CINZIA BALDAZZI – Con Saffo “Ricordando
Tebe” di Eugenio Barba e Julia Varley
Ne I Sette a Tebe di
Eschilo Eteocle, fratello di Polinice e figlio di Edipo, dichiara: «Che dirò mai? Le sventure / siedono al focolare di questo
palazzo». Un pensiero del genere, ovviamente in chiave traslata, mi
ha sfiorato quando una sera di fine aprile sono uscita dal “Sergio Secci” di
Terni dopo aver assistito a Ricordando
Tebe, work in progress di Eugenio Barba – nell’interpretazione di Julia
Varley – all’interno della rassegna intitolata, per rimanere nel tema dei
luoghi semantici tipici del dolore, Tradimenti.
Per fortuna avevo goduto dell’accoglienza efficiente, assai ben strutturata
dell’amica poetessa Cinzia Maria Adriana Proietti e, motivata da enorme
coraggio, avevo stretto la mano del Maestro “venuto da lontano”, emigrato dalla
Puglia nel Nord Europa da circa mezzo secolo, fondando a Oslo il celebre Odin
Teatret, trasferito subito dopo a Holstebro nella Danimarca del Nord. Distante nel
tempo, avendo avuto con lui l’ultima occasione di incontro, se la memoria non inganna,
nel 1990 a Roma presso la Sala Civis nel suo Le Ceneri di Brecht.
Pertanto non sarà un simile smarrimento di giudizio a sconsigliare
di descrivere nel dettaglio la straordinaria performance alla quale ho assistito. Piuttosto – sebbene nelle vesti
specifiche di critico – ascolterò Margherita Yourcenar nell’affermare: «Fate finta che io non sappia niente, è il miglior consiglio
da seguire per uno scrittore che intende rivolgersi a tutti» poiché, suppongo, nella poetica rappresentativa di Barba ciò
equivalga a uno dei leitmotiv principali. Consideriamo, d’altronde,
di varcare nel messaggio di questo commento, sempre in linea utopica, la volta
di Leucade, con la mitica Saffo vissuta, almeno sembra, a Λέσβος (Lèsbos) nel 600 a.C. “solo” duecento anni prima di Eschilo e
ancora “solo” a duecento cinquanta chilometri da Tebe: allora azzardo l’ipotesi
di ricordare quanto anche per la nostra poetessa fosse importante ottenere una
lingua chiara (Saffo “parlava” eolico) per offrire, lo sottolinea lo studioso
Grytzko Mascioni “una poesia che è di tutti”. In termini semplificati, una ποιητική
τέχνη (poietiké tècne) non da raccontare ma da tramandare, di voce in
voce, vivendola: nel teatro di Terni circondato da un silenzio totale ai
margini di un ampio palcoscenico, non illuminato, Eugenio Barba senza l’alterazione del microfono ha così
esordito nell’invitare il pubblico ad avviare un percorso parallelo.
Presumo alcuni di voi potrebbero formulare la domanda in che
misura sia attendibile oggi, in Italia, collocare la poësis di Saffo e l’ars drammatica di Barba nell’ambito di tematiche artistiche semplici,
da accogliere grazie a veicoli espressivi dotati di un percepire istantaneo. Riguardo
a Saffo, si mostra sufficiente pensare come per lei il gesto più semplice fosse
le mani stese avanti, le palme rigirate verso l’alto, oppure verso il basso, allo
scopo di onorare, insieme a noi, il cielo con la terra senza altro ausilio della
sua presenza, delle parole scelte, al pari (in un volo di quasi tre millenni) di
Julia Varley nell’episodio attinente una donna siriana il cui marito Jusuf è
caduto in guerra. L’amore coniugale elaborato da Barba, inoltre, emerge essenziale,
universalistico, in analogia a quello onorato da Σαπφώ (Sàpfo) nel canto, in distici di pentametri eolici, dedicato a Ettore
e Andromaca: la poetessa di Mitilene, per molti l’“Omero donna”, sentiva
particolarmente vicini i principi troiani perché, discendente dal ceppo
pelasgico ricordato da Erodoto, quindi da una stirpe anatolica mediterranea, aveva
il padre chiamato Scamandrominos, appellativo modellato sulla divinità fluviale
della Troade, lo Σκάμανδρος (Scamàndros),
che aveva già indotto il primogenito di Priamo a dare al figlio il nome di Scamandro
(alias Astianatte).
