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venerdì 11 aprile 2014

M. GRAZIA FERRARIS SU "IL BLOG DI LEUCADE"

Il blog di  Lèucade ed il suo appassionato dialogo a distanza.



Il mese di marzo appena concluso ha visto sul blog interventi vari, appassionati  ed articolati, di grande spessore culturale, intorno alle proposte critiche di Giorgio Linguaglossa.
 Ho seguito con perplessità prima, con stupore poi, il fiorire e l’estendersi del dibattito, che ha suscitato in me anche inconsueta ammirazione. Davvero il blog impegna le personalità più diverse!
Lo stupore unito alla curiosità intellettuale ha fatto sì che non desiderassi intervenire in prima persona, quanto piuttosto attendere con impazienza ammirata la conclusione degli apporti del vasto dibattito.
Il mio interesse autentico è nato dapprima seguendo l’intervista di N. Pardini a G. Linguaglossa e le “ruvide” risposte del critico, di cui ricordo alcune decise affermazioni:
- Ritengo che la poesia possa nascere soltanto dalla lettura di libri di altri scrittori o poeti.
 Chi fa poesia secondo i suggerimento dell'io è un cattivo poeta. L'io con la poesia non c'entra.
 La contaminazione tra le migliori scritture è la stoffa che deve formare un'opera letteraria di qualità…- E se non bastasse la esplicita  volontà dissacrante, Linguaglossa prosegue:
- Lo sperimentalismo è finito nel 1956, l'anno di pubblicazione di Laborintus di Sanguineti.
 Quando Andrea Zanzotto nel 1968 pubblica La Beltà arriva in ritardo, a quella data lo sperimentalismo, dico la sua spinta propulsiva, è già esaurito. Zanzotto è un autore post-moderno, epigono tra gli epigoni. Forse il più grande tra gli epigoni…-
È chiaro quello che intende sostenere: -  Il problema centrale per un poeta è essere fuori moda, cioè fuori contesto, non prendere mai nessuna idea dominante come verità rivelata, sottoporre tutto a una severissima vigilanza critica…- Infatti prosegue:  - Quando Montale abbandona il suo antico stile e con Satura (1971) cambia stile e accetta di misurarsi con il linguaggio relazionale della comunicazione interpersonale, compie una operazione che ha avuto una profonda influenza sulla poesia italiana che seguirà, compie un anacronismo, ma all’incontrario…-
L’idea della poesia allora, se ne deduce, come diceva Milosz, deve essere di nuovo rimeditata:
 “Ho sempre aspirato a una forma più capace, /che non fosse né troppo poesia né troppo prosa/
e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,/ né l’autore né il lettore, a sofferenze insigni.”, dice il grande poeta e critico.
Il futuro della poesia, nel rifiuto dell’epigonismo, si chiarisce, vorrà valorizzare … la <forma ibrida>- …“ né troppo poesia né troppo prosa..”
- Un grande poeta sorge soltanto quando ci si è impregnati della cultura di un'epoca e si riesce a rappresentarla in una «forma», quando accade un «evento» che mette in moto una «forma».-  “ che -non fosse né troppo poesia né troppo prosa -”
Davvero tanti spunti per riflettere, confrontarsi, distanziarsi…
Critica letteraria intrigante, mi dico, comunque: e la poesia troverà la sua strada – ibrida-?
Poi mi capita di leggere, muovendomi a caso nel web, una poesia inedita di G. Linguaglossa e ogni discorso, molto di più di ogni teoria,  mi diventa chiaro, e perfino leggero. Eccola.

Il tedio di Dio di Giorgio Linguaglossa

Guardavo al di là dei cancelli arrugginiti: transenne, cavalli di frisia e fili spinati.
«Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra,
sono colpevoli di tracotanza – mi disse una voce dal buio -
assiepate ad altre ombre vivono nell’ombra».
Oltre le transenne c’era il sole bianco.
«Il tedio di Dio è un sole bianco che si è inabissato», mormorò una voce
tra le ombre.
“È un pensiero folle”, pensai e passai oltre le ombre maledette.

«La notte è la locanda di Dio, dove Dio prende alloggio per il sonno»,
disse un’altra voce da un altoparlante nascosto chissà dove.
“Vivono di notte – pensai – le ombre bianche della polizia segreta
che sono state dismesse come un abito”.

Sopra la spalliera della sedia accanto alla sciarpa rossa del giorno
c’è un salotto scarlatto: ad una gruccia sono appese le ombre delle uniformi,
pallide linci dagli occhi squamosi;
Kafka suona il clarinetto e Mozart fa l’impiegato del catasto,
il sole bianco tramonta
tra le alghe verdi dello stagno e la polizia segreta
con uniformi militari perlustra la palude
alla ricerca del sole inabissato.
Illumino con la torcia tascabile il buio.
Periferia di una città inesistente. Palazzi e strade di vetro.
Archi e pontili precipitano nel vuoto senza spazio
bambine giocano col lullahop.
“Ma non c’è anima viva – penso con orrore -
ed io non sono nessuno…”.

«Il riso è il paradiso dell’Inferno»,
disse un’altra voce da un altoparlante posto in alto, sopra un parapetto,
ma ero sconcertato e mi affacciai a una finestra:
c’era il mare azzurro.

