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giovedì 30 settembre 2021

ENZO CONCARDI LEGGE: "OPERA OMNIA" DI MAURIZIO ZANON



GUIDO MIANO EDITORE

NOVITÀ EDITORIALE 

È uscito il libro di poesie:

OPERA OMNIA di MAURIZIO ZANON

con prefazione di Enzo Concardi

 

Pubblicato il libro “Opera Omnia” di Maurizio Zanon, con prefazione di Enzo Concardi, nella prestigiosa collana “Il Pendolo d’Oro”, Guido Miano Editore, Milano 2021.

 

Il lettore non troverà in questa pubblicazione tutte le opere scritte dall’autore nella sua lunga navigazione poetica, poiché il materiale sarebbe stato veramente infinito: si è preferito optare per un’Opera Omnia tematica, nella quale concentrare il meglio dei suoi motivi ispiratori che vanno dalle liriche amorose alle problematiche dell’essere; dagli incanti della natura alle dimensioni della spiritualità; dalle incursioni nella memoria fino al canto passionale per la sua Venezia.

Vorrei ora tentare una disanima a mia volta riassuntiva della sua poetica, senza essere troppo legato alle singole tematiche e agli sviluppi stilistici – anche se non trascurerò tali aspetti – per non essere rinchiuso in schemi precostituiti e poter quindi spaziare in ampi orizzonti. Proverò a pormi una domanda fondamentale su Maurizio Zanon: qual è la sua sete più profonda? Cosa vuole egli veramente comunicarci con i suoi messaggi poetici? Cosa traspare di più significativo ed importante della sua personalità, della sua umanità, della sua anima, da ciò che il lettore leggerà in questo libro? La domanda si è già articolata in più punti interrogativi e quindi anche la risposta seguirà la stessa strada. Infatti non c’è in lui una sete unica, un messaggio solo, un’anima monocolore, ma tutto un insieme di valori e di istanze che concorrono a formare la ricchezza dell’uomo e dell’artista.

La grande sete del poeta si definisce quindi con più nomi, che tutti però hanno per radice il nome dell’amore: amore per la vita, amore per la libertà, amore per l’amore, amore per la natura, amore per l’eterno, passione per Venezia. Tuttavia, dal momento che egli è anche un recettore problematico delle contraddizioni del mondo contemporaneo in crisi d’identità e di civiltà, ecco che questo amore lo spinge alla denuncia delle storture e delle ombre del nostro vivere, per cui nasce una poetica dei contrasti senza la quale il suo messaggio sarebbe parziale e riduttivo. L’uomo non è ancora riuscito ad eliminare dalla sua anima i dualismi o bipolarismi che lo accompagnano da sempre, per cui spesso si verifica ciò che Hermann Hesse asseriva nel suo Siddharta, ovvero che per ogni principio esiste il suo contrario. Ed ecco che puntualmente Zanon – come tutti noi anche inconsapevolmente – siamo come nani sulle spalle di un gigante e lui, poeta, scrive versi, forgia immagini a testimonianza di ciò: «L’uomo narciso / si specchia sul lago / riposa la mente / s’immerge nel buio / decompone l’idea / la sete di potere; / ragione che non ragiona / genera i mostri della violenza...» (L’uomo narciso); «La vita / è infinita, / ma la mia vita / è finita!» (Epitaffio); «Siamo nulla e siamo tutto / miliardi di persone vaganti / in frammenti di luce / …» (Siamo nulla e siamo tutto).