Nell’illuminare, invece, l’obiettivo analitico specifico
sull’Odin Teatret di Barba (ritenuto l’ultimo Maestro vivente, già allievo-amico di Jerzy Grotowski), lo stile del suo acting, il relativo concetto attoriale implicito
nel lavoro fisico globale del recitare, sull’attore
e con l’attore, suggeriscono sia
utile meditare su quanto abbiano garantito alla drammaturgia in sé qualcosa di
unico, non sempre facile da comprendere, da assimilare, in una prospettiva di
teatralità trasparente che, però, in
tale contesto sarebbe fuori luogo aspettarsi: in effetti, la componente
intellettuale di Barba riesce a divenire saldo elemento unitario con il κάλλος (kàllos)
o l’εὐμορφία (eumorfìa) dell’aura
ispirativa, promuovendo, a lato di una pratica artistica successiva
all’esistere, un segnale, un monito, un atteggiamento chiaro, in sintesi
operativo, nei confronti della vita. Se, probabilmente – la critica lo ha sostenuto
– risulta necessario leggere i libri di Eugenio Barba per comprenderne il modus operandi teatrale, ciononostante se
inserite in una visione scevra da riferimenti culturali-biografici
specialistici, ogni "mise-en-scène", popolata
da attori internazionali, addestrati con la massima cura, nel concreto in atto
sono in grado di essere comprese, avvertite, nel successo e nella bellezza, agevolate
da sensibilità innate o capacità di coinvolgere, emozionare, di natura collettiva
immediata.
Di Ricordando Tebe vorrei cercare
di restituire, innanzitutto, la perdita della matrice schematica di ogni realtà
materiale indiscutibile, nel senso che nelle performances dell’Odin una delle principali mete di partenza o di arrivo
per lo spettatore equivale proprio allo smarrire la certezza di poter conoscere
il mondo, almeno l’habitat
circostante, basandosi su punti di riferimento in grado di stabilire un
confronto indiscusso tra vero-falso. Nel work
realizzato a Terni, in breve, con il talento esclusivo di Julia Varley, gli ospiti in platea o
in galleria non distinguono sul palco il realistico dall’immaginario, ignari dell’origine
degli oggetti improvvisamente in scena, della fonte dei suoni, umani e non
(uccelli, fronde di bosco, rumore dell’acqua, etc.), della famiglia linguistica
relativa alle battute le quali giungono, comunque, chiarificatrici del loro contenuto
che non richiede di trovare posto in una classica dinamica logico-causale. Da
anni – speriamo, accompagnata da un atto di coscienza adeguato – affascinata dagli
spettacoli di Barba, dall’incredibile abilità degli attori, soprattutto attrici
– ho avuto l’impressione di assistere a esibizioni di magia e illusionismo di
altissimo livello, dove a essere sostituito minuto dopo minuto fosse il mio
scontato confine pragmatico non disgiunto dalla consequenzialità di
causa-effetto in esso dominante.
Pertanto erano nel giusto allorché, presentando nel settembre
scorso lo spettacolo Tebe al tempo della
febbre gialla, hanno scritto: «la singolarità delle voci e la fusione
che ne emerge, tra toni melodiosi, eccessi acuti e suoni gutturali; la tensione
dei corpi; il sincronismo dei gesti e la disposizione dei movimenti nello
spazio; la potenza degli sguardi; la capacità di suscitare immagini con
l’utilizzo di pochi elementi in scena: tutte queste cose insieme sono capaci di
superare quello che può essere reputato un limite, la barriera linguistica, per
creare forme significanti che colpiscono i sensi e quasi scolpiscono parole
nella mente». Risultato di un instancabile training fisico degli interpreti, qui dell’eccezionale Julia
Varley, eseguito per scatenare in loro, in noi, qualcosa di ulteriore alle
aspettative, verosimile e non, sia sotto i riflettori (magari spenti), sia tra
i presenti nella “cavea”. Nel primo episodio della performance un monaco si rivolge a Dio per attirare la fauna
volatile, fuggita, forse scomparsa in seguito a una carestia. Di fronte a lui (lei)
intravediamo un albero spoglio e secco, al quale attacca una figura a forma di pera,
nel tentativo di invogliare gli uccelli a fare ritorno. Al solito, senza
comprendere né la fine, né l’inizio, come dire fenomenico, degli oggetti sulla
ribalta, assistiamo il monaco-Julia mentre allestisce un arbusto legnoso a cui
appende un frutto: non è un susino, bensì uno scheletrico pero.
Ciononostante, circondato com’è da inquietanti input di lotta contro la carestia o la
guerra, a me – chissà, a Barba – ha ricordato il piccolo albero di susine
protagonista di Le poesie di Svendborg
(scritte, dunque, in Svezia) di Bertolt Brecht. Anche il Pflaumenbaum è disadorno, quasi irriconoscibile («Che è un susino, appena lo credi / perché
susine non ne fa»), addirittura “rachitico”, lo descrive l’amico Walter
Benjamin ormai in fuga dalla Germania nazista, tanto che Brecht prova sollievo nel
vederlo protetto da una grata, capace di non lasciarlo calpestare, “colpire a
morte”. Eugenio Barba, solidale al suo monaco, non si contenta di proteggere lo
striminzito albero da frutta, decidendo di donare di “persona” (proveniente
chissà da dove), una bella pera sana, rotonda, in grado di ricondurre, nella
sua terra, gli uccelli, simbolo di natura benigna, di conforto esistenziale.
