasi di poter
sentire rumori e profumi che si percepiscono lambendo la riva del mare; la
Nostra ci parla del salmastro, delle onde, della scogliera e della “creatura di
scoglio” che dà nome al titolo della lirica, e tutto ci sembra così vero,
vicino, finanche palpabile, alla nostra portata.
Ci
sono, poi, poesie che sembrano tentativi di dialogo con un’alterità, che
rincorrono possibilità di ascolto in echi e richiami, tra intervalli di stasi e
di silenzi che aleggiano nell’aria. La Nostra colloquia anche con
quell’apparente fissità di suono, in quel mutismo sensoriale, infatti, è in
grado di percepire messaggi e di avere un contatto con chi, per vari ordini di
motivi, s’è allontanato o non c’è più. I motivi del suono, del silenzio, del
parlare e del tacere, del dialogo, del clamore e dell’asperità sonora,
ritornano in vari componimenti. C’è esigenza di dire e di rivelare (dunque di
farsi ascoltare), di dichiarare e declamare al contempo (come pure avviene con
gli scritti in prosa, intesi a squarciare ogni tipo di bavaglio) ma anche di
ascoltare, di percepire e tornare a riecheggiare voci e suoni prodotti da chi,
tanto amato in età passate, ci ha lasciato: “Parlarti vorrei. / Sentire la tua voce. / Raccontarti di me” dice
l’Autrice in “Parlarti vorrei” dedicata alla figura paterna.
Sempre
sulla poetica della Cecere, ricorro all’altro libro che mi ha donato, Avanzava settembre, pubblicato nel 2020
da Helicon Edizioni di Arezzo con prefazione del poeta e critico letterario
Nazario Pardini. Il professore toscano parla a ragione nel suo commento
introduttivo di alcuni campi tematici della Nostra ravvisabili nella
“inquietudine del fatto di esistere” e di quelle “situazioni storico-sociali di
degrado o ingiustizia” (alcune delle quali già trattate in precedenza) che
portano i suoi componimenti – come sostiene Pardini – a una “narrazione di
cospicua plurivocità” pur nell’apparente “semplicità complessa” del suo
“percorso epigrammatico” in versi.
Di
questa seconda raccolta alcuni versi in particolare emanano di luce propria ed
è impossibile non distinguerli tra le varie pagine che compongono il volume,
come quando, in “Non chiedermi perché” si legge: “Non chiedermi perché / non risale alla sorgente il fiume / e del mare
all’irresistibile richiamo/ corre”. In “Ninfa punita” acmi di saggezza che
provengono da una non semplice auscultazione dell’interiorità: “Non è dato a me / della vita godere la
bellezza. / Sterpaglie e rovi / il mio incedere ostacolano”.
Anche
qui, ancora una volta (e non potrebbe essere diversamente) tutto si riconnette
all’elemento mare: maree, onde, burrasche, prue, navigazioni a vista, naufragi
e bonacce sono di casa, ne è esempio chiarificatore la poesia “La scialuppa”
erede degna della tradizione letteraria dei mari di Conrad e Melville. Ci sono
anche liriche di rievocazione del passato, di sincero affetto e di profonda
malinconia nei confronti di presenze sicure a importanti quali quelle dei
genitori (molto bella la poesia “Se tornassi, madre”), affiancate da testi brevi,
quasi delle cartoline di alcuni luoghi della Penisola visitati o nei quali la
Nostra ha transitato per brevi momenti.
