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lunedì 30 agosto 2021

GIOVANNA DE LUCA: "INEDITI"

A  UN  ALBERO

 

Siedo davanti a te, e ti guardo.

Qui ho trovato ombra, qui ho riposato

le mie inquietudini.

La mente ora le fugge, io ti osservo.

Grande hai il tronco, alto e possente, nudo,

e intrecciato di armoniose vene, braccio

di gigante, appoggio, sicurezza, salda

vita per i viandanti incerti.

Alta la chioma fitta lascia solo qualche

traccia di cielo, tra un ramo e l’altro.

Col cielo hai stretto un patto: lui così

lontano a proteggerci, tu più vicino

lenisci il nostro andare.

Ti guardano sul serio, gli uomini?

Pensano a quanta vita ti scorre dentro,

a come ti rinnovi pensando a noi, a come

ti doni sempre?

Hai un’anima, io credo: soffri dei nubifragi,

del vento e della sete. Godi il sentirti vivo

nel rifiorire della primavera, ma non temi

l’inverno, quando come in un grembo

alimenti la vita.

Ti tocco, lascio la mano un poco

sul tuo tronco. Vorrei sentire

come batte il tuo cuore.

GdL

 

AGOSTO E UN 'ESTATE


(19 agosto 2020)

Culmina e discende già l'estate,

nel fresco rivelarsi del mattino,

e un soffio bruno al crepuscolo

copre l'insistente lucentezza

del giorno.

Ma lievi cenni tra le ricche fronde

insinuano il pensiero di una fine:

e mi siedo a osservare e attendo

del giorno l'ultima goccia di luce.

E non so dire se questo che vedo

tramonto di un'estate altro non sia

che lo specchio del mio pensiero.

GdL


LUNA

(21/08/2021- ore 01:43)

Fu la notte , o la luna?

Tondo frutto del cielo,

chicca per anime golose!

Fu la notte, o la luna

la ladra del mio sonno?

Gialla levigata perfetta,

luna pagana, luna ingannatrice

come un sorriso che non dice il vero,

vanitosa vetrina, notturna seduzione

allarga la tua mano,

prendimi!

 

 

 

 

 

 

                                    

 

 

domenica 29 agosto 2021

CARMELO CONSOLI LEGGE: "BORGHES" DI STEFANO BALDINU

 

Commenti su “ Boghes” di Stefano Baldinu


Difficilmente capita di imbattersi  in un poeta totalmente radicato nell’humus della sua terra e follemente innamorato  delle etnie a cui appartiene come Baldinu, capace di comporre un volume di poesie di rara bellezza e potenza d’espressione dedicato alla sua terra di Sardegna.

Stefano Baldinu, che conosco da tempo per comuni frequentazioni di concorsi letterari, è uomo serio e amico sincero; una persona che istintivamente si stima intuendone le profonde qualità e capacità umane e poetiche.

Nel tempo della nostra comune conoscenza ho avuto modo di ascoltare  e leggere le sue liriche, spesso nel contesto di cerimonie di premiazioni letterarie, apprezzandone l’intenso e prezioso fraseggio poetico da lui utilizzato, la musicalità dei versi , lo stupore e la trasmutazione del cuore e dell’anima, che solo un vero poeta ha, nei confronti della natura e degli accadimenti della vita.

Ma la lettura e l’ascolto di singole poesie non bastano a focalizzare il DNA poetico ed umano di un autore anche se capace e pluripremiato come Stefano e sono solo punte di un territorio vasto e sommerso il cui contenuto magico e misterioso si svela nella sua totalità attraverso la pubblicazione di una silloge.

Una silloge appunto partorita da una intima esigenza di cantare la propria storia e l’altrui esistenza nel contesto di una terra straordinaria, fortemente caratterizzata da popoli e leggende, da nature selvagge e panorami splendidi, da fatiche e sofferenze, gioie e canti, da tradizioni e costumi millenari.

Il libro “Boghes” dell’amico Baldinu mi pare che sia stato frutto di  una impresa epica e di notevolissimo spessore, un vero cielo aperto su stupefazioni e asprezze di  un territorio antichissimo e avvolto ancora oggi  nei suoi misteriosi anfratti, tra vecchi sentieri e profumi aspri e dolci, malinconiche sfumature del cielo, e ancora tra voci sognanti e rassegnate, timide e coraggiose che si rifugiano nelle stagioni dell’anima, nei suoni della pioggia  e nel canto dei grilli;  un impresa ancora più da ammirare in quanto corroborata e irrobustita da un studio serissimo e amplissimo sui tanti linguaggi che caratterizzano la terra sarda.

Una carrellata magnifica e altamente musicale di dialetti da quelli Logudorese  e Campidanese a quelli Sassarese, Gallurese, Algherese e Tabarchino.

Dunque un volume che si dimostra una miscela di alta poesia e preziosa ricerca antropologica del linguaggio che ne fa un contenitore davvero formidabile.