Per ulteriore nota riservata all’oggettistica della mise en scene, vorrei ricordare il pupazzo-personificazione di Jusuf del secondo episodio, con il
quale l’ormai vedova Julia (dalle cui mani o polsini, per prodigio, esce di
tutto) si confronta colpita da passione e sofferenza commoventi: il fantoccio
di stoffa bianca costituisce un emblema scenografico potenziato negli anni
Settanta (suppongo su tracce semantiche orientate al teatro di Barba) in
numerose rappresentazioni dell’avanguardia, all’altezza di illudere, di
convincere sulla vitalità sconvolgente di manichini di varie fattezze,
drammatiche, emotive, inquietanti.
Nella chiusura dello spettacolo, nella fase dedicata alla
peste di Tebe – con la πόλις (pòlis)
dove, insieme alla gente
e alla mandrie, muoiono i frutti della terra – Julia intraprende la via dell’uscita
di scena da una delle quinte barcollando, sorretta da un “bastone” rimpiazzato,
però, da un fazzoletto di seta legato al polso sino a sfiorare la terra: in
sostanza, la donna invita a superare la disgrazia delle apparenze ingannatrici,
laceranti e mortali della spietata τύχη (tiùche) rifondandole in linea a una neo-verità
energica, risolutiva. Forse in ciò, sempre nell’arco di numerosi secoli di differenza,
vuole riscattare la tragedia definitiva della leggendaria morte di Saffo, caduta
dallo scoglio di Leucade, poiché – scriveva di lei Giacomo Leopardi – «Incaute voci / Spande il tuo labbro: i
destinati eventi / Move arcano consiglio. Arcano è tutto, / Fuor che il nostro
dolor. Negletta prole / Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo / De’
celesti si posa». Ma, a ben vedere, l’unica voce lirica al femminile conosciuta
dell’antichità è ancora qui: infatti l’ascoltiamo celebrare il culto dell’arte
o di Ἀφροδίτη (Afrodìte), mentre il sottile
panno del bastone di Julia Varley rivela le sembianze del velo delle Muse che l’ha
protetta e condotta a noi.
Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione alla stesura del testo.
Cara cinzia , sei di una bravura e competenza eccezionale. Mi sembra di essere in teatro e di assistere alle scene che hai descritto e commentato, cogliendone lo spirito .Complimenti anche a Julia Varley e , soprattutto, al grande Eugenio Barba.
RispondiEliminaGrazie per la tua benevolenza nei confronti di questo mio resoconto critico di una performance teatrale: questa volta, più che mai, gioco anche io, ma in platea, con la sorte del bene e del male, del vero e dell'immaginato.
EliminaÈ apprezzabile la tua recensione a quest'opera, di cui hai colto e declinato suggestioni ed emozioni. La storia di Barba è la storia romantica di un italiano all'estero, caparbio, visionario, eroico. Una storia di successo di chi si confronta con la cultura nordica, si scontra con un gelo culturale ostile e lo sa sciogliere con la passione che lo invade, il teatro come strumento per raccontare e raccontarsi. Barba sarà lieto e orgoglioso del tuo tributo al suo lavoro, dal quale trapela un tributo più lusinghiero all'uomo di teatro che è. Vivissimi complimenti Cinzia!
RispondiEliminaFlavio Provini
Ti sono grata, Flavio, per aver sottolineato con efficacia la figura storico-culturale di Eugenio Barba che, nel mio pezzo, non ho sviluppato. Trovo sempre di grande rilievo, invece, conoscere il "come" e il "dove" dell'arte da noi tanto amata.
EliminaSebbene io non sia un critico, nè mi picco d'esserlo, credo che Cinzia in questo suo intervento, abbia saputo cogliere l'essenzialità del "work in progress" del Barba. La peculiarità, infatti, che a mio parere emerge nell'atto teatrale in genere è quella che Eugenio Barba propone nel far ridiventare l'attore se stesso abbandonando così quella maschera che fino ad allora la teatralità accademica aveva voluto. In questo modo viene a cadere quella distanza abissale che esisteva tra il palcoscenico e la platea: ora l'uomo/attore diventa uno di noi , uno del pubblico.
RispondiEliminaCriticamente assai fondata, caro Carmelo, l'affermazione che nel teatro di Barba gli attori lascino cadere la maschera, ma quando la tolgono, pur nel palcoscenico spoglio, come suggeriva Pirandello (poco prima che Barba nascesse), l'importante è che essa non sia nuda di sembianze umane, di vita. Grazie per la tua nota.
