Sulla poesia di Antonio Carlo Ponti, Bevagna cuore dell'Umbria nella parola.
Gin Piero Stefanoni,
collaboratore di Lèucade
La figura di Antonio Carlo Ponti, Anton
nel riconoscimento affettuoso e maturo dell'io, è una figura centrale di
quell'Umbria, brillante, umile, regale, cui è difficile in ognuno non sentire
forte il legame. Giornalista, primo storico direttore del "Corriere
dell'Umbria", critico d'Arte, saggista e scrittore a tutto tondo, è bene
ricordare anche per l'incisività di una presenza poetica che l'ha visto nel
corso degli anni crescere e passare da una scrittura in lingua a quella della originaria Bevagna (seppur di natali
romani) che lo ha posto tra i nomi più rilevanti della regione, se non il
primo, per quanto riguarda la produzione in dialetto . Una produzione cui forse
per render merito vanno aggiunti almeno quelli dei perugini Claudio Spinelli,
Giampiero Mirabassi, Nadia Mogini e Anna Maria Farabbi, del norcino Paolo
Ottaviani oltre che dell'altra perugina, la saggista Ombretta Ciurnelli. Un approdo
dicevamo quello di Ponti avvenuto però per lenta maturazione, vinte resistenze,
dubbi, interrogativi di resa rispetto a una materia nel rischio sovente del
folklorismo come sottolineato da Cesare Vivaldi amico di lunga data e mentore.
Così non è avvenuto nella restituzione di un dettato sapientemente e umilmente
metabolizzato prima e traspirato poi entro una freschezza di immagini, di
parola, di forza memoriale assai rara nel compimento nel suo filtro di una
lingua nuova, non più parlata dalle giovani generazioni e dunque- purtroppo o meno-
come da Ponti accennato esistente solo
nella testa dei poeti. Nell'uso
personale del linguaggio, nell'abile uso di citazioni ora colte ora ironiche,
nella restituzione piena della sua forza simbolica e fonica Ponti ha inteso
imprimere, saldare la voce di tutta una popolo, una plebe soprattutto "minuta,
umiliata dalla prepotenza, dall'ignoranza, dalla povertà". Darle "una
sorta di riscatto" da parte di chi è stato più fortunato. Un po' come il
Belli con Roma nella esplicita dichiarazione, soprattutto nell'adempimento di
un dovere principalmente verso la memoria, quella "patria dei
ricordi" necessaria per la coscienza esatta del nostro esserci e del
nostro esserci insieme.
Si rimanda allora per un pieno affondo in
questa poesia nell'uso moderno di un dialetto che sa alternare " alla
nostalgica memoria dell'infanzia, il sentimento dell'amore e un ironico e
garbato bozzetto" ( Ciurnelli) al volume Puisía de
Beagne (versi nel dialetto materno) dove sono raccolte (2015, per
la cura delle Edizioni del Formichiere di Foligno) la prima pubblicazione Mevania
Bevagna Beagne (Perugia, Guerra Edizioni, 1996) insieme all'ultima
produzione sotto il titolo di Novissimi
che lo va ad aprire unitamente ad alcune traduzioni in inglese ad opera di Michel Palma e Justin Vitiello con la
chiusa di una sua traduzione da Vicente Aleixandre (il tutto nel bel corredo di
disegni di Carlo Frappi). Ed in cui questo piccolo monumento come si diceva ritorna
allora compiutamente riuscito soprattutto per la bontà di un equilibrio che ha
saputo rendere nel naturale distacco il groviglio di figure, sentimenti, luoghi
riaffiorati alla voce dalla polvere di piccole e grandi storie, dal reclamo
soprattutto di uomini e donne in pubbliche e personali cadute. Ponti infatti si
tiene ben lontano dal sovrapporvi la propria, aggiungendola soltanto diremmo
dal coro delle ingiunzioni, di un tempo che sovrastando chi prima comprende certo
poi presto rigetta. La cara Bevagna-Beagna (l'antica, romana Mevania) piano
piano dunque si apre avvolgendo il lettore caliginosa e materna come nel
piccolo Antonio dell'infanzia in tutta la sua geografia umana e spaziale, dalle
mura alla campagna e ai bagni dell'Accòrda (dove le donne andavano a lavare i
panni e spesso nel teatro di scontri e tragedie), dalle osterie e strade e
caffè agli sfondi inestinguibili di povertà e dolore (come la ruota degli
esposti). Di una vita appesa allora alla sua fatica eterna, al suo giogo eterno
("Er grano è jallo/la fattíca è
tamanta/se vive sci de pane solamende"-"Il grano è giallo/la fatica è
immane/ si vive soltanto di pane") cui Ponti nella risonante dolenza pure
tenta una momentanea e partecipata levità di riconoscimento, nella presa di
comuni e istantanei bagliori proprio laddove la vita ci sa e ci vuole più
fragili, celando nella chiave dell'ironia popolare una medesima ferita, in
quella dell'amore una medesima presenza (ma anche verrebbe dire di una
irricucibile, nostalgica mancanza).