Ma questo contenitore si arricchisce anche di liriche colme di umanità e pietas umana nel raggiungere e cogliere le disumanizzazioni profonde di una società emarginata, sofferente, vittima di ogni abuso.

Aggiungerei anche che molto preziosi e profondi sono i significati che Baldinu attribuisce alla Morte e al Silenzio, due entità  fortemente presenti nelle comunità isolane e da sempre foriere di speranza, rinascita e cariche di atmosfere di arcaico fascino.

Sono convinto che “ Boghes” di Stefan Baldinu si imporrà alla attenzione di un’ ampia critica letteraria  per le sue alte qualità poetiche capaci di offrire al lettore splendidi orizzonti,  fragranze incontaminate, storie e leggende  di una terra affascinante  e riscoperta nei suoi idiomi come la Sardegna, il tutto contrassegnato da uno  sguardo di profonda umanità.

Carmelo Consoli

 

 

 

sabato 28 agosto 2021

PASQUALE BALESTRIERE LEGGE: "ED E' UN MIRACOLO IL VOLO DEGLI UCCELLI" DI G. CECCAROSSI

  

PASQUALE BALESTRIERE;
COLLABORATORE E COFONDATORE DEL BLOG
ALLA VOLTA FDI LEUCADE


GIANNICOLA CECCAROSSI. ED È UN MIRACOLO IL VOLO DEGLI UCCELLI

Ibiskos Ulivieri, Empoli, 2021

 

“Nomen omen” verrebbe da dire collegando il titolo di questa silloge – cioè il “miracoloso” volo degli uccelli-  ai lacerti poetici che la costituiscono e che si qualificano per una diffusa levità di scrittura, per una dolcezza verbale affabulante, per un senso di misura ed eleganza rappresentativa che immediatamente si impongono all’attenzione di chi si accinge alla scoperta di quest’opera. Si avverte qui il tocco aereo di un animo gentile e musicale che si piega alla lettura e all’auscultazione dei due mondi -quello interiore e quello esterno-  con i quali intreccia dialoghi che si risolvono in versi e si fissano in poesia.

Si annuncia dunque dal titolo (il verso eponimo è a pag. 14), dal leggero volo degli uccelli, il tono carezzevole e fascinoso di questa poesia sussurrata e discreta che, a mio parere, discende direttamente da un aspetto caratteriale del suo facitore, il quale non ama clamori e rifugge dall’ostentazione. E danzano questi versi, intessono melodie, cercano le corde del cuore; e trovano  il loro spazio ideale in quel territorio che vede l’interazione dei due mondi suddetti e ne rappresenta il punto di equilibrio, perché non sono ignoti a Ceccarossi i rischi che potrebbero derivare dall’ intimismo o dal solipsismo da un lato e dal descrittivismo o dall’ oggettivismo dall’altro: peccati da cui non è affatto immune la poesia del nostro tempo. 

Perciò nei versi del poeta romano sono fitte le presenze “naturali”: dai luoghi (boschi, giardini, orti, foreste, deserti, mare) agli elementi, componenti e fenomeni (acqua, vento, luna, onde, piogge, sole, comete, sabbia, cirri), dal mondo botanico ( platani, clizie, cedri, aranci, lecci, querce, trifogli, corimbi, virgulti, petali, ghiande, canneti, gigli, spighe, papaveri, alghe) a quello zoologico (navoncelle, frosoni, balestrucci, tortore, capinere, passeri, cicale). Tale dovizia di presenze attesta e certifica la sostanza terrena di una poesia pronta a levarsi in “volo”, in slanci di purezza e di elevazione, ma che non può -non vuole!- staccarsi completamente da una realtà circostante così fervida di bellezza e di vita, così familiare e serenante (“Si aleggia lievemente / ma non ci si stacca dai canneti”, pag. 24). Certo, magari l’anima troverà spazi e recessi idonei alla sua natura, il locus amoenus cercato e infine rinvenuto, sia pure per un attimo,  lungo un’eternità. Ma anche questa sublimazione o catarsi reca con sé l’eco profonda di una terrenità incalzante, di una corporeità mai rinnegata. Necessarie, a questa poesia che vive il brivido dell’alba, la distesa serenità del giorno e, con una qualche preoccupazione almeno nella circostanza che segue, l’oscurità della notte (“Non fatemi spegnere al buio! / Che sia la luce a togliermi il respiro.” pag. 15). Che belli il novenario e l’endecasillabo appena sussurrati, sciolti in preghiera!