«Il bacio di Dio è un sole bianco – dissi tra me – che si è inabissato»;
“è un pensiero folle – pensai – non è quello che volevo dire…”

Luce ed ombra, storia e nichilismo, prigione, tragedia e ombre bianche, sole bianco inabissato, uomini senza ombre, città inesistenti, periferie senza vita, cancelli arrugginiti, transenne, cavalli di frisia e fili spinati, pensieri folli… Bambine che giocano all’hula-hoop che richiamano le piazze metafisiche di De Chirico e le solitudini stralunate di Hopper,… un vortice di emozioni.
 Un quadro inquietante ed attraente, azzardi iperbolici : «Il riso è il paradiso dell’Inferno».
Versi vitali nondimeno, sinuosi e circolari, suggestivi, turbanti, non semplici. Un “ologramma” immateriale? Un surreale Kafka che suona il clarinetto e un misterioso Mozart che fa l’impiegato del catasto… L’inconscio sconvolge l’intelligenza, deforma, reinterpreta… Sono immagini anarchiche che si fanno memoria e viceversa. Il labirinto interpretativo si chiude con la domanda iniziale e con la confessione di impotenza della parola, pur messa nel caleidoscopio della mente e agitato dalla passione interpretativa, nella interconnessioni profonde tra visioni oniriche e stratificazioni esasperate o forse solo rifratte della realtà meschina ed ordinaria

La poesia come "topologia"? Immagini audaci concatenate che dettano il ritmo poetico.
Scomparsa dell’ego? nuova poesia che sia al contempo riflessione sulla storia e una selezione di immagini povere, prosaiche?
“oggetti, i luoghi e i personaggi obbediscono a un diverso concetto di tempo e di temporalità: essi abitano non più il Presente cui siamo abituati dalla frequentazione di una poesia temporalmente lineare di scuola, ma abitano un presente assoluto che semplicemente non c'è. Il presente degli eventi di queste poesie è dato dalla molteplicità di Presenti che sono contenute in esse…”
Tiepolo, si incontra con Johannes Vermeer, Osip Mandel'štam scrive poesie per bambini,
Paganini prova l'archetto del suo Stradivari per un pubblico di oziosi.
«Che stagione è questa»?, chiede al pittore; «è vento di primavera», risponde l'usignolo
che canta a squarciagola sull’albero. Ma non è così; lo sappiamo noi/ che consideriamo le cose dalla finestra/ del XXI secolo dei tempi futuri.”
Mi pare ben dica N. Pardini:
    “Ma Linguaglossa in queste poesie riesce a travalicare la delimitazione fra spersonalizzazione emotiva e becero sentimentalismo, intuendo che dalle umili cose possono nascere grandi abbrivi poetici; con imperfetti, magari, che sanno tanto di memorie; ed è così che l’arte va al di là degli individualismi settoriali, quando si traduce in messaggio universale:
“… Dalla finestra aperta entrava il vento del Nord
rimbalzava sugli stipiti delle porte spalancate
e si posava sulle tue mani di madreperla…”.

                                            Maria Grazia Ferraris


2 commenti:

  1. mi complimento con l'intelligente intervento di Maria Grazia Ferraris che ha saputo compendiare con molta precisione la mia visione della poesia e dell'attività critica che affianca sempre il lavoro poetico.

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  2. Condivido e sottoscrivo gli apprezzamenti di Maria Grazia Ferraris in merito alla poesia di Giorgio Linguaglossa. E' un canto fresco, zampillante e gradevole che sorge e gorgoglia dal cuore della storia, con gioiosa forza esplosiva. Un teatro di frammenti mnemonici che non vengono elaborati intellettualmente, ma che si proiettano da se stessi sulla scena, e lo fanno caoticamente (creativamente) senza obbedire ad urgenze cronologiche di tipo razionale. E' il movimento della risacca, che porta a riva, alla rinfusa, e poi riporta in mare aperto, brandelli di civiltà presenti e passate, spezzoni di segni, linguaggi e simboli affioranti dal pozzo senza fine delle culture e del cuore dell'umanità. Forse i lettori di questo blog, avendo letto alcune mie recenti note tese a contrastare l'impostazione critica del noto autore, resteranno spiazzati da tale mia incondizionata ammirazione, ma in tutta franchezza io ravviso una discrepanza tra il critico ed il poeta, che vorrei qui provare a delineare. A mio parere, qualsiasi argomento (politico, sociale, religioso, erotico, metafisico, eccetera) può essere adatto a tradursi in poesia (quindi anche questo), purché ci sia il poeta che sappia cogliere i lati sottili della vita, trasformando la realtà in simbolo, la particolarità in universalità. Ed è fuori di dubbio che il poeta in questo caso c'è. Bisogna distinguere il vestito che di volta in volta la poesia può indossare, dalla poesia stessa, che è e resta un fatto coscienziale. La poesia non nasce dalla storia, come non nasce dalla scienza o dalla religione, o dalla filosofia, ma nasce dalla coscienza che di tutto ciò l'uomo ha. Intendo dire che non è la storia a scrivere (come non è Dio, o altre cose), bensì l'uomo, l'umanità. Che poi quest'uomo, per raggiungere la vera coscienza (che è sempre coscienza cosmica) debba superare le angustie dell'Ego, trova in me un grande alleato, e non un oppositore. Un conto è l'Ego, un conto è il Sé.
    Franco Campegiani

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