 L’amore per la vita è una cifra ineludibile nell’esperienza del poeta, non è solo un atteggiamento intellettuale, un postulato filosofico, ma appunto un vissuto reale. Forse riecheggia l’invito di Sant’Agostino: «Ama e fa ciò che vuoi», nel senso che vivendo con amore si è sempre sulla retta via. Le dichiarazioni d’amore dell’autore verso la vita sono asserzioni poetiche che commuovono: «Ebbene, lo ammetto: / nella stagione fiorita, / irrequieto, ho amato tanto la vita» (Rivelazione); «Ho amato la vita, pur tra mille affanni, … / E le volte che più semplice s’è mostrata, di più l’ho amata» (La vita); «Grazie d’avermi regalato / il sole e la luna / grazie dell’aurora / e dei tramonti / grazie che m’hai concesso il pensiero! / Debbo chiamarti Dio o vita! / Mi viene da dire tutt’e due: / in fondo quanto somigli a Dio, o Vita!» (Grazie d’avermi regalato). Quest’ultima quasi identificazione tra Dio e la Vita (il Nuovo Testamento parla chiaro: «Io sono la via, la verità e la vita» - Giovanni, 14:6) apre davanti a noi l’amore per l’eterno del poeta, che si sostanzia nel suo profondo bisogno di superare il panta rei (tutto passa, tutto scorre) del tempo, alla ricerca di un tempo senza tempo, ovvero la speranza e la realtà di una vita futura nella dimensione escatologica promessa dalla resurrezione della religione cristiana. Dapprima, nella vita terrena – caduca, fragile, effimera, quella della folgorazione quasimodiana di Ed è subito sera – siamo in balia del virgiliano tempus fugit, tante volte richiamato da Zanon nei suoi testi: «Questi giorni che passano via veloci / al punto che neanche te ne accorgi / ...» (Questi giorni che passano via veloci); «Il tempo? Il nostro spietato assassino! / …» (Condizione). E la legge del tempo si fa sentire in maniera ancor più acuta nella sua vita d’insegnante dove vede alternarsi generazioni su generazioni di studenti: «Passano i ragazzi a scuola / e con essi passa ancor più il tempo / generazioni su generazioni si succedono / …» (Passano i ragazzi a scuola).

 Verso la fine dell’avventura umana e del tempo che ci è stato dato da vivere si fa sempre più pressante il problema del nostro destino, del senso dell’esistenza, del dove andiamo e subentrano le riflessioni sulla presenza incombente della morte, le meditazioni sulle cosiddette ‘cose ultime e penultime’ (teleologia) e cerchiamo risposte a tutto ciò. L’autore nelle sue opere dedica largo spazio a tali tematiche, per cui anche qui sentiamo la sua voce poetica che si fa molto lirica nell’immaginare quello che noi definiamo l’ultimo viaggio, ma che per lui è un dolce passaggio ad ‘un tempo senza tempo’ (per citare il titolo di una delle sue raccolte): «La sera porta con sé / una strana luce nel cuore / un insolito lume che induce / a un profondo senso di pace» (La sera porta con sé); «Magica è la morte: / d’incanto fa eguali / il ricco e il povero / e te, che eri diverso, / così additato da vivo» (Magica è la morte). E siamo in pieno accordo con la visione manzoniana della morte, simile a quella «falce che pareggia tutte l’erbe del prato» (I promessi sposi). Giungono poi le poesie molto ispirate appartenenti alla raccolta Una barca giace aspettando, che trasformano la crudezza dell’Acheronte dantesco - con la barca di «Caron dimonio» che «con occhi di bragia / loro accennando, tutte le raccoglie; / batte col remo qualunque s’adagia» (Divina Commedia, Inferno, III, 109-111) – in un romantico viaggio verso un regno sconosciuto: «Batte il remo sull’acqua /…/ Il vogatore si fa strada con un lume verso il mistero» (Batte il remo sull’acqua); «…/ Solo un eterno, serafico divenire. / Sarà tutto quello che ora non sappiamo» (Acque stanche adesso riposano); «Torna la barca senza più il rematore /…/ Si lascia andare nell’occulto arcano / immersa fra la quieta solitudine / delle autonome esili anime» (Torna la barca).