Accanto e dentro questo sentimento della natura trova spazio e accoglienza il lessico dell’anima, di un’interiorità matura e piena, ora lieta ora dolente, ma sempre alimentata dalla speranza. Ma ascoltiamolo, anzi “sentiamolo” questo canto, che si distende in versi di varia misura e di intime vibrazioni: “E ci avvolge l’allegria / l’odore dei tagli d’erba/ l’aurora che accoglie stormi / il murmure placido del tramonto / E a ogni risveglio è un sussurro d’amore”, pag. 23; oppure: “ Scruto le mie rughe / e confido in uno strido /che dispiumi l’incubo degli anni”, pag. 32; o anche: “Frinivano la cicale / e si sbrogliava l’attesa per quegli attimi / gelosi  del tempo che incantava (...) Eravamo soli con l’amore negli occhi”, pag. 33.  E a me pare che l’amore, nelle sue varie forme e manifestazioni, sia, oltre ogni dubbio esistenziale,  il filo rosso che lega intimamente la silloge e la corrobora nella sua sostanza poetica ; dove il pronome/soggetto “noi” indica una pluralità, più che una duplicità; e ha eco umana e universale. Dunque l’amore che si fa poesia, ma che è anche vissuto attraverso la poesia, si offre ad un’ambivalenza poetico-semantica che fluisce ex cordis plenitudine di Giannicola Ceccarossi e che si accorda a un senso di diffusa e, talvolta, inquieta tenerezza.

C’è un aspetto della silloge – corredata  dell’importante prefazione di Emerico Giachery - che mi ha incuriosito: l’impiego, non infrequente,  di termini piuttosto inconsueti se non addirittura rari o peregrini. Sono voci verbali, che riporto fedelmente, proprio come appaiono nel libro   (“demaglia, essuda, invermiglio, dispiumi,  distornare, riddiamo, alitiamo, bruire,  defogliano, raggia ...”), e nominali ( “asolo, particole, navoncelle,  murmure, galaverna, cinigie, zefiro, cordigli, corimbi ...” ), le quali  “scartano” rispetto al lessico usato,  che -in senso proprio e denotativo- appartiene a un registro linguistico medio;  e che poi , tra le mani di Ceccarossi, si connota  per semantica creativa e assurge a linguaggio poetico. E mi sono detto che quelle parole poco usate  trovano quella collocazione e  quell’impiego che al poeta sono parsi più propri nei determinati contesti; perché la selezione verbale nell’atto poetico non deve rispondere a criteri di razionalità ma alla necessità di dire il mondo interiore quanto più fedelmente possibile; sicché, più del poeta, il linguaggio e le sue forme li sceglie il daimon creativo,quella forza  non meglio identificata che sollecita, e addirittura costringe,  a scrivere poesia.

Ciò detto, mi resta da notare che i  24 tempi lirici, che formano e scandiscono la silloge, rispondono altresì all’esigenza di realizzare un’atmosfera di pura suggestione musicale, alimentata da scelte metriche e ritmiche che privilegiano una versificazione libera, sì, ma attenta alle diverse misure che cooperano a produrre  armonia; perché, in fondo, la poesia di Giannicola Ceccarossi  è pura sinfonia; cioè mero godimento spirituale.

                                                                                                                       Pasquale Balestriere

 

 

MARCO ZELIOLI LEGGE: "IL TRENO E IL PIOPPO" DI GIUSEPPE BERTON

 

Giuseppe Bertòn

IL TRENO E IL PIOPPO

Recensione di Marco Zelioli

Nella  collana di testi letterari “Alcyone 2000”, Guido Miano Editore propone la raccolta di Giuseppe Bertòn Il treno e il pioppo, impreziosita dalla versione in Inglese curata da Luisa Randon, che sa rendere molto bene il senso e la musicalità dei versi dello scrittore di Conegliano Veneto. Il libro è suddiviso in sei brevi sezioni: L’ultima sera dell’anno; Marocco; Mille anni; Una volta ho scritto una poesia; Alla luna; Senza fine; in totale ventiquattro poesie.

Davvero, come scrive nella prefazione Enzo Concardi, “il ‘sound’ del libro è forse in qualche modo poetico-rock” (soprattutto nelle tre poesie che compongono Una volta ho scritto una poesia, “ispirate e rispettosamente dedicate”, come scrive in nota il Bertòn, alla musica dei “Van der Graaf Generator” – un gruppo rock progressive inglese che ebbe un certo successo negli scorsi anni ’70); il tutto collocato in un un bel ‘mix’ di ellenismo mitologico (si vedano le terzine di Mille anni, pp.30-32), di classicismo leopardiano, di romanticismo misterico.

Non è un caso, credo, che nella poesia In un sospiro non ci sia punteggiatura: perché forse lo scrittore vuol dirci, come dice alla donna amata, che tutta la vita, in fondo, è un sospiro – e i sospiri non finiscono con i punti o le virgole, pur punteggiando la vita di ognuno, in qualche lungo o breve momento dei Mille anni che intitolano la terza parte della raccolta, e fanno pensare, perché, come troviamo scritto nell’omonima poesia: “Un dolore antico, quasi nascosto, / nelle radici della vita, nei tuoi occhi profondi, / attraversa il nostro sguardo” (p.31 – traduzione inglese a p.71).

