Maria Rizzi su “Canto
dell’effimero” di Eugenia Serafini – Edizioni ARTECOM
Ho
ricevuto un testo che equivale a un pacco - dono dall’amica Eugenia Serafini.
Si tratta del “Canto dell’effimero” edito da ARTECOM. Il nostro rapporto è nato
per caso e cresciuto a dismisura. Sono onorata di sfogliare quest’Opera prefata
da Elio Pecora, tradotta in rumeno da George Popescu, e con postfazione del
marito della Nostra, Nicolò Giuseppe Brancato. L’Autrice è stata per dieci anni
docente presso l’Università della Calabria, all’Accademia di Belle Arti di
Carrara e all’Accademia dell’illustrazione e della comunicazione visiva di
Roma. Il volume è presentato in modo superbo da Elio Pecora, che nella chiusa
asserisce: “L’epigrafe di Peter Handke, posta ad apertura del libro, dichiara:
“La durata è il mio riscatto, mi lascia andare ed essere”. Dunque questo durare
è fuori delle misure conclamate, fuori delle pretese e delle paure; e
l’effimero, vacillante sul baratro, s’apre sul vuoto e respira”. Credo che non
potessero esistere parole migliori per definire
un Poemetto, concepito anche graficamente, per dare volto a un termine
che etimologicamente deriva dal greco - ephemeros - e significa ‘di un solo
giorno’. Induce ad andare col pensiero alla rosa, alla farfalla, a ogni miracolo
poetico del creato soggetto a un tempo transitorio, fuggevole. Eugenia Serafini
ricorre ad accorgimenti che fanno tremare le fronde del cuore. L’effimero
ripetuto più volte per intitolare le pagine, è messo in luce dall’espediente di
sfumare alcuni versi; incontriamo anche termini scritti in grassetto, talvolta
ingranditi, spesso cancellati: tutto riporta al concetto che ‘umana cosa
picciol tempo dura’ - Giacomo Leopardi
-. Eppure l’istinto mi spinge a rincorrere questo Canto, a rinvenire quanto può
essere caro alla nostra Artista e agli uomini in genere ciò che esiste e presto
scompare. Mi dico che, in fondo, non siamo fatti per restare. La Poetessa recita: “effimero / mi fece sentire / leggera”e trasmette la sensazione che
nulla sia più duraturo di un’esperienza provvisoria. Ella tende a ripetere nel
suo viaggio d’amore e dolore attraverso le emozioni: “cercai leggerezza / nel vivere / nel muovermi e
/ agire” e mi sollecita a vedere
questa apparente inconsistenza come un colore in moto, una contemplazione senza
parole, una corrente che porta in un mondo diverso. Forse è appagante essere
leggeri come rondini, non come piume. E cambia di colpo la musica del Cantico
quando Eugenia Serafini scrive: “fu così aspro
/il vivere /che fu meglio / il mOrire”. Un unicum il nerbo poetico presente
in questo Poemetto che possiede un corpo e un’anima straordinari, originali,
ricchi dell’estro creativo di un’Artista figurativa dal talento versatile,
proteiforme. I fogli ‘aspri’ fanno da contraltare alla levità, ai passi
dolci degli angeli, raccontano l’insostenibile pesantezza del vivere, i momenti
di sconforto, le paure, i dubbi, ‘la ricerca di sopravvivenza’ - con il titolo
cancellato -, le ondate di ricordi. La leggerezza, seppur scolorita, a stento
leggibile, cuce gli strappi, ricorda che il passato è ricchezza e il futuro non
si pensa, viene da solo. I territori della memoria giocano un ruolo importante
nel viaggio dell’Artista e non potrebbe essere altrimenti. Dal pozzo dei
ricordi distilliamo linfa vitale per affrontare l’oggi e la Nostra canta: “uscivano /
gorghi e spirali / s’infrangevano / specchi lontani / sfocati da / anniluce
d’infanzia / e / adolescente distrazione”. Le pagine rappresentano un
continuum, sono legate tra loro in un unico Canto, e chiedo venia se non ricreo
la stupenda atmosfera del testo. Il passato riaffiora con ‘i suoi appigli
effimeri’ e, nel caso dell’adolescenza, è raro rammentarla come una volata
verso l’esistenza; è un periodo nel quale l’esperienza si conquista a morsi.
Non la si può definire soltanto una stagione del nostro tempo terreno, ma
piuttosto una modalità ricorsiva dove i tratti dell’incertezza, l’ansia per il
futuro, l’irruzione delle istanze pulsionali, il bisogno di rassicurazioni e di
libertà, celebrano in una sola fase tutte le possibili espressioni in cui può
cadenzarsi la vita. Elio Pecora attribuisce al Poemetto la definizione di
‘gioco tipografico’ e i versi che volano altrove, tornano sui passi iniziali,
rendono più che verosimile quest’asserzione, anche se, nel mio piccolo, ho
visto tra le pagine anche qualcosa di diverso, di profetico e magico.