 L’amore per l’eterno nella poetica dell’autore ha almeno ancora due direzioni, una che va verso l’amore divino, l’altra verso l’amore umano. La sua spiritualità, e quindi la sua fede, si sostanziano di tanti momenti: sono conforto ricevuto dall’Ente Supremo e dialogo con Lui nel cammino di vita; sono consapevolezza di un sempre che si rinnova: «Qui tutto scorre e svanisce / ciò che conta è l’eterno / ...» (Qui tutto scorre e svanisce); sono preghiera di pentimento per aver dimenticato Maria lodando sempre il Padre Nostro o invocazione al Signore per condurlo al suo cospetto; sono il riconoscere che anche l’arte e la poesia hanno un’origine divina: «... / e muoio a me stesso nella poesia. // … m’è servita / ad avvicinarmi a Dio e più ancora agli uomini / ...» (Anche se può sembrare inutile); sono infine e soprattutto l’attenzione e la cura per l’altro, nel mettere in pratica il dettato evangelico: «Se non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi?» (1 Giovanni, 4:20); così nascono poesie in cui l’angelo non viene posto nei cieli, ma accanto a noi, perché è l’emarginato, il solo, l’ultimo; o altre come All’alunno disabile, che va aiutato più degli altri ma che comunque ce la farà.

 L’amore umano vive stagioni brillanti nella giovinezza, quando lei risplende di luce stellare, il risveglio è più lieve con accanto la propria amata, il cuore viene illuminato dalle sue attenzioni, è grande il bene di lei centellinato a gocce. L’amore all’improvviso, intrigante, intimo, oltre le convenzioni è particolarmente apprezzato dal poeta, si, ma la conclusione solenne risiede ancora nell’amore eterno, unico, fino alla morte: «Amore mio / amore sopra tutti gli altri amori / solo con te io passerei l’ultima notte della mia vita: / amore, amore mio, ricordati di me» (Amore mio). Ecco perché ho voluto conferire il titolo Perduta-mente amore al capitolo di liriche amorose dell’Opera Omnia: il sentimento d’amore non ha nulla a che fare con la razionalità ed ovviamente il poeta ne è cosciente. E ne fa uno dei motivi principali del suo canto, pure quando diviene aedo della sua Venezia.

 La poetica dei contrasti rivela la sua vena esistenziale ed inquieta che si fa portavoce e testimone della crisi del mondo contemporaneo. Vi sono due liriche epigrammatiche di quattro versi ciascuna che fissano nella scrittura il relativismo del nostro vivere odierno: «Dove si va? / Non si sa: / nel giro del nulla / oppure … chissà!?» (Dove si va?). Ironia quasi beffarda poi stemperata da un sentimento positivo rivolto al futuro: «Forse pure domani / nel mezzo del gorgo / ritroveremo quel fragile e lento / nostro andare di sempre» (Speranze). La percezione di una società senza mete e timonieri, dal tessuto umano e relazionale lacerato, abitata da individui a una dimensione (Marcuse) in preda all’avidità dell’avere (Fromm) è comune a tanta cultura europea che affonda le sue radici già nel Novecento con la nascita del consumismo e delle visioni oggettuali: Zanon entra a pieno diritto in queste correnti di pensiero – di cui fa parte anche il nostro Ermetismo – e affonda il bisturi della denuncia sulle ferite già aperte, dalle solitudini metropolitane, all’incognito del futuro; dalle anime disorientate ai cuori spezzati in cerca di luce: «Giù lentamente viene / la pioggia del freddo dicembre, / in questo grigio mattino, tra i vetri / appannati, tracce adulte di malinconia / scorgo, solitudini abbarbicate / nell’incognito futuro del nuovo millennio, / anime disorientate, cuori spezzati / alla ricerca di luce» (Tracce adulte di malinconia). E liricizza la crisi in versi lapidari: «Giorni incerti di affanni / inquieti e di vuoti / giorni di pericoli / di futuri sbiaditi / nebulosi senza più certezze / nemmeno nelle case: / giorni di valori dissolti / scappati altrove...» (Giorni incerti di affanni).