Quello che il Bertòn delinea in questa raccolta sembra un itinerario di ricerca; meglio, in ricerca: della vita, del suo senso ultimo, in un cammino a volte incerto ma fiducioso, perché qualcosa ci segna il cammino, come “Il faro, luce fioca, ancora lontana, / forse ci condurrà / in un porto tranquillo” (Il faro, una delle tre poesie ispirate/dedicate ai Van der Graaf Generator, p.36). Forse segno di una fede resiliente. Certamente una ricerca interiore del senso del tempo che passa: dapprima visto quasi come un non senso: “E pensavo come pensiamo il tempo, / che i fisici misurano, i poeti soffrono, / i religiosi credono infinito. // Io penso che il tempo è un’illusione, / è solo un’illusione in questa vita sconosciuta. / E vale meno di un bacio” (ultimi sei versi de Il tempo, p.14); poi ‘rivalutato’, quasi come elemento di paragone con qualcosa che si sente eterno, l’amore: “Guardavo il mio amore, / e sentivo le cose intorno, cambiare. / Sentivo lo spazio ed il tempo modificarsi, / come la gravità modifica lo spazio-tempo // intorno all’universo. / Dove lo spazio è diverso, dove il tempo è diverso. / Dove il giorno è diverso. / Mentre guardavo il mio amore” (così le ultime due strofe de Il giorno, p.22). È il tempo del viaggio della vita, il cui emblema è Il treno (“Il treno passa / nella notte, / insieme alle nostre anime. / La luna illumina il treno. / Una stella illumina le nostre anime”, p.51), alla ricerca della stabilità dell’anima, il cui emblema è il pioppo – il tutto mirabilmente indicato in questi versi della poesia che dà titolo al libro: “Il treno mostrava di essere contento, / ma nessuno sapeva se era vero. / Quello che conta non è quello che mostra. // Il pioppo mostrava di essere triste. / ma nessuno sapeva se era vero. / Quello che conta è quello che nasconde.” (p.29). Poche, chiare parole, versi che filano via come le ruote del treno sui binari, come il vento nelle chiome dei pioppi – e ci fanno pensare.

A ragione il Bertòn nella Nota biografica che chiude il libro afferma: “Non serve un dizionario per comprendere i versi”. È proprio così, se un poeta, come lui è, scrive col cuore (e mi si perdoni l’involontaria ironia, dato che il Bertòn non solo è poeta, ma di professione cardiologo).

Marco Zelioli

Giuseppe Bertòn, Il treno e il pioppo, pref. Enzo Concardi, trad. in inglese di Luisa Randon, Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 100, isbn 978-88-31497-61-9, mianoposta@gmail.com.

 

 

 

 

giovedì 26 agosto 2021

NAZARIO PARDINI LEGGE: "L'INCANTO DELLA NATURA" DI ESTER FRANZIL



Ester Franzil

L’INCANTO DELLA NATURA 

Recensione di Nazario Pardini


 







SANTA CHIARA 

Povera signora

adamantina, dolce vergine

splendente creatura

soave amica.

Ardente sogno del poverello

arpa del giullare divino

nella calda tua tenerezza

il cantico sbocciò

dalla sfolgorante cecità.

Intrepida e coraggiosa

fluida fonte di carità

specchio limpido dell’amore di Cristo.

 

Iniziare la mia lettura da questa poesia incipitaria significa andare fin da subito nell’animo fecondo e ispirato dell’autrice che fa della Natura la reificazione di un essere tutto vòlto a respirare aria di campo, voci di rami, fremiti di vento, per farne alito di Dio. Tutto è naturale, tutto è frullio di suoni, tutto è sacralità, spiritualità, ontologico abbrivo in questa silloge. Sembra che la poetessa in braccio alla Natura abbia scorso prati e monti fioriti, che lasciano il segno nella sua vicissitudine, per cui lo stesso memoriale si fa canto, armonia, quando rincasa dalla sua corsa su mari di erbe e di acque di emozionate inclusione. Questa è la poetica di Ester Franzil: un canto pieno di abbrivi e di scosse vertiginose che giocano un ruolo determinante nel corso della silloge. Fino al punto che lo stesso autunno si riveste di grazia e spiritualità da dismettere la sua funzione poetica di fine per assumere quella della rinascita “di un’autunnale lacustre alba”. Un respiro tremulo di una irreale mattina limpida, elettrica sulla linea dell’orizzonte. Tutto è sereno, cristallino in questa vicenda esistenziale, tutto assume carattere di spirituale richiamo, di escatologico connubio divino. La Natura si fa calda e coinvolgente, tanto che ogni suo palpito è fremito di un Creatore che tutto avvolge e significa: “Immenso tremulo respiro/ incipiente letargo autunnale/ irreale mattina/ limpida, elettrica/ incise le pure vette/ sulla linea dell’orizzonte.// Assonnata ti sveli/ al timido sbadigliante solicello.” (Autunnale lacustre alba).