Un componimento dedicato a Pablo Neruda, il poeta comprometido, il poeta del popolo, è contenuto nella seconda parte dell’opera sotto il titolo di “Non canterò”, una vera gemma all’interno di questo percorso letterario. L’uomo dalla parola fluente, il diplomatico ma anche il porta bandiere di cause in difesa della democrazia, autore del celebre Canto general: accusa e denuncia, è qui – nella lirica della Cecere – quasi interdetto dinanzi a tanto decadimento: “Vedo fuoco / al crepuscolo fiammeggiare. / Vedo sangue / l’azzurro increspato macchiare. / Vedo corpi scomposti / sulle rive colorate… / Vedo gente atterrita / nelle piazze fuggire…”. È questa, un’immagine di profondo dolore e smarrimento. Il lutto dei colori lascia posto ai corpi ammonticchiati dei deceduti. La piazza non è il luogo della lotta civile, della discesa del popolo per la condanna e la manifestazione, ma il luogo dal quale fuggire. Non c’è riparo, sembra dirci la Nostra, ricalcato da quell’enunciato doloroso e restio a ogni principio di luce: “Non canterò”: è il poeta che, come il più glorioso dei combattenti, ripone la sua arma, quella della parola. Del canto. Vengono a mente, allora, le considerazioni di Adorno che, parlando della disumanità e dell’inconcepibilità del secondo conflitto mondiale ebbe a dire “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Constatazione in qualche modo ineluttabile eppure assai terrificante e inaccettabile. Ecco, il Neruda rievocato dalla Cecere per mezzo della sua composizione, sembra mettere in scena questo urlo sgraziato che è la crisi di coscienza dell’uomo munchiano ma anche il digrignare aspro dei denti dei tori allucinati in Guernica di Picasso. A tutto questo vale porre come contro-canto, nel tentativo di un baluardo in divenire per l’umana collettività quel canto, pur flebile e incerto, che la Poetessa partorisce e innalza: “Canterò inni alla luna/ […] / Leverò canti alla notte / che allunga tentacoli d’ombre / pietosa il male oscurando. // Ché senza le tenebre / non sarebbe la luce”.
Lorenzo
Spurio
Bibliografia
Cecere Ester,
Sguardi. Riflessioni e poesie dalla
rivista Quaderni-Incontri per riflettere, Ed. Movimento
Letterario-Artistico “UniDiversità” APS – Ass.ne Culturale “Lo Specchio di
Alice”, Bologna, 2020.
Cecere Ester,
Avanzava settembre, Helicon, Arezzo,
2020.
[1] Come recita la breve nota in
calce al titolo si tratta di un testo che l’Autrice ha presentato durante un
convegno nel quale è intervenuta quale relatrice.
[2] Il medesimo tema è oggetto di
approfondimento dell’intervento che porta quale titolo “Migranti: profughi o
terroristi? Accoglienza o espulsione?”. Qui, in particolare, viene offerta una
divagazione interessante in merito a un pregiudizio che per lunghi periodi si è
rivelato dilagante e che non ha mancato di mostrare la complessità della sua
dinamica venendo a rappresentare un ulteriore problema, nel dissidio che si è
creato per il confronto sul tema, che si è imposto anche nell’opinione
pubblica. Vale a dire l’uguaglianza sciatta e precipitosa che è stata fatta (e
continua spesso ad essere fatta da alcuni) tra immigrato e terrorista. Si
tratta, come ben mette in risalto la Cecere, di una considerazione
approssimativa e becera, che non serve ad arginare il percorso comunicativo già
particolarmente astioso e in salita e che, al contrario, è in grado – e
colpevole – di aizzare questioni che vanno al di là del tacito dialogo in
merito al tema dell’immigrazione. In questo saggio, dove pure si parla della
“controparte buona” nei termini di tolleranza, apertura, empatia, non
discriminazione e multiculturalismo, l’Autrice fornisce, ricorrendo a testi
della tradizione classica, una curiosa e dettagliata disamina dell’importante
segno di onore e valore che in antichità veniva attribuito e riconosciuto
all’ospite, in quanto straniero della propria terra.
Una recensione attenta, profonda, partecipata, arricchita da molti riferimenti che denotano la completa cultura dell’Autore, il caro Lorenzo Spurio, a cui sono profondamente riconoscente. Non posso non ringraziare con affetto il “mi’ babbo in poesia”, Nazario Pardini, che ci accoglie entrambi sulla sua “Isola”!
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