EliminaMagistralmente la dr.ssa critica letteraria e teatrale Cinzia Baldazzi, nel suo saggio “Con Saffo, ricordando Tebe di Eugenio Barba”, descrive dettagliatamente la straordinaria performance alla quale ha assistito al teatro “Sergio Secci” di Terni. Ricordando Tebe di Eugenio Barba, appare da subito una rappresentazione diversa, rappresentazione che dona l'ebrezza, l'importanza di calcare le scene con arte e naturalezza tale da accorciare la distanza tra pubblico e attori; distanza che viene addirittura annullata dalla eclettica Julia Varley. Cinzia, affascinata dalla bravura di Barba e dagli incredibili attori, soprattutto attrici, ha la sensazione di assistere a esibizioni in cui causa-effetto dominano in maniera mai disgiunta, dove magia e realtà, suoni e voci, gestualità e movenze del corpo si fondono armonicamente. La potenza degli sguardi rende superfluo gli elementi in scena; è la lingua, la parola che crea immagini, che colpisce i sensi, che accende nella memoria quel qualcosa in più che a riflettori spenti invita a ricordare, ad analizzare. Non era forse Saffo anch'ella convinta che gesti e parole sono dotati di sacralità, sacralità tale da essere tramandata per millenni? Ecco, la parola, l'amore, l'arte, la poesia fatta di armonia di versi comprensibili a tutti ora e nel tempo. L'amore definito dolce-amaro da Saffo, l'amore tenero coniugale di Ettore e Andromaca “ORBA SONO”, è quasi preghiera quella di Andromaca al marito che si appresta a partire. Bellissimo quel mettersi a nudo di attori in abiti moderni; Saffo, metteva a nudo i suoi sentimenti senza falsi pudori. La poesia nasce sempre nella nudità dell'animo e, il teatro ben rappresenta quanto si è nudi sotto manchere e false spoglie. Sull'arbusto, il monaco-Julia, appende un'avvizzita pera, per Saffo la sposa non più giovane è come una mela posta in alto su un ramo. Tante le analogie della dr.ssa Baldazzi in quest'opera con l'opera e i frammenti della grande Saffo. Tebe, antichissima città dalle 7 porte flagellate dalle peste dove frutti, animali e persone trovano la morte, Saffo, dalla rupe di Leucade tragicamente cade. È la vita con il suo succedersi di dolori e serenità che nonostante tutto resta il nostro più bel canto o come scrisse Leopardi “Arcano è tutto”. Grazie ad Eugenio Barba e a Julia Varley. Grazie cara Cinzia, attraverso il tuo saggio mi è sembrato di essere a teatro con tutti voi; grazie Cinzia, l'arte, la poesia, quando tali, sono immortali.
RispondiEliminaAntonietta Siviero
Grazie, carta Antonietta, per questa tua nota, nella quale ti riveli una conoscitrice di Saffo assai più impegnata di me. Nel saggio, per motivi di brevità, ho omesso di sottolineare l'importanza dell'esercizio fisico, musicale e di lettura lirica fondamentale nel tiaso di Saffo a Mitilene, utopicamente rivissuto da vicino (oltre che nel laboratorio drammatico di Barba) nell'attività teatrale di Julia Varley. Il paragone tra le due donne, in chiusura del mio resoconto critico, vuole evocare tale affinità. Grazie, anzi, ευχαριστώ.
EliminaHo letto con interesse e piacere questo tuo saggio, così puntuale e che, come sempre, consente di arricchire il sapere del lettore. Eugenio Barba è un grande nome del panorama teatrale internazionale, e credo che dire grande sia riduttivo, sua l'intuizione di un teatro dove l'attore non è solo protagonista, ma diviene forma espressiva, sostanza, occupando completamente la scena con la voce e il movimento e coinvolgendo lo spettatore, fondendo palcoscenico e platea. Tu, che hai avuto la fortuna di poterlo vedere, hai descritto questo spettacolo così sapientemente e soprattutto con tanta nitidezza, che un pochino mi è sembrato di avervi partecipato.
RispondiEliminaFranca Canfora
Adeguatissima e verosimile, sempre nel mondo dell'immaginario, la tua scelta di alludere all'attore dell'Odin Teatret non solo "protagonista" ma "forma espressiva, sostanza". Grazie, Franca, della precisazione, e di aver accettato l'invito di sedere al mio fianco al teatro "Sergio Secci" dinanzi a Eugenio Barba e a Julia Varley.
EliminaCara Cinzia, è estremamente suggestivo questo tuo saggio critico , in cui metti a confronto,la poesia di Saffo con il teatro del Maestro e grande regista pugliese Eugenio Barba , di fama internazionale.( sono orgogliosa di essere una sua conterranea!)..Come per Saffo , era importante usare una lingua chiara , per offrire una poesia accessibile a tutti e da tramandare oralmente, così Barba, coadiuvato dalla splendida attrice, julia Barney, basa il suo teatro d'avanguardia sulla gestualità e sul linguaggio dei corpi , annullando totalmente, la distanza tra attori e platea.
RispondiEliminaSono contenta, Gianna, che tu abbia apprezzato il mio saggio. Soprattutto, condivido la scelta di sottolineare l'importanza internazionale della cultura orale e gestuale che questo tuo conterraneo porta in giro per il mondo da più di mezzo secolo. Grazie.