Per questo leggerezza e corposità vanno di
pari passo in questa poesia nel binomio inscindibile di un'esistenza inseguita
in tutte le sue accezioni, e smorzata nel dire, riportata al suo giusto senso
laddove più forte se non impassibile nella caducità di una condizione piegata
al male. A sostenerla se uomini parola e luoghi sono una sola cosa è proprio la
bontà di una lingua altrettanto corposa, e leggera, nella bocca di Ponti latte
materno a cui continuamente abbeverarsi ("stretta, irsuta eppur di nobile
e solenne architettura come è la splendida Bevagna, di melodia non sempre
facile a cogliersi ma comunque seducente" secondo Vivaldi) e tornare al
gusto di una passione in cui nulla si perde ma riacquistandosi ogni volta
nell'atto stesso della sua pronuncia nella convinzione che come il sangue il
dialetto è il respiro della parola. Esemplare allora, e non solo per il rimando
quasi programmatico del titolo, è il brano "La lèngua de mammamia" in
cui nell'enumerazione veloce di alcuni termini che la vanno a comporre, dai
termini anatomici a quelli del lavoro dei campi, della vita quotidiana, dei
frutti e dei beni della tavola e della vita è racchiuso come in un almanacco
tutto lo spirito di una terra e di un microcosmo poi esteso e disteso in
maniera più articolata certo in tutte le figure e i bozzetti negli incontri e
scontri che lo compongono ed in cui è felicemente leggibile, anche ai più
urbanizzati, quell'universo uomo cui ognuno appartiene. Il tutto come ben
rivelato ancora dalla Ciurnelli a suggerire "un recupero memoriale sul
filo della fonìa, quasi a ricomporre frammenti di un lessico famigliare. Le
parole sembrano chinarsi, l'una con l'altra, nel puro godimento della ruvida
pastosita dei suoni". Questo soprattutto dunque a proposito di un tu
determinato e umile ad una relazionalità cui la nostra prova è iscritta, che è
poi ciò che più interessa a Ponti in una poesia volutamente lontana da eccessi
di maniera o dalla celebrazione di se stessa, nello svuotamento di valori piuttosto
fermamente legata al paesaggio della memoria (e alla memoria del paesaggio) cui
a dominare resta sovrano il ricordo figurale dell'infanzia (negli anni della
carestia e della guerra, nato nel 1936) nell'intesa di quelle modalità, di
quelle percezioni che ancora dicono e rendono reciprocamente riconoscibile
l'adulto e l'amore nell'appartenenza tra individui e insieme.
Una poesia ancora per questo strettamente
ascritta al tema del tempo cui la parola pure sa volgere in esiti lirici di
alto livello a riprova di una capacità di scrittura dalle diverse corde e di
cui pertanto riportiamo volentieri un passaggio nel segno di una risposta alla
base del racconto di Ponti che è la vita stessa:"Nengue su la lengua/de
l'arbuccio, sopre/le pàpane mute,/nengue su la caponera/ e su la recchia de 'l
cane.//E io m'appalíghjno/
drento n'ago de luna/che do' s 'accosta tégne/come n'abbise de sole"
("Nevica sulla cima/ del pioppo, sulle papere mute,/nevica sulla capinera/
e sull'orecchio del cane./E io mi appisolo/dentro un ago di luna/che tinge
tutto quel che tocca/come una matita di sole"). Un dettato di cui, andando
a concludere, dovremmo ricordare e sondare la tanta ricchezza di riferimenti e
di uomini e donne tratteggiati verso per verso con partecipato e rinnovato
affetto ma che rimandiamo ad altra occasione alla luce di un amore per il suo
borgo, per la sua Bevagna che ricorda quello per la donna amata su cui si
avventerebbe come lucciola sulla schiena di bruco:" "abbricòcolo/panicòcolo
palomma/sperella pettoroscio" ("albicocca/cialda colomba/solina
pettorosso").
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