Il
blog di Lèucade ed il suo appassionato
dialogo a distanza.
Il
mese di marzo appena concluso ha visto sul blog interventi vari, appassionati ed articolati, di grande spessore culturale, intorno
alle proposte critiche di Giorgio Linguaglossa.
Ho seguito con perplessità prima, con stupore poi,
il fiorire e l’estendersi del dibattito, che ha suscitato in me anche
inconsueta ammirazione. Davvero il blog impegna le personalità più diverse!
Lo
stupore unito alla curiosità intellettuale ha fatto sì che non desiderassi
intervenire in prima persona, quanto piuttosto attendere con impazienza ammirata
la conclusione degli apporti del vasto dibattito.
Il mio
interesse autentico è nato dapprima seguendo l’intervista di N. Pardini a G.
Linguaglossa e le “ruvide” risposte del critico, di cui ricordo alcune decise
affermazioni:
- Ritengo che la poesia possa nascere
soltanto dalla lettura di libri di altri scrittori o poeti.
Chi fa
poesia secondo i suggerimento dell'io è un cattivo poeta. L'io con la poesia
non c'entra.
La
contaminazione tra le migliori scritture è la stoffa che deve formare un'opera
letteraria di qualità…- E se non bastasse la esplicita volontà dissacrante, Linguaglossa prosegue:
- Lo sperimentalismo è finito nel 1956, l'anno
di pubblicazione di Laborintus di Sanguineti.
Quando Andrea Zanzotto nel 1968 pubblica La
Beltà arriva in ritardo, a quella data lo sperimentalismo, dico la sua spinta
propulsiva, è già esaurito. Zanzotto è un autore post-moderno, epigono tra gli
epigoni. Forse il più grande tra gli epigoni…-
È
chiaro quello che intende sostenere: - Il problema centrale per un poeta è essere
fuori moda, cioè fuori contesto, non prendere mai nessuna idea dominante come
verità rivelata, sottoporre tutto a una severissima vigilanza critica…- Infatti
prosegue: - Quando
Montale abbandona il suo antico stile e con Satura (1971) cambia stile e
accetta di misurarsi con il linguaggio relazionale della comunicazione
interpersonale, compie una operazione che ha avuto una profonda influenza sulla
poesia italiana che seguirà, compie un anacronismo, ma all’incontrario…-
L’idea
della poesia allora, se ne deduce, come
diceva Milosz, deve essere di nuovo rimeditata:
“Ho
sempre aspirato a una forma più capace, /che non fosse né troppo poesia né
troppo prosa/
e
permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,/ né l’autore né il lettore,
a sofferenze insigni.”, dice il grande poeta e critico.
Il futuro
della poesia, nel rifiuto dell’epigonismo, si chiarisce, vorrà valorizzare … la
<forma ibrida>- …“ né troppo poesia né troppo prosa..”
- Un grande poeta sorge soltanto
quando ci si è impregnati della cultura di un'epoca e si riesce a
rappresentarla in una «forma», quando accade un «evento» che mette in moto una
«forma».- “ che -non fosse né troppo
poesia né troppo prosa -”
Davvero
tanti spunti per riflettere, confrontarsi, distanziarsi…
Critica
letteraria intrigante, mi dico, comunque: e la poesia troverà la sua strada
– ibrida-?
Poi mi
capita di leggere, muovendomi a caso nel web, una poesia inedita di G.
Linguaglossa e ogni discorso, molto di più di ogni teoria, mi diventa chiaro, e perfino leggero. Eccola.
Il
tedio di Dio di Giorgio Linguaglossa
Guardavo
al di là dei cancelli arrugginiti: transenne, cavalli di frisia e fili spinati.
«Qui
ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra,
sono
colpevoli di tracotanza – mi disse una voce dal buio -
assiepate
ad altre ombre vivono nell’ombra».
Oltre
le transenne c’era il sole bianco.
«Il
tedio di Dio è un sole bianco che si è inabissato», mormorò una voce
tra le
ombre.
“È un
pensiero folle”, pensai e passai oltre le ombre maledette.
«La
notte è la locanda di Dio, dove Dio prende alloggio per il sonno»,
disse
un’altra voce da un altoparlante nascosto chissà dove.
“Vivono
di notte – pensai – le ombre bianche della polizia segreta
che
sono state dismesse come un abito”.
Sopra
la spalliera della sedia accanto alla sciarpa rossa del giorno
c’è un
salotto scarlatto: ad una gruccia sono appese le ombre delle uniformi,
pallide
linci dagli occhi squamosi;
Kafka
suona il clarinetto e Mozart fa l’impiegato del catasto,
il
sole bianco tramonta
tra le
alghe verdi dello stagno e la polizia segreta
con
uniformi militari perlustra la palude
alla
ricerca del sole inabissato.
Illumino
con la torcia tascabile il buio.
Periferia
di una città inesistente. Palazzi e strade di vetro.
Archi
e pontili precipitano nel vuoto senza spazio
bambine
giocano col lullahop.
“Ma
non c’è anima viva – penso con orrore -
ed io
non sono nessuno…”.
«Il
riso è il paradiso dell’Inferno»,
disse
un’altra voce da un altoparlante posto in alto, sopra un parapetto,
ma ero
sconcertato e mi affacciai a una finestra:
c’era
il mare azzurro.