EliminaL'arte in generale e il teatro in particolare si fondano sul meccanismo di transfert per il quale l'individuo tende a spostare schemi emozionali di un vissuto altrui alla propria esperienza. Abbandonati gli schemi del teatro classico e abbracciata la dinamica di una rappresentazione intimistica e scevra da orpelli superflui, l'attore diventa un protagonista vicino allo spettatore, tanto da riuscire a confondersi e/o fondersi con esso. Questa tensione risulta non facile ma esaustiva nel feeling che si viene a creare tra il palcoscenico e la platea astante. Bene ha illustrato la critica della Baldazzi questa rappresentazione di un archetipo ancestrale ma non per questo non attuale, e naturalmente bravo l'autore che ha saputo suscitare interesse e riflessione sull'argomento.
RispondiEliminaSono d'accordo con te, Graziano. Esiste nella drammaturgia dell'Odin Teatret un input, un archetipo ancestrale veramente affascinante, e tu hai mostrato la sensibilità per accoglierlo sull'onda lunga delle sue radici culturali, classiche e continuamente attualizzate. Grazie, inoltre, per aver apprezzato la mia recensione.
EliminaInteressante, affascinante e coinvolgente cara Cinzia l’articolata narrazione ed esposizione che hai presentato su "Ricordano Tebe”, spettacolo teatrale a cui hai assistito e interiormente “vissuto” e raffigurato con la tua consueta e raffinata sensibilità e competenza. Ho trovato attraenti e stimolanti alcune puntualizzazioni e precisazioni che hai fatto soffermandoti su alcune caratteristiche della messa in scena dell’opera, in cui gli accadimenti sembrano essere privi di precisi riferimenti materiali, di dicotomiche posizioni che demarchino e distinguano in modo chiaro il vero dal falso, il reale dall’immaginario, infrangendo ogni nesso causale. Scenari che aprono strade molteplici e potenzialmente infinite di ricerca parallela, in una condizione incerta, ma pura e trasparente, di “nudità” della coscienza che così, nel suo incedere esplorativo, riacquista la sua originaria e innata libertà di scolpirsi e modellarsi in rinnovate e sensitive “forme significanti”. Un processo questo che ritengo essenziale e peculiare anche per ogni espressione poetica in cui l’alchimia e la magia della parola siano centrali. Complimenti quindi a Julia Varley e in particolare ad Eugenio Barba per l’abilità “trasfigurativa”, per lo straordinario e significativo spessore “illusionistico” dei suoi spettacoli , capaci di scardinare, ridefinire, reindirizzare in ogni istante le visioni e l’immaginazione dello spettatore. E grazie a te Cinzia per aver condiviso come sempre, con stile eccellente e dettagliato, le tue speciali impressioni e suggestioni a riguardo
RispondiElimina- Giuseppe Guidolin -
Complimenti sinceri, caro Giuseppe, per l'eleganza e l'efficacia del lessico e della struttura mentale del linguaggio da te utilizzato per commentare il 𝘸𝘰𝘳𝘬 𝘪𝘯 𝘱𝘳𝘰𝘨𝘳𝘦𝘴𝘴 di Barba-Varley. Hai mostrato di essere, come suggeriva, nel campo della semiotica, Umberto Eco, un suo destinatario ideale. Grazie anche per aver apprezzato il mio contributo alla gioia di assistere a uno spettacolo del genere.
EliminaGrazie ancora.
Complimenti come sempre cara Cinzia per la grande competenza e trasversalità delle tue critiche. Immagino che assistere ad un lavoro del genere sia stato un bel previlegio. Barba ha davvero annullato tante delle dinamiche tradizionali col suo modo di fare teatro, e sicuramente quest'ultimo lavoro (che ancora non ho avuto il piacere di vedere personalmente) continua questa contaminazione e scoperta di metodi performativi alternativi. Grazie per gli spunti che ci offri ogni volta.
RispondiEliminaSenza dubbio sei nel giusto, caro Massimo, quando sostieni che i metodi performativi sviluppati da Eugenio Barba e dal suo Odin Teatret, da sessant'anni a questa parte, rimangano, chissà come (ma non sono un'artista e la risposta non tocca a me), tutt'ora in divenire.
EliminaGrazie per averlo sottolineato e per aver apprezzato la mia proposta di lettura di questa straordinaria performance.
Grazie.
Al cinema ma soprattutto a teatro fra ciò che avviene sullo schermo o sul palcoscenico e lo spettatore si crea come una sorta di intercapedine che chiamerei "spazio emozionale". Un luogo dove la sensibilità dello spettatore si confronta con qualcosa che, pur coinvolgendolo, è altro da lui. Al contrario il teatro di Eugenio Barba si propone come assolutamente inclusivo, usando gli attori come medium, ed è proprio questa peculiarità che tu Cinzia hai colto, cogliendone il senso che rimanda a un tempo remoto, quando la parola era anche gesto e significava molte cose. Una memoria antica la cui limpida umanità Barba ci ripropone, come un frammento archetipico che tu, fra le righe, un po' ci suggerisci. Il fascino evergreen del Mito.