 Non si tratta di rimpiangere il bel tempo andato – come sembra essere nelle poesie dedicate alla memoria dell’infanzia, al ricordo del paese, agli anni vissuti in altri contesti, alla nebbia che nasconde tuttavia dolori e amarezze – ma di lavorare per ricreare un uomo nuovo, una società umana, un vivere solidale: sono gli aspetti dell’impegno di Zanon che già abbiamo analizzato in precedenza. Diverso è invece il discorso delle radici e delle emozioni, che coinvolgono la propria identità e gli stimoli del vivere: infatti il poeta definisce la sua indole come quella del gatto, sempre in ricerca di libertà, ma che poi torna a casa per godersi il tepore e il calore degli affetti; e confessa che senza le forti emozioni, necessarie per sentirsi vivo, la vita gli sarebbe apparsa inutile e noiosa. Radici e forti emozioni che ci introducono all’amore per la natura - frequentemente visitata - e per Venezia, patria, croce e delizia della sua esistenza. Le poesie di questi due capitoli del libro, il lettore dovrà scoprirle e goderle da sé: qui accenno solo alla sua squisita liricità paesaggistica dei boschi, del mare, dei monti; alle metafore celate in talune composizioni; alla sensibilità verso la fatica dei contadini; alla pace dell’animo nell’immersione naturalistica; all’attenzione del poeta per i particolari, ma anche alle proiezioni universali. Per Venezia egli non scioglie solo canti per un luogo, poiché questo luogo è anche mente, mito, storia, anima, cuore. I dialoghi tra lui e la sua Venezia riflettono l’evoluzione della città che resiste per non concedersi al progresso … fino a quando non ci saranno più veneziani. Intanto le atmosfere che lui ha saputo creare con maestria resteranno indimenticabili.

 Eccoci a qualche cenno sullo stile. Il linguaggio è diretto, immediato, comunicativo, privo di astrusità intellettuali e quindi capace di parlare a tutti, pregio notevole nel nostro tempo di finte avanguardie semantiche. La metrica si affida a mono-strofe sintetiche (rare terzine e quartine) dal verso breve, talvolta composto da un termine solitario che risalta nel contesto e la fonetica si avvale di ritmi e scansioni efficaci. Una forma levigata per contenuti profondi.

Enzo Concardi

 

 

L’AUTORE

Maurizio Zanon è nato nel 1954 a Venezia dove attualmente vive. Laureato in Lettere Moderne, ha insegnato nella Formazione Professionale. Scoperto dal poeta Mario Stefani, la sua attività letteraria ha inizio a venticinque anni con la pubblicazione del libro Prime poesie (1979), cui sono seguite molte altre raccolte. Ha conosciuto vari poeti famosi: Diego Valeri, quando risiedeva a Venezia, Giovanni Giudici con Ignazio Buttitta e Andrea Zanzotto, presso lo Studio Museo “Augusto Murer” di Falcade, Luciano Luisi, alla presentazione di un suo libro a Mestre, Maria Luisa Spaziani, in occasione della sua partecipazione al “Premio Eugenio Montale” a Roma, Patrizia Valduga, negli anni dell’università a Venezia, Paolo Ruffilli ed il poeta vernacolare Attilio Carminati. Significativa è stata anche la lunga amicizia con il pittore Guido Baldessari (Venezia, 1938 - ivi, 2016), le cui opere hanno ispirato talune poesie di Maurizio Zanon; ad esempio L’uomo narciso (pubblicata nell’omonima raccolta del 1987) e Berlino blu (pubblicata nell’omonima raccolta del 1992, con illustrazioni di Guido Baldessari). Tra le raccolte più recenti ricordiamo: Tutto passa (2019), Gli anni della solitudine, piccolo diario d’amore (2020), Curiosità poetiche (2020), Tutto fu bello qui (2020).


Maurizio Zanon, Opera Omnia, pref. Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 192, isbn 978-88-31497-64-0, mianoposta@gmail.com.

