Francesco De Caria legge:
“Al di là delle parole” di Lino D’Amico
Al di là delle parole
Vorrei
ancora parlare con te...
al di
là di parole assorte
e
sguardi stupefatti,
distillati
in una eco
muta
nella fragilità dei silenzi
dispersi
nella brezza del tempo
dove
ancora danzano miraggi
nella
nostalgia di un amore.
Vorrei
ancora fantasticare…
una
cascina dalle persiane verdi
e tetti con
tegole rosse,
una
grande aia, un fienile, due cani,
rossi
gerani ai davanzali,
e tu
che mi venivi incontro, a sera,
con il
grembiule arrotolato a vita
e
braccia tese in un’abbraccio.
Vorrei
gioire ancora del tuo sorriso,
intrecciare
le mie mani fra i tuoi capelli,
accanto
a quel camino che crepitava braci,
ma
tutto à svanito, dissolto
come
effimera bolla di sapone
nell’attimo
di quel doloroso addio…
vorrei,
ma sarebbe ancora un miraggio,
bellissimo
nella sua irrealtà.
Il fantasma del passato si fa pressante nei versi
del D’Amico, mano a mano che la memoria si addentra nella dimensione memoriale:
è una prerogativa del procedere dell’età di soffermarsi meno sulla prospettiva
del futuro e più sulla lunga prospettiva dei ricordi che collegano il presente
ad una vita vissuta. E i momenti su cui il ricordo si sofferma con insistenza
sono quelli dell’infanzia e della giovinezza. Meno sui momenti dell’età adulta
e matura, quando davvero l’individuo realizza se stesso, alla lettera, fa della
propria esistenza una realtà particolarmente importante per sé e per chi ha a che fare con lui, coi
famigliari, con colleghi o dipendenti nel mondo del lavoro….
E perlopiù la giovinezza, una giovinezza ancora
acerba volta alla scoperta, si fa pressante nei ricordi… Compagni di scuola o
di gioco, ragazze magari a loro volta acerbe su cui per prime si è posato lo
sguardo soprattutto del cuore… Tali memorie
personali si fanno pressanti, sino a mettere nell’ombra tutto quanto si
è vissuto e si è compiuto, “tra gioie e dolori”come si dice, nella realtà
esistenziale, una realtà lunga decenni, laddove quei ricordi fra infanzia e
giovinezza riguardano un periodo che di anni ne assomma pochi, pochi, ma
intensissimi, come anche la Psicologia
mette in evidenza nelle sue ricerche. Intensi perché intreccio di
timori, aspettative, speranze, timori, paure legate ad un Mondo da scoprire, un
Mondo che per un giovinetto ha sovente la dimensione della figura femminile. Ed
ecco in questi versi del D’Amico la trepidazione ei timori di una acerba dichiarazione
d’amore, della scoperta di una dimensione, di un mondo nuovo, che fra gioie e
dolori lascia stupefatti e talora attoniti di fronte a spettacoli che poi,
nella lunga età matura si perdono nella banalità del vivere quotidiano, fra le
sue “piccole” cose sovente scambiate per cose fondamentali: e sono memorie
“arcaiche” legate perlopiù alla dimensione eterna del paesaggio rurale – non è
così per Pavese, non è così per Fenoglio? – una dimensione resa eterna dalla
letteratura e dall’arte.Ore 16:31
29.7..21 Il tema della nostalgia dà materia ai versi del D’Amico, una
nostalgia resa struggente dalla consapevolezza dell’impossibilità di rivivere
quei momenti, di rivedere con gli occhi di allora quei paesaggi: troppa
esperienza di vita toglie innocenza allo sguardo di chi ha vissuto: si è
perduta nella piena maturità la capacità di essere stupefatti nelle varie
situazioni o di fronte a certe visioni. Come all’origine stessa del far poesia,
è l’esperienza fondamentale dell’amore a dar materia al canto. Anche la poesia
epica ha alla base il sentimento dell’amore. Qui il “recupero” impossibile di
una capacità di abbandonarsi, di meravigliarsi, di uno sguardo stupefatto sulle
cose s’intreccia con l’immagine di una lei che attende l’innamorato a braccia
tese: ci sono evidenti spunti pittorici, pochi tocchi efficaci, le “tegole
rosse”, il verde delle persiane, e ancora il rosso dei gerani, un rosso
persistente che rinvia al sangue che scorre impetuoso nelle vene: rosso della
vita, rosso della passione, rosso delle braci nel camino – evidente rimando a
quanto bruciava dentro i due giovani – dove col passar degli anni il fuoco ha lasciato
posto al grigio della cenere: e in un troppo rapido passaggio l’ardore ha
lasciato il posto alla cenere. Ma qui,
inaspettata, una immagine che suggerisce – contestualmente al senso della
fragilità estrema – la capacità irriducibile di meravigliarsi ancora: la bolla
di sapone bellissima nella sua iridescenza evanida, che evoca ancora lo
stupore, che si credeva perduto, nello sguardo di chi non sa davvero arrendersi
a considerare l’ esistenza vissuta come un mucchietto di cenere, ciò che resta,
nel camino di un legno nel quale un tempo è scorsa la linfa della vita, nel
perenne passaggio morte-resurrezione insito nella vicenda stessa della natura
ad ogni risveglio primaverile e ad ogni “morire” nell’inverno.
Francesco De Caria
Francesco De Caria, professore che conosciamo, perché è stato già in passato l'ottimo esegeta del nostro Lino, si conferma in questa occasione recensore d'eccezione, in quanto coglie l'essenza della poetica del caro amico asserendo:"Il tema della nostalgia dà materia ai versi del D’Amico, una nostalgia resa struggente dalla consapevolezza dell’impossibilità di rivivere quei momenti, di rivedere con gli occhi di allora quei paesaggi". La lirica postata vola infatti sull'ebbrezza della memoria, dei momenti vissuti nella cascina dell'infanzia. Riavvita la bobina delle immagini della madre "con il grembiule arrotolato a vita /e braccia tese in un’abbraccio". Colpisce la chiusa di dolorosa consapevolezza. Il Poeta è consapevole di cadere nella trappola dei ricordi, ma non sa e non può farne a meno. Il suo ermeneuta lo legge con arguzia e con l'affetto di chi si fonde con l'anima dell'Autore. Bellissima pagina per la nostra Isola dei Sogni. Il nostro Nume Tutelare ne sarà felice. Lo stringo al cuore insieme a Lino e saluto ammirata il professor De Caria.
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