RispondiEliminaTi ringrazio, Antonio, per aver potenziato l'input esclusivo della rappresentazione gestita da Eugenio Barba in termini il più possibile accessibili a tutti, rimanendo, però, sempre sul margine ineffabile e carismatico del mito da te rintracciato e incrementato.
EliminaPur avendo letto qualcosa sull'Odin Teatret a proposito del teatro di ricerca, ammetto di non aver mai assistito ad uno spettacolo di Eugenio Barba. Risulta per me, allora, vieppiù interessante la recensione puntuale e colta di Cinzia Baldazzi e mi stimola a trovare il tempo per saperne di più sull'opera del Maestro trasferitosi - diversi anni fa - nei paesi nordici.
RispondiEliminaAlberto Patelli
Grazie di cuore, Alberto. Allora alla prossima andremo insieme ad assaporare una performance del grande Eugenio che ogni volta, come tu hai intuito, ha qualcosa di nuovo da raccontare (o far raccontare) a noi tutti, anche se il messaggio attinge a fonti millenarie.
EliminaGrazie e bravissima, Cinzia, per aver condiviso la tua esperienza in un saggio puntuale e ricco di riferimenti, come tutti i tuoi articoli. Il teatro è una forma d'arte che amo moltissimo e, leggendoti, quasi mi sembra di essere spettatrice della messa in scena di "Ricordando Tebe". Un percorso e una performance che dalla tua descrizione, ma già dalla nota bravura di Barba e della Varley, si rivelano essere assolutamente coinvolgenti, traslando il Mito in uno spazio di ricerca essenziale ed emblematico, vicino al pubblico, espressione senza maschere e senza distanze.
RispondiEliminaGrazie, carissima.
Rita Stanzione
Grazie a te, Rita, per questo eccellente focus sulla teatralità di Barba, sul lavoro attoriale della Varley e delle sue compagne.
EliminaUn abbraccio, complimenti e grazie ancora.
Cara Cinzia, la tua recensione “Con Saffo, ricordando Tebe di Eugenio Barba” è veramente eccellente. Con questo saggio confermi l'alto valore critico-letterario che accompagna ogni tua critica. Complimenti .
RispondiEliminaCaro Giuseppe, la stima nutrita nei miei confronti mi onora tanto. A presto, carissimo amico.
EliminaCara Cinzia, nel ringraziarti dell'invito ad esprimere un mio pensiero in merito alla Tua sviscerante esegesi su un testo/rappresentazione teatrale e dei relativi attori sto leggendo e rileggendo nochè meditando sul mio cosa dire in materia. Se ne sarò all'altezza sarà anche piacer mio portarlo a Tua conoscenza.
RispondiEliminaBene, Pasqualino. Allora a presto.
EliminaCome sempre, un piacere leggere come interpreti, come fosse un prisma, l'insieme di significati, come oggetti polisemici, insiti nelle relazioni che portano a scoprire o riscoprire verità, facendole prima tue e rispecchiandole sul lettore, al punto di riuscire a fargli cambiare lo stato d'animo, come in teatro l'attore può riuscire a fare con lo spettatore. Complimenti a te, Cinzia, e al Maestro Barba per la bellezza che date nel vostro lavoro, evidenziando le connessioni tra le soggettività proprie e collettive e arricchendoci di nuova conoscenza.
RispondiEliminaDi certo, affascinanti e decisive, nel work in progress di Eugenio Barba in questione - come nella sua intera poetica drammatica - risultano le "connessioni tra le soggettività proprie e collettive". Tutto ciò rappresenta una vasta rete di fonti di "nuova conoscenza" alle quali tu accenni, Jose. Grazie per averle sottolineate e per apprezzare il mio tentativo, ogni volta, di promuovere, a riguardo, un punto di attenzione fondamentale nei miei scritti.
EliminaCara Cinzia, come promesso ho più volte letto la Tua esegesi e, dico subito che sono rimasto attonito di tanta Tua oceanica cultura in merito oltre a quella palesatami in poesia col mio Boati dal profondo. Evidentemente il tuo dettato può essere acquisito in svariati modi, ma vorrei sottolineare (come altri sopra) il connubbio inscindibile tra teatro e poesia ove in questi la base fondante è la parola. Hai scritto che nella rappresentazione di Barba-Varley la scena era ridotta a poche cose materiali/visive, mentre la parola/gesti dominava del tutto la scena; ciò nonostante, la platea veniva coaptata, nella sua quasi totalità, del dire e/o gesticolare degli attori tale da avere quel sentore che ogni spettatore in uno con l'attore/attrice corecitavano nella scena annullando quel divario tra recitanti e spettatori. Una poesia, se è tale, altro non fa che il lettore diviene cooperante dei versi che legge poichè il poeta, tramite il proprio linguaggio appropriato, il propro stile, crea un ponte, un varco nel quale il lettore entra nel mondo poetico dell'autore divenendone un tuttuno. RingrazioTi di cuore per l'nvito e l'onore
RispondiEliminadi commentare ma soprattutto perchè mi hai dato la possibilita di aver accresciuto, di un quid in più, il mio modesto sapere in ambito rappresentativo. Grazie Cinzia.