 

 

martedì 28 settembre 2021

FLORIANO ROMBOLI LEGGE: "IL COLORE DEI RICORDI" DI ANGELA RAGOZZINO

 


Angela Ragozzino

IL COLORE DEI RICORDI

poesie e immagini 

Recensione di Foriano Romboli

 

 

Il ricordo e la speranza nella poesia di Angela Ragozzino

 

Un vivo sentimento del tempo accompagna da sempre l’esperienza dell’uomo, stimolando la riflessione sistematica intorno a esso, alla sua sfuggente, indefinibile problematicità, come nell’insuperata focalizzazione agostiniana (“Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se intendo spiegarlo a uno che me lo domanda, allora non lo so più” (Qui est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti esplicare velim, nescio), Confessioni, XI, 14), contrassegnata dalla rivendicazione della primaria dimensione interiore, della specificità di una distensio animi in continuo, precario equilibrio in un presente proteso immediatamente nel futuro, ma già attratto e inglobato nel passato.

Il senso del tempo si manifesta innanzitutto tramite l’avvertimento – ricco di implicazioni emotive ed etico-intellettuali – del suo inesorabile trascorrere: “Il tempo passa, / traccia il suo corso, / di uomini e storie / tante ne ha viste e sentite, / ma niente distoglie / il suo lento fluire…” (E il fiume scorre e va…, vv.22-27); e altresì della sua azione distruttiva (“Cerco nella mente / immagini del giorno appena trascorso, / ma non ne trovo, / risucchiate dal vortice dei pensieri / vagano come fantasmi/senza lasciare traccia. / Volti, voci e luoghi dispersi nel nulla…”, Ombre nella notte, vv.10-16), del suo potere disorientante: “I giorni si susseguono / passano i mesi, / le ore lasciano / un senso di vuoto, / ad un pensiero / ne segue un altro” (Solo una voce, vv.1-6).

Nelle liriche raccolte nel volume Il colore dei ricordi, pubblicato la scorsa primavera dall’editore milanese Guido Miano, Angela Ragozzino esprime con forza il desiderio di “fermare il tempo” (“Vorrei fermare il tempo / racchiudere in cristalli lucenti / i volti, i sorrisi, i vostri occhi / espressioni di sentimenti buoni”, Una festa fra amici, vv.17-20), di sottrarre alla temporalità e alla sua dinamica dispersiva e annientatrice momenti e situazioni sentimentalmente e moralmente rilevanti, fissandoli nel ricordo e facendo così del patrimonio memoriale una ragione essenziale di resistenza all’infelicità e un motivo prezioso di intimità gioiosa e confortante, e quindi di speranza: “Vi vedo allegri e ridenti,/i ricordi esplodono nella mente / e li sigillo nel cuore / che si riempie di gioia” (ivi), vv.9-12, corsivi miei, come in seguito); “Se indietro ritorno / nel tempo e nei ricordi / rivedo il tuo volto, / sento il respiro caldo / sulla pelle, / le sensazioni uniche / ed il dolce rifugio del tuo abbraccio” (Al mio amore, vv.14-21); “All’uscio sgangherato si accosta / un cespuglio di gialle / margherite. / Sanno di allegre risate, baci / e dolci promesse… Immagini / di momenti felici / che riscaldano il cuore / e ridanno speranza. / Domani è sempre un altro giorno!” (Vecchio casolare, vv.19-27).