Il vezzeggiativo rende ancora più iconica l’immagine della fusione in un panismo riposante e sereno. Il chiarore e il lucore si fanno interpreti principali, attori primi, nella reificazione di un animo negli àmbiti naturali. Amore, armonia, creazione, e volo verso un mondo di totale fratellanza, dove la Natura rivela tutte le sue cromatiche pulcritudini per assecondare la confessione di uno spirito che in essa vede la sua realizzazione: “Ardente grembo/ abbaglio luminoso/ vitale vampa.// Colori di spiagge/ arsura di stoppie/ vertigine di meriggi/ ebbrezza di aromi/ schianto di tempeste.// Esplosione di luce nel cosmo/ perdermi in te…/ Come nell’amore/ ritrovarmi nell’oceano/ di un mistero gaudioso.” (Estate). Tutto si fa luce, splendore, ardente grembo, abbaglio, ebbrezza, esplosione; l’estate dà il meglio di sé per assecondare il respiro epigrammatico che fuoriesce da un animo in preda ad una totale fusione. Ed è nell’attesa di un nuovo giorno, di una nuova luce che la poetessa vive gli attimi superbi dell’amore divino: “Nella dormiente radura/ conchiglia di quiete/ pascolo l’anima mia.// Nel trepidante bosco/ la mia tristezza ho smarrito…// Il cuore della notte/ rugiada stilla/ d’amore la foresta palpita.// Gli uccelli notturni/ silenzio piangono.// Il religioso raccoglimento/ la nuova alba attende.// È un solo fremito/ il tenero mattino/ ai lembi dell’aurora sono inginocchiata;/ per me sboccerà il sole.” (Attesa). Forse è in questa lirica che la poetessa raggiunge il meglio della sua ispirazione; è qui che ogni lembo della Natura offre i suoi palpiti per concretizzare gli input emotivi che dentro le covano: inginocchiata all’aurora in attesa della luce del sole, il tenero mattino è un solo fremito, la foresta palpita, gli uccelli notturni piangono silenzio. Un’armonia di suoni di colori, di luci verso cui è diretta l’intenzione di Ester Franzil. È una sinfonia in crescendo che attraverso l’Euforia delle rose: “…Cielo di glicine…/ Dolci i miei sospiri,/ miele la mia voce.”; Il Bosco invernale: “Ma già sui turgidi apici/ di nere trame fremono gemme.// In dormiveglia stregato, il bosco/ l’annunciata primavera sogna.” (Bosco invernale); l’Autunnale sinfonia: “… Abbaglia il nuovo giorno/ in trasecolato splendore/ da gelido vento arpeggiato.” (Autunnale sinfonia), si prolunga mantenendo il solito tema musicale, fatto di andate e ritorni, tipo coro muto della Butterflay o tristezza di Chopin, fino all’esplosione finale in cui la poetessa dà tutta se stessa all’immagine di una neve che si scioglie alla stregua di un sogno: “Neve birbante/ troppo presto ti sciogli/ svanito sogno.”.

Nazario Pardini


Ester Franzil, L’incanto della Natura, prefazione di Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 70, isbn 978-88-31497-44-2; mianoposta@gmail.com.

 

mercoledì 25 agosto 2021

ENZO CONCARDI LEGGE: "OLTRE IL TEMPO" DI ANTONIO COSTANTINO



Antonio Costantino

OLTRE IL TEMPO 

Recensione di Enzo Concardi 

 

Oltre il tempo, oltre questo nostro tempo terrestre che ci è stato dato per vivere, oltre questa nostra vicenda umana che si dipana spesso con irrazionalità tra mille incertezze e dubbi, non sappiamo cosa esiste, non sappiamo cosa ci aspetta. Potrebbe apparire questa posizione di Costatino – che caratterizza la sua poetica esistenziale – un atteggiamento agnostico nei confronti dei quesiti, dei perché della vita, sui quali tutti almeno una volta ci siamo interrogati. Tuttavia propendo per un’altra interpretazione dell’inquietudine del poeta: egli si misura essenzialmente con le dimensioni del mistero, dell’arcano, dell’enigma che avvolgono la nostra parabola biologica e spirituale e con ciò si avventura in un terreno antropologico e religioso in senso ampio, sulle tracce di una ricerca dell’identità e del destino dell’individuo e del senso della storia. La sua anima è sempre vigile e attenta alla dialettica senso-non senso, significato e assurdo, caos e finalità. Il tempo tiranno se ne va in un baleno e corre verso la fine come la sabbia di una clessidra: per ognuno di noi non ci sarà una seconda possibilità o forse si, se varcheremo la soglia in compagnia della speranza. È il perenno motivo del tempus fugit che Michele Miano mette in evidenza nella sua prefazione al libro, insieme alle tematiche della natura, agli incanti della memoria, alla dialettica illusione-delusione, alle incessanti riflessioni esistenziali, che sono le principali cifre del canto costantiniano. Inoltre – caratteristica peculiare secondo il prefatore – v’è la presenza di una insularità tutta siciliana delle radici, dell’identità, della classicità legata alla Magna Grecia e ai suoi miti.