«Il
bacio di Dio è un sole bianco – dissi tra me – che si è inabissato»;
“è un
pensiero folle – pensai – non è quello che volevo dire…”
Luce
ed ombra, storia e nichilismo, prigione, tragedia e ombre bianche, sole bianco
inabissato, uomini senza ombre, città inesistenti, periferie senza vita,
cancelli arrugginiti, transenne, cavalli di frisia e fili spinati, pensieri
folli… Bambine che giocano all’hula-hoop che richiamano le piazze metafisiche
di De Chirico e le solitudini stralunate di Hopper,… un vortice di emozioni.
Un quadro inquietante ed attraente, azzardi
iperbolici : «Il riso è il paradiso dell’Inferno».
Versi
vitali nondimeno, sinuosi e circolari, suggestivi, turbanti, non semplici. Un “ologramma”
immateriale? Un surreale Kafka che suona il clarinetto e un misterioso Mozart
che fa l’impiegato del catasto… L’inconscio sconvolge l’intelligenza, deforma,
reinterpreta… Sono immagini anarchiche che si fanno memoria e viceversa. Il
labirinto interpretativo si chiude con la domanda iniziale e con la confessione
di impotenza della parola, pur messa nel caleidoscopio della mente e agitato
dalla passione interpretativa, nella interconnessioni profonde tra visioni
oniriche e stratificazioni esasperate o forse solo rifratte della realtà meschina
ed ordinaria
La
poesia come "topologia"? Immagini
audaci concatenate che dettano il ritmo poetico.
Scomparsa
dell’ego? nuova poesia che sia al contempo riflessione sulla storia e una
selezione di immagini povere, prosaiche?
“oggetti,
i luoghi e i personaggi obbediscono a un diverso concetto di tempo e di
temporalità: essi abitano non più il Presente cui siamo abituati dalla
frequentazione di una poesia temporalmente lineare di scuola, ma abitano un
presente assoluto che semplicemente non c'è. Il presente degli eventi di queste
poesie è dato dalla molteplicità di Presenti che sono contenute in esse…”
Tiepolo,
si incontra con Johannes Vermeer, Osip Mandel'štam scrive poesie per bambini,
Paganini
prova l'archetto del suo Stradivari per un pubblico di oziosi.
«Che
stagione è questa»?, chiede al pittore; «è vento di primavera», risponde
l'usignolo
che
canta a squarciagola sull’albero. Ma non è così; lo sappiamo noi/ che
consideriamo le cose dalla finestra/ del XXI secolo dei tempi futuri.”
Mi
pare ben dica N. Pardini:
“Ma Linguaglossa in queste poesie riesce a
travalicare la delimitazione fra spersonalizzazione
emotiva e becero sentimentalismo, intuendo che dalle umili cose possono
nascere grandi abbrivi poetici; con imperfetti, magari, che sanno tanto di
memorie; ed è così che l’arte va al di là degli individualismi settoriali,
quando si traduce in messaggio universale:
“…
Dalla finestra aperta entrava il vento del Nord
rimbalzava
sugli stipiti delle porte spalancate
e si
posava sulle tue mani di madreperla…”.
Maria Grazia Ferraris
mi complimento con l'intelligente intervento di Maria Grazia Ferraris che ha saputo compendiare con molta precisione la mia visione della poesia e dell'attività critica che affianca sempre il lavoro poetico.
RispondiEliminaCondivido e sottoscrivo gli apprezzamenti di Maria Grazia Ferraris in merito alla poesia di Giorgio Linguaglossa. E' un canto fresco, zampillante e gradevole che sorge e gorgoglia dal cuore della storia, con gioiosa forza esplosiva. Un teatro di frammenti mnemonici che non vengono elaborati intellettualmente, ma che si proiettano da se stessi sulla scena, e lo fanno caoticamente (creativamente) senza obbedire ad urgenze cronologiche di tipo razionale. E' il movimento della risacca, che porta a riva, alla rinfusa, e poi riporta in mare aperto, brandelli di civiltà presenti e passate, spezzoni di segni, linguaggi e simboli affioranti dal pozzo senza fine delle culture e del cuore dell'umanità. Forse i lettori di questo blog, avendo letto alcune mie recenti note tese a contrastare l'impostazione critica del noto autore, resteranno spiazzati da tale mia incondizionata ammirazione, ma in tutta franchezza io ravviso una discrepanza tra il critico ed il poeta, che vorrei qui provare a delineare. A mio parere, qualsiasi argomento (politico, sociale, religioso, erotico, metafisico, eccetera) può essere adatto a tradursi in poesia (quindi anche questo), purché ci sia il poeta che sappia cogliere i lati sottili della vita, trasformando la realtà in simbolo, la particolarità in universalità. Ed è fuori di dubbio che il poeta in questo caso c'è. Bisogna distinguere il vestito che di volta in volta la poesia può indossare, dalla poesia stessa, che è e resta un fatto coscienziale. La poesia non nasce dalla storia, come non nasce dalla scienza o dalla religione, o dalla filosofia, ma nasce dalla coscienza che di tutto ciò l'uomo ha. Intendo dire che non è la storia a scrivere (come non è Dio, o altre cose), bensì l'uomo, l'umanità. Che poi quest'uomo, per raggiungere la vera coscienza (che è sempre coscienza cosmica) debba superare le angustie dell'Ego, trova in me un grande alleato, e non un oppositore. Un conto è l'Ego, un conto è il Sé.
RispondiEliminaFranco Campegiani