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giovedì 18 marzo 2021

GIAN PIERO STEFANONI LEGGE: " CAMPO 87" DI CLAUDIO PAGELLI

Gian Piero Stefanoni,
collaboratore di Lèucade

Claudio Pagelli, Campo 87.

Puntoacapo ditrice, Pasturana (Al), 2021.

L'evento pandemico a un anno dalla sua comparsa oltre a interrogarci sulle modalità di relazione e di vita così violentemente e improvvisamente sradicate riportandoci socialmente, economicamente e culturalmente a un grado zero di ripensamento, suscita in noi a partire da questo una riflessione libera, finalmente, onestamente libera attorno i vuoti, le assenze e le urgenze portate in luce dal virus. Il racconto allora a ritroso dentro quei primi giorni così tragici in una navigazione senza riferimenti, oscuramente nuova sotto i colpi di un procedere a perdere  è nel racconto di  un'umanità smarrita lo smarrimento stesso dell'umano, o almeno il suo rischio, ancora, anche, nell'incapacità di riapprendersi a partire dal proprio modo di intendersi, di abitarsi dunque e di abitarsi insieme nella labilità di una condizione, perché fragile, perché mortale tanto riportata alla violenza di una luce, almeno nel nostro mondo, sconosciuta. La poesia per sua natura, nella tensione d'unità che le è propria, nella pronuncia a ricucirsi e a ricucire memoria ed uomini nella doglia di un origine sempre presente, ha in sé il timbro di una domanda che è già senso nell'accogliere stesso del suo ascolto. La poesia, sempre civile aldilà delle accezioni con cui ognuno la vuole marcare, nella nuda comprensione (nel senso latino del comprehendere, del racchiudere, dell'abbracciare) degli eventi e delle dinamiche, ha in sé nelle corde della sua perseverante presenza di condivisione questa onestà di verità senza giudizi ma anche senza censure nella risalita dall'ombra delle sue infinite e reclamanti risonanze. Lo sa bene Claudio Pagelli, lombardo di Como, autore raffinato, radicato sempre nel dettato di un' incisione segnata dalle pieghe di intimità personali e sociali di un'epoca come la nostra alla prova di una continua e desacralizzata cancellazione, di un rimestamento dal fondo dei propri demoni nella misura di una insaziata, non ascoltata, distanza da sé e dagli altri. Erede sì, ne conveniamo con Manuel Cohen che ha curato la prefazione di quest'ultimo lavoro, di quell'illuminata scuola lombarda che ha il referente in Fortini (e infatti leggendolo è il primo nome che viene in mente)e a cui però aggiungiamo nei ritorni almeno quello di Nelo Risi, si fa consapevole in queste pagine, nel solco di quanto il Covid abbia provocato nel tempo di ognuno rovesciandolo, di un "tempo altro" appunto nel quale siamo sospesi, non più nostro nella scansione delle sue piccole e grandi fratture. Tempo altro però che è anche quello di un prima che aveva i nomi, la familiarità, la carne dei tantissimi, ahinoi, velocemente, senza difese strappati alla vita. Ricordarli allora oltre a un operazione di pietà, come si conviene in questi casi, ha il senso foscoliano, nel comune dolore, di un ripensamento di noi stessi come insieme nella traccia di una ferita che ha bisogno- e lo vediamo bene in questi giorni- di carità e partecipazione, di misericordia e responsabilità. Claudio, ricominciando, lo fa prendendoci per mano, portandoci con lui nel Cimitero Maggiore di Milano presso il Campo 87, l'area dedicata alle vittime della pandemia, luogo anche di sepoltura di chi nessuna reclama (anziani, migranti, senza famiglia- in questo simile a Hart Island, New York), tirandoci nell'evocazione struggente della sua Spoon River dentro gli ultimi momenti, le rimostranze, le paure ma anche le illuminate consapevolezze di questi uomini, di queste donne a cui- ed è questa la vera forza del testo in cui il suo autore si fa capacissimo- vien da sé accostare il proprio nome se nella risacca del male come della vita forse il più delle volte è stato il caso a chiamare la sorte. Timori, illusioni, figuralità di abbagli e di rimpianti umani in quanto nostri, che detta così pare facile retorica, ma è proprio in questo in realtà che ci siamo resi dimentichi e che questa poesia ha il dono sapiente di rammentare nell'indicazione di un incontro alla nostra fragile condizione di mancanza, nel suo riconoscimento ove la fuga è nel dominio illusorio di sé. Io, qui, piuttosto smentito, trasfigurato, riportato dalla polvere dei suoi interni, delle sue strade, delle sue stazioni a quella della concreta metafisica di questi viali ( "Ora so che lente d’ingrandimento/è la morte, che in granello di polvere/si traveste l’Universo…"), di questi cieli nell'ingiunzione di vita che ancora chiama nella esattezza di una struttura data nelle brevi trentasei composizioni che la compongono (per lo più di sei versi, o di quartine). Volontariamente non ci addentriamo adesso nel ricordo e nell'enumerazione dei volti e delle figure ricordate lasciando a chi vorrà, l'anima scossa, il proprio personale tributo ma proviamo a seguirlo nella tesa riflessione di un dettato che ci investe adesso, ora, perché adesso dobbiamo provare a rispondere, o a prender carico di una domanda che non si può più posporre, e da cui si può ripartire. Il male, infatti, sottolinea Claudio, "non è in sé l'estinzione" ma "la solitudine il chiodo/al cuore, sentirsi un errore/l'invisibile crocifissione", quella alla quale volontariamente o meno ci stiamo consegnando e che quest'anno con la spudorata spoliazione della sua franchezza ha smascherato. Ricominciare anche da qui, dalla pronuncia insieme dei nostri nomi, nelle nostre paure può avere il significato di una liberata postura, di una liberata consapevolezza, ed anche allora di resa dignità a tutte queste vittime, a tutte le vittime, il dire in loro "senza tremare" nella voce della comune appartenenza "l'astro ventoso, lo schiaffo di luce/ che vince la notte". Altre, numerose considerazioni (anche di natura prettamente critica) andrebbero affrontate e segnalate in queste righe riguardo a un lavoro di altissimo acume morale oltre che poetico ma come detto non vogliamo correre il rischio di sottendere a qualcosa di più di cui ogni lettore da solo possa ritrovare in una lettura che andrebbe affrontata anche nelle scuole. Segnaliamo solo, doverosamente, nella traduzione della bravissima Giovanna Sommariva la corrispettiva scrittura in dialetto milanese di ogni singolo testo, scelta come giustamente sottolineato da Cohen che "si configura allora, come una assunzione di responsabilità ulteriore e come una acquisizione di consapevolezza: unire alla voce degli ultimi, dei dimenticati dalla storia, dei travolti dal destino, la lingua in via di sparizione, o comunque, la lingua degli ultimi, la parlata locale". Operazione che impreziosisce il testo completandolo, affidando alla dizione esatta di questa terra ogni terra, la terra stessa.

 

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