Ad una attenta lettura dei testi dell’autore noto dapprima la sua inclinazione a scrivere liriche sempre molto aperte, non conclusive o definitive, nelle quali il lettore trova spunti per continuare il discorso da lui iniziato, anche in proprio, come se lo invitasse a creare insieme nuovi versi. Gli strumenti a lui cari del fare poesia non sono tanto linguistici, ma emotivi e dimensionali: sciorina una lirica che viaggia quasi sempre nei livelli onirici e visionari, con un distacco dal mondo reale talvolta voluto per la non accettazione del dato di fatto, talaltra cercato nel mondo del sogno per scoprire nuove possibilità e gamme esistenziali; crea immagini, rievocazioni, letture delle voci del cosmo e della natura abbastanza frequentemente in modo criptico, penso per stimolare il lettore a seguire il filo segreto dei suoi discorsi, per condurlo sui temi della vita e della morte quasi senza accorgersene; parla, racconta, narra, interloquisce, dialoga poeticamente rivolgendosi a un tu indefinito che, di volta in volta, può essere l’uomo, il lettore, la donna amata ed anche sé stesso, conferendo al suo stile un tono confidenziale nel quale si può leggere tanta partecipazione ed empatia alla vicenda propria ed altrui; coniuga attraverso atmosfere artisticamente accattivanti e suggestive concetti nascosti nel mistero, nel segreto, nell’arcano, nell’invisibile – come ho già detto in precedenza – ma che qui voglio rimarcare per le valenze comunicative e di alto sentire; costruisce una poetica molto dinamica, dove non vi sono staticità di sorta, dove non appaiono punti morti o fermi ma solo scorrere di ritmi, scansioni, armonie, note in continuo divenire; il fiabesco e l’onirico s’interrompono ogni tanto con risvegli improvvisi, come se il poeta smettesse il suo soliloquio per ritornare dall’irreale al reale; ed ancora sembra che il quotidiano, la cronaca, la storia non interessino al poeta, cantore di viaggi e incursioni nell’io senza tempo e spazio, con rarissimi riferimenti a episodi e luoghi concreti.

Una poesia dunque dell’irrazionale e dell’inconscio, testimoniata ovunque e sintetizzata in questi versi: “Tu ancora pensato non hai / di fuggire dall’umanità / vuoi nel mondo finire dei sogni. / I raggi tocchi del tramonto / cercando fiabesche lontananze. / L’inizio è del viaggio che porta nello spirito / dove bianco e nero, dolce e amaro, / triste e allegro non contano più. / Ricordami come solo san fare le donne / e non aprire oggi la porta del silenzio” (La fuga dal mondo). Il lettore scoprirà da sé le infinite cavalcate d’immagini di Oltre il tempo, come le ombre accomunate al sentimento d’estraneità e solitudine, l’effimero della vita rappresentato dalle sottili cime dei cipressi, il ‘futuro avrà i tuoi occhi’ di rimembranza pavesiana, le notti lunari che popolano i suoi versi riportandoci tocchi di romanticismo, il tacere della civetta, il dialogo sulle stelle che sembra un estratto del Piccolo Principe, l’ombra di sé che sdoppia la personalità alla maniera pirandelliana, l’uscita di sicurezza: “Nulla esiste che non sia l’amore / del tuo caldo abbraccio” (L’abbraccio).

Enzo Concardi

 

Antonio Costantino, Oltre il tempo, pref. Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 102, isbn 978-88-31497-62-6, mianoposta@gmail.com.

 

martedì 24 agosto 2021

GIAN PIERO STEFANONI: "LA CORSA"

Gian Piero Stefanoni,
collaboratore di Lèucade









LA CORSA

Circo di Massenzio










Resta nei giorni,

della corsa, l'arrivo fallito,

la caduta dei cavalli nella spinta.

 

Ma di tanto afrore, di tanta foga

come in Keats nell'urna greca

rotonda ancora dalle braccia la speranza,

la danza delle zampe nel sì degli elementi.

 

Dell' occhio il grido

a quella bellezza per sempre che lo eterna

nella distesa del tempo che non vince.

 


VITTORIO SGARBI: "SERGIO SA CHE LA PITTURA E' VITA"


 VITTORIO SGARBI: «SERGIO SA CHE LA PITTURA È VITA»

 





A febbraio 2021 lo scrittore Sergio Camellini pubblica, per i tipi della Casa Editrice Guido Miano, la silloge poetica I colori della fantasia, con prefazione di Enzo Concardi, nella prestigiosa collana “Parallelismo delle Arti”. A ferragosto dello stesso anno il celebre critico d’arte Vittorio Sgarbi ha occasione di visionare il libro: lo accoglie con molto piacere e si complimenta con l’autore: «Sergio sa che la pittura è vita» (Vittorio Sgarbi).


Sergio Camellini, I colori della fantasia, prefazione di Enzo Concardi; Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 80, isbn 978-88-31497-43-5.