“conoscevo già / intuivo / inizio e fine / del gioco / supposto /…pure… /
conoscevo il / nuovo inizio / ed il ritorno” - tre pagine -. Sembra di poter
evincere che Eugenia Serafini sia stata consapevole di cose che si sanno e le
prove hanno avuto solo il valore di conferma. Eppure sono certa che una donna e
un’Artista della levatura della Nostra sia cosciente che l’abitudine rubi la
meraviglia, il sapere sia ladro d’innocenza; il desiderio possa impedire la
pace, troppe partenze carpiscano gli’arrivi e gli arrivi possano precludere i
percorsi. Sono altrettanto certa che nel suo viaggio tra le emozioni ‘si
cerchi’, ‘si interroghi’ sui tempi del lampo meraviglioso dello stupore, “in
questi paesaggi / maremmani che / sgusciano via tra / campi / grano/biada e /
colline inverdite al primo turgore di marzo”, legati all’empatia con madre -
natura, e ai comportamenti rimasti allo stato inconscio, che impediscono la
comprensione totale dei momenti, ma consentono lo stato di magico surplace.
L’effimero è la culla di conoscenza, il riparo dai ‘varchi’ arditi dell’eros, e
il rifugio dal passato che può ferire. Talvolta Ella preferisce ‘la non
memoria’ e in molte pagine del Canto sceglie il ‘sentimento di fuga’ / che
viaggia con lei” (questo verso è cassato come i successivi ) e invoca l’effimero
di non travolgerla, “non così/non ora”. L’Autrice, acuta lettrice e
ascoltatrice del viaggio dell’esistenza, si affanna nella sua melodia a declinare
i tempi giusti: “ascolta / ora canteremo / effimeri / volti d’amore /virgole di
desiderio / grumi dell’erOs / nel
caldo ri// / chiamo d’agOsto”. E nel
comporre il Poemetto lascia che lo sguardo di noi lettori colga la complicità
tra segno (parola scritta) e suono (emissione vocale della stessa). Il
significante, ovvero l’aspetto grafico o fonico della parola scritta diventa
così importante da suggerire il significato. Si tratta di un gioco grafico che
dà luogo al rapporto tra poesia e comunicazione visiva. Nulla di legato agli
avanguardismi, nel caso di Eugenia Serafini credo che la sua disposizione delle
lettere tenda a fondersi con l’arte che le è più cara, a realizzare una
composizione figurativa, e le consenta di creare un alfabeto altamente
espressivo, che non a caso sembra ispirarsi alle scritture orientali, e che è
caratterizzato da incandescente libertà. “lascia / che salga / su lune
d’argento / fra stelle rubini / volando su code/comete” Il termine ‘effimero’ è
posto in basso, esige che l’occhio si posi su di esso, e nell’archeologia del
Poemetto l’Autrice non pretende di esibire una ricerca di curiosità, ma di
prescindere dalle regole mantenendo vivo, caldo, pulsante lo stile del lirismo.
Vi è una pagina scritta dalla stessa Eugenia Serafini nella quale afferma che:“Canto
dell’effimero è completo in se stesso: il verso si configura ormai come
espressione grafica significante nella porzione d’infinito che è il foglio
bianco, o altro: il rotolo di carta o cartone da me tanto amato in altre
occasioni, l’istallazione”. La ricerca spazio/ segno evoca Gaston Bachelard, infatti
gli elementi suggestivi del filoso francese contemporaneo ricordano
l’importanza di una presa di coscienza spaziale in un’epoca in cui ogni tipo di
coordinata si sta dissolvendo negli specchi virtuali della quotidianità. L’ultima
parte di questo volume, e la dedica d’amore del marito Nicolò Giuseppe Brancato
alla moglie. Descrive i luoghi dove l’Artista trascorre i vari periodi
dell’anno: Castiglione della Garfagnana, bellissima zona, ricca di storia, in
provincia di Lucca, Roma e Tolfa, il ridente luogo natale di Eugenia. Racconti
corredati da foto e da descrizioni particolareggiate. Chiudo il volume,
consapevole che i libri, certi libri, sono vascelli veloci che portano in terre
lontane e vicinissime, e canto l’effimero come la carezza della sera di mia
madre, le corse sulla battigia, il vagito di un figlio,. il sogno candido di una
bolla di sapone, senza chiedermi del domani.
Maria
Rizzi
Bellissima recensione, profonda, sensibile e colta. Grazie Maria Rizzi per questo tuo dono e grazie a Nazario PARDINI per averla ospitata. Molto caramente.
RispondiEliminaEugenia Serafini
www.eugeniaserafini.org
Ricevo e inserisco: Cara Maria, grazie dal profondo del cuore a te e a Nazario per la vostra attenzione preziosa.
RispondiEliminaSenza persone come voi, la poesia morirebbe soffocata dall'indifferenza delle grandi case editrici, dale lobbies, dalla troppo vasta produzione insignificante.
Grazie ancora.
Vi abbraccio con affetto e stima.
Eugenia Serafini