Carissimo Pasqualino, la ποίησις ("pòiesis"), senza dubbio, appare dotata - pure in differenti gradi di successo semantico e semiotico - delle caratteristiche unitarie da te sottolineate nei confronti di chi le accoglie. Quando poi la poesia, schematizzando, viene recitata "a voce alta" e accompagnata da gestualità ricca e accurata, allora ti cito: "il lettore (o, nel nostro caso, il pubblico del teatro) entra nel mondo poetico dell'autore diventando tutt'uno".
EliminaGrazie come sempre di apprezzare fino in fondo i miei tentativi di comunicare in termini critici i messaggi poetici che di volta in volta analizzo per voi.
Nonostante abbia avuto modo, anni fa, di studiare al DAMS di Torino il grande regista Eugenio Barba, allievo di Grotowski, fondatore dell’Odin Teatret e uno degli ultimi grandi Maestri di teatro, purtroppo non ho mai avuto l’occasione di assistere dal vivo a un suo spettacolo.
RispondiEliminaOra grazie a te, cara Cinzia, e alle tue parole sempre puntuali, interessanti e affascinanti, ricche di significati e di rimandi suggestivi, sono stata trasportata con te direttamente a teatro a vedere “Ricordando Tebe”, pur non presenziando di persona.
Ho potuto quindi immaginare l’ottima performance della bravissima attrice Julia Varley che con il suo particolare talento è riuscita a mettere in scena un qualcosa di speciale, quasi una magia, per far sì che lo spettatore fosse stimolato non solo in modo immediato, ma che si creasse un impatto emotivo tra palco e platea, cogliendo l’attenzione del pubblico e spingendolo a porsi degli interrogativi, motivo principale del lavoro teatrale.
Per questo il teatro è e sarà sempre attuale e il mito può ancora parlare alle nostre coscienze, al nostro animo: ci aiuta a esorcizzare gli aspetti più scabrosi e negativi della vita e superarli con la capacità che il teatro ci suggerisce.
Spero di avere l’occasione, in futuro, di assistere di persona a un lavoro del grande Barba per fruire della sua arte, magari in tua compagnia, avendo così, in diretta, un’analisi critica come solo tu, con la tua speciale e sconfinata competenza, riesci a realizzare.
Daniela Vigliano
RispondiEliminaSono contenta, Daniela, innanzitutto che tu abbia studiato l'Odin Teatret al DAMS di Torino, in anni nei quali Barba era già lontano da molto dall'Italia. Più di me senz'altro ne hai potuto apprezzare le proposte alternative, poiché quando l'ho conosciuto io, a metà anni '70, non possedeva ancora quell'aura di esclusività che la grandezza poetica gli ha poi giustamente attribuito. È vero, davanti o dietro le quinte, dove conduce il suo teatro, esiste qualcosa di speciale, quasi una magia, senza ricorrere a bauli con doppio fondo, fazzoletti annodati, magari cilindri con sorpresa. L’alchimia evocata, infatti, è di altra natura e grazie di aver accolto come sempre il mio tentativo di ricavarne per voi uno spazio esclusivo.
Innumerevoli le suggestioni alla lettura di quest'elzeviro di Cinzia baldazzi, a partire già dal titolo, "Ricordando Tebe". Mi rivedo ragazzo. Mi domando, con lo zeno della "Coscienza": «Vedere la mia infanzia? Quasi dieci lustri me ne separano» ("Preambolo"). Ecco la prima soglia in cui inciampo. Mi vedo (o mi rivedo?) con in mano uno smilzo librettino rosso, "La morte della Pizia" di Friedrich Dürrenmatt. Un altro federico, certo, allo specchio di sé (e di un altro Friedrich). Curiosità. Leggo per curiosità e soddisfazione: una Tebe diversa da quella che mi era stata raccontata. Già, perché è sempre diverso da come ce la raccontano: varcare la soglia non è solo atto fisico. Si vorrebbe abbracciare il mondo al di là dello specchio, emuli di Narciso in fuga da Eco. Vedere, come svevo, ciò che non siamo più, se mai lo siamo stati veramente senza la coscienza di cui parla. La soglia è la coscienza, la linea che separa la platea dal palcoscenico: nel "teatro" si magnifica il vedere del "dramma", ossia la messa in azione. Il pubblico vede agire, come gli attori vedono il pubblico: tutto appartiene a tutti, in una circolarità sottaciuta. eppure, eco segue ancora Narciso. La superficie a cristalli liquidi ci tiene al di qua o al di là? Edipo, raggiunta la conoscenza, si cava gli occhi nell'"Edipo a colono": solo così attinge la sapienza. Tebe è ormai lontana: «il sogno è l'infinita ombra del vero» (G. Pascoli, "Alexandros", II 10). Sogno e visione, eco di un'eco, voci che si rincorrono, immagini riflesse. E ancora mi rivedo ragazzo. Volevo tradurre saffo, perché Pascoli si era laureato su alceo. Quanto ci misi a confrontarmi con lei! La mia traduzione è uscita solo nel 2017 (Santarcangelo, rusconi). Si era suicidata, certo, nel teatro comico e nelle "Heroides" di Ovidio, ma nulla più che un mito eterno di bellezza. Tuffarsi dalla rupe di Leucade equivaleva a ritornare nell'immenso mare dell'armonia cosmica, dove «ripullula il frangente», perché «il varco è qui» (E. Montale, "La casa dei doganieri", 19) e «il naufragare è dolce in questo mare» (G. Leopardi, "L'infinito, 15). Tale è la "mise-en-scène" di eugenio Barba nello specchio di Cinzia baldazzi. O Così, almeno, pirandellianamente mi pare.