 

 

ANTONIO CATALFANO: "LA RIVOLTA DEL DEMONI BALLERINI"

 

Fra antichi e nuovi morbi resiste la speranza di un mondo giusto.

È un macigno gettato nell’immobile e ammuffita cultura italiana La rivolta dei demoni ballerini, che raccoglie 53 liriche di Antonio Catalfamo, disposte cronologicamente, secondo la data di composizione, dal 19 Agosto 2014 al 7 Giugno 2021.

Si può parlare oggi di comunismo, di sfruttamento, di rivoluzione, di speranza di riscatto? Catalfamo lo fa proprio nella poesia omonima, senza giri di parole, chiamando le cose col loro nome e avanzando una proposta concreta su come uscire dalla crisi che attanaglia soprattutto il mondo occidentale. Ne La rivolta dei demoni ballerini, infatti, ricorda che i contadini siciliani, vessati dai padroni attraverso i mafiosi, avevano inserito antichi riti greci nella religione cristiana. Stanchi di una plurisecolare schiavitù, si ribellarono “come demoni ballerini,/ leggeri nella danza,/ vennero in paese,/ viaggiando di notte” e aprendo la Camera del Lavoro. Trasformatisi in Dioniso, “punirono con durezza/ i loro nemici ” e scatenarono “tutta la loro carica oppositiva,/ per distruggere il mondo dei ricchi”. Dopo il padre, che l’ha tramandato ai posteri con una Olivetti 22, il Poeta prolunga il canto “nella società digitale/ iperconnessa,/ perché i giovani ascoltino/ e imparino”. In tale ottica Nuova rivolta è una lirica-manifesto. Ricordando il bisnonno, che ha lottato contro padroni e servi mafiosi, il Poeta espone il nuovo programma di lotta che affonda le sue radici nel mito antico dei demoni ballerini, i quali, dopo aver eroso “le fondamenta del potere”, si trasformano in satiri, ribellandosi ad esso, e iniziano la “nuova strategia di lotta,/ con i piedi ben piantati nel mito:/ sottoporre gli istinti irrazionali/ al controllo della ragione,/ sconfiggere il pensiero debole/ della società liquida che si scioglie/ nelle mani dei filosofi flebili”. Poesia biologica non solo chiude la Raccolta, ma anche questa trilogia con la riaffermazione che gli ideali politici dell’Autore affondano le radici “nel profondo della terra,/ fino agli inferi”, come il roseto della nonna e della mamma, la cui rinascita dopo la distruzione è il simbolo di un antico modello da tramandare “fino a quando ci saranno/ cuori puri ed onesti/ e non prevarranno/ per sempre/ lo spirito belluino e il fascismo”.

La proposta politica, come si intuisce, è il cuore de La rivolta dei demoni ballerini: direttamente  presente in una ventina di liriche, essa corre lungo tutto l’opera e collega anche le altre tematiche, finendo per realizzare la poetica del dentro-fuori propugnata da Officina. Catalfamo, infatti, parte da un ricordo della sua infanzia, della vita familiare o della realtà storica siciliana e lo collega alle storture del presente, per le quali vede un superamento solo attraverso la lotta contro il capitalismo rampante, che moltiplica le iniquità, confinando ai margini, come non mai, i più poveri. In tale ottica, come già per Pavese, il mito assume una valenza progressiva: trasformatosi in razionalità, esso aiuta a penetrare più profondamente nella realtà e a promuovere il cambiamento della società.

La vigile presenza nei confronti della realtà del XXI secolo è confermata da un gruppo di sei liriche inerenti l’epidemia determinata dal Coronavirus, scritte in tempo reale a partire dal Febbraio 2020.

Oltre alla dura reprimenda (Virus) verso i rigurgiti fascisti, rinfocolati dall’epidemia, contro i cinesi, i quali, invece, sapranno sconfiggere il virus con la scienza (Lettera), l’Autore pone l’accento sulla persistenza di tutti i difetti degli italiani, con conseguenti discriminazioni, anche in tempi di epidemia (Coronavirus), istituendo un parallelo con la mitologia, che vede la natura rinascere in Primavera, e con la Storia: come dopo gli orrori dell’ultima guerra, anche adesso torneremo a una nuova esistenza, vincendo le paure e le limitazioni dell’epidemia (Vita e morte). Analogamente alle rose della mamma, egli auspica che rinasca spontaneamente il sentimento d’amicizia, superando il muro d’incomunicabilità, oggi simboleggiato dalla mascherina (Ancora sulle rose).