RispondiEliminaCaro Federico, a quale "Federico" mi rivolgo? Per me, oltre a Garcia Lorca, ci sei tu, e con la tua immensa sapienza mi suggerisci l'irraggiungibile silenzio di un grande "Ludovico". Parlo di Wittgenstein, ma anche delle maschere nude di Pirandello che, cadute in terra, a volte non parlano, piuttosto tacciono. So bene che comprenderai come rispondere con il silenzio al tuo commento, dettagliato, ricco di sorprendenti riferimenti e coinvolgente - soprattutto quando allude allo specchio della propria anima, del proprio esserci rappresentato dalla teatralità - ebbene, sia l'unica scelta adeguata ad una risposta che possa tentare di far comprendere quanto il tuo scritto mi abbia colpito, catturato, sovrastato. Ma, in linea utopica, il tuo non è però, a mio avviso, un insegnamento socratico, in quanto, quando sviluppi considerazioni a me sconosciute, non aiutano a "sapere che non so", ma a "sapere di più". E questo stato d'animo penso lo condividano tanti tuoi lettori e lettrici, che come Julia Varley-Saffo sanno di non conoscere il futuro perché lo identificano giustamente con un presente precario e deformante. Non per questo da allontanare, al contrario, ma da sfidare annientandolo con gli strumenti della conoscenza e della bellezza.
EliminaGrazie.
E così, carissima Cinzia, «al fondo della ghiaccia ir mi convegna» 117(Inf. XXXIII ), al cuore stesso del cuore umano, dove tutto si sa, eppure tutto rischia di essere rimosso da un desiderio fragile di vita, mentre «cigola la carrucola del pozzo» e il poeta-palombaro si getta nel "Porto sepolto". Questo ciò che emerge oltre il sipario del nostro nebuloso percepire, in cui solo gli altri vedono come noi siamo, a differenza di come ci vedremo - secondo il pensiero paolino (1 Cor 13,12) - là dove potremo dire «mutandom'io, a me si travagliava» (Par. XXXIII 114). Ecco dunque la funzione del poeta, narrare quelle che altro non sono se non «Degne d'un chiaro sol, degne d'un pieno / teatro, opre [...] sí memorande» (T. Tasso), "Gerusalemme liberata", XII 56, 1-2). Proprio Pirandello afferma, per bocca di Anselmo Paleari, che «il bujo non esiste». Noi, siamo noi a rischiararlo. E il poeta più di tutti gli altri, veggente com'è, spinto da quella forza per cui egli è «un che, quando / Amor gli spira, nota, e a quel modo / ch'e' ditta dentro va significando» (Purg. XXIV 52-54). Perché «est deus in nobis, agitante calescimus illo» (Ovidio, "Fasti" VI 5), perché il poeta è strumento della poesia. E così tutta l'arte e il teatro in modo sublime, al di qua e al di là della linea d'ombra che separa e non divide, perché si guarda e si è guardati. Da sempre il "templum" è spazio sacro ritagliato ("temno") dal cielo in terra, sacro, intangibile. E il Pantheon a Roma è una superba pupilla che dalla terra fissa eternamente il cielo, «dum Capitolium / scandet cum tacita virgine pontifex» (Orazio, "Carmina" III, 30, 8-9). Ogni volta che si calca la scena, quell'occhio fissa il cielo ed echeggiano nella conchiglia teognidea le onde del mare, fino a sentirsi «una docile fibra dell'universo». (G. Ungaretti, "I fiumi" 30-31).
EliminaUn commento il tuo, caro Federico, denso di ricchissime e significative citazioni. Tra le molteplici colgo quella tratta dal papà di Adriana nel "Fu Mattia Pascal" nella sua biblioteca della quale il prof. Nino Borsellino ha dichiarato: "serve come un fondale scenico per dare risalto all’istrionismo del personaggio". Un teatro in atto, dunque, anche questo.
EliminaGrazie e a presto.