Il ricordo della madre, scomparsa nel 2018, è l’altro tema ricorrente della Raccolta, direttamente presente in una decina di liriche, ma richiamata anche in altre. Alla memoria di eventi infantili indimenticabili (Presepe, Ciambelle pasquali) fa da contraltare il dolore per la malattia mortale e per l’insensibilità di medici e istituzioni (Petrarchesca, La pensione). Sono ricordi teneri, ma anche densi di insegnamento per la vita, che si completano con quelli avuti dal padre e dai nonni. In certi momenti vince la tenerezza (Dialogo, Lezioni), mai però fine a se stessa (A mia madre): dai familiari, come dall’antica cultura siciliana, il Poeta riceve la spinta per proporre una poesia militante, pur ammettendo che è difficile dar vita a una nuova società consapevole e giusta. In Simbologia della vigna, ad esempio, ricordando le lotte del padre, che sognava una nuova grecità e l’instaurazione del “comunismo/che ci rende tutti uguali”, evidenzia che esse cozzarono contro l’egoismo dei contadini piccoli proprietari. A quel mondo i figli emigrati dei braccianti preferiscono oggi inseguire “modelli piccolo-borghesi”. Poiché il progresso li ha aiutati a vivere una vita meno dura, molti contadini non hanno saputo proseguire nella lotta per l’instaurazione di una società comunista, che invece deve continuare (Il neo-umanesimo comunista).

Dal collegamento costante col passato emerge anche la personalità dell’Autore. Riandando con la mente ad un intervento di cataratta (Operazione), egli evidenzia che la differenza fra la società comunista e quella capitalista consiste nel peso diverso che hanno “tre parole”: “madre/ pane/ compagno”. Ne consegue l’orgogliosa rivendicazione della proficuità del proprio lavoro di critico letterario (Ai miei nemici) e della centralità della poesia. Riandando, infatti, alle misere condizioni postbelliche della sua famiglia e dei compagni di scuola del padre, afferma:  “La poesia mi serve/ a raccontare/ la vita degli umili”, usando “il linguaggio universale/ di uomini, piante, animali/ a ritornare al naturale di Ruzzante” senza inutili barocchismi o tematiche da poeta renitente o esoterico, incapace di dire la verità sulla prepotenza dei padroni di terre, che accumulano ricchezze a danno di contadini e artigiani immiseriti. La sua posizione risulta distante anche dal “critico strutturalista/, fascista paludato”, il quale “mesce liquami di fogna,/ esalta la «belle époque»/ e i figli di sgarro” (La mia poesia). Senza mezzi termini, perciò, Catalfamo dichiara (Rivoluzione) che è necessaria l’unione di coloro che credono ancora nella forza della rivoluzione bolscevica, per pervenire ad un futuro di riscatto socio-politico.

A scanso di equivoci sull’apparente passatismo della sua proposta, egli sostiene (Mito e rivoluzione) che bisogna “proiettare il passato nel futuro”, elevando a mito la rivoluzione, che “ci rende felici,/ accende e placa i nostri furori”. È una convinzione che discende anche dalla constatazione che dalle lotte del padre in un tempo di miseria si è giunti alla falsa sinistra odierna, schierata coi padroni, rappresentata da “figli di papà”, che ignorano “cosa significhi/ fame e dolore,/ morte civile,/ sentirsi braccati/ dai cani da guardia del sistema,/ mancare l’aria per il vuoto/ creato tutt’intorno” (Il comunismo e mio padre).  Per il Nostro, quindi, “l’umanesimo è comunismo”, come hanno imparato le varie generazioni di lavoratori, basandosi sulle parole di Marx e Lenin (Primo maggio).

All’interno di un linguaggio attuale di comunicazione e privo di retorica si inserisce anche quello proprio della satira e dell’invettiva, per denunciare l’esosità delle banche, di cui il Poeta si augura la fine insieme all’epidemia (Versetti semiseri), la presenza di spie al servizio del potere (Ruffiani) e la definizione di fascisti data ai suoi nemici, visto che “non conoscono la libertà” e lo offendono per le sue idee politiche, ricordando loro i compagni poeti Hikmet, Ritsos e Neruda (Nemici). 

Nel suo articolato viaggio dal passato al presente e proiettato al futuro, Catalfamo trova il modo di ricordare Vittorini, Pavese, Fenoglio, Carlo Levi, Saba, Rodari e altri autori che sente vicini, dando ulteriore profondità alla sua poesia.

A completare la poliedrica personalità dell’Autore concorre anche il gruppo di nove poesie, poste soprattutto nella parte iniziale della Raccolta, che sviluppano la tematica dell’amore sensuale.

Ciò fa comprendere come la polisemia della sua poesia  sia talmente ampia e ricca di spunti umani e culturali da non poter essere racchiusa in poche righe: bisogna leggere con attenzione la Raccolta, per poter cogliere in maniera inequivocabile il pensiero dell’Autore, che non fa nessuna concessione al qualunquismo galoppante e alla voluta ignoranza della Storia, i densi e costanti riferimenti letterari provenienti dal suo lavoro di critico, respirando, nel contempo, un’aria nuova e piena di speranza, nonostante la crisi che oggi percorre l’intero pianeta.

Angelo Piemontese.

Antonio Catalfamo  La rivolta dei demoni ballerini, Pendragon, 2021, € 14,00