La scrittrice non ignora di certo gli aspetti negativi e dolorosi del vivere, tuttavia sa aprire la mente e il cuore a una visione positiva e fiduciosa (“Il sole lentamente si alza, / la nebbia si dissolve / un altro giorno / prende vita. / Un altro giorno / in cui vivere, / sperare / e volersi bene”, Una mattina d’autunno, vv.14-21); e inoltre sviluppa il suo tema non esclusivamente in termini soggettivistici, psicologico-esistenziali, bensì predilige l’obiettivazione degli stati d’animo nelle descrizioni paesistico-naturali, sovente caratterizzate da un diffuso, felice cromatismo (“Nel chiarore perlaceo dell’alba, / un arbusto sottile s’accresce. / Dal tronco sparute macchie/di colore giallo e rossastro / si scaldano ai raggi del sole”, Foglie nella nebbia, vv.1-6; “Chiudo gli occhi / e vedo / alberi in fiore, / prati verdi / e bianche margherite, / corolle colorate / e profumate. / La mimosa è sfiorita / ma nuove foglie / spuntano sui rami, / la siepe muta colore”, Solo un incubo, vv. 1-11), esaltato dalla serie di affascinanti fotografie di Enrico Raimondo, Marica Raucci, Benedetto Scaravilli - che nel libro sono significativamente associate alle poesie – e presente quale coefficiente importante di un moto partecipativo non scevro di suggestivi esiti pànici: “Dopo una giornata lunga / e afosa, anelo un refolo di brezza / che rinfreschi viso / e rischiari la mente. / All’imbrunire il canto del pettirosso / rallegra e rinfranca, / preludio dell’ombra avvolgente / e riposante della nascente luna” (La porta socchiusa, vv.9-6); “Il mare azzurro / sconfina dolcemente all’orizzonte. / Le onde si perdono nell’infinito / là dove si perde anche lo sguardo, / rapito a tratti/dal volo di un gabbiano. / E volteggia in alto / insieme ai pensieri / ed alle inconsce paure (…) Incanta il dolce sciabordio / delle onde verso l’orizzonte, / tra il dolce fruscio del vento, / aria salmastra invade le narici, / e rinfranca lo spirito. / Il cuore riprende il suo ritmo, / al verso stridulo del gabbiano / echeggiante nell’aria” (Magnifica solitudine, vv.1-9 e 16-23).

L’incontro fra l’àmbito soggettivo-personale e il contesto oggettivo, naturale e anche storico, realizza il “miracolo” delle radici, spiega il determinarsi di quei tenaci legami affettivi fra l’individuo e il proprio ambiente, fra l’ “io” e gli altri (uomini, animali, piante), che costituiscono la base dei ricordi, ai quali assicurano consistenza intellettuale-morale e valenza atemporale: “Nelle umide zolle / affondano / le Radici possenti / in un abbraccio / materno (…) Rivolgo la mente al passato / e trovo rifugio / là dove tutto / ebbe inizio, / là dove le mie Radici / hanno trovato / la terra, / l’acqua, / il fuoco…/ la vita” (Le Radici, vv.1-5 e 19-28), sul fondamento identitario della Fede religiosa: “Là in alto, / il Cristo dal volto segnato, / ti accoglie e benedice (…) Scene di una storia di fede / nei secoli sempre viva, / sempre vera. / Scene di una storia di Luce / che illumina / il cammino dell’umanità” (Basilica di Sant’Angelo in Formis, vv.30-32 e 43-48).

Il linguaggio dell’autrice risulta lineare nella sua essenzialità espressiva, stilisticamente animato da una discorsività sobria e nondimeno lontana da approssimazioni compositive, da facilistiche estemporaneità. Si nota infatti un impiego sapiente di figure come la similitudine (“Come il contorto alberello / avvolto nella nebbia / mi lascio travolgere / dal tempo che passa / e dalle alterne fortune”, Foglie nella notte, cit., vv.12-16) e la sinestesia (“Rivedo i volti ridenti, / sento le voci, i profumi, / il calore di un abbraccio…”, Vigilia di Natale, vv.14-16), non casualmente frequenti nei testi, perché evidentemente implicate dall’atteggiamento complessivo a cui si è fatto cenno in precedenza.

D’altronde la solida cultura letteraria di Angela Ragozzino è attestata da “allusioni” inequivoche, da riferimenti, dissimulati eppur operanti, a classici della poesia italiana. Ad esempio la lettura della lirica Acquerello di un tramonto, con l’evocazione della fine del giorno (“Uno stormo di uccelli neri, / si perde all’orizzonte, / come alate sembianze / di cupi pensieri”, vv.14-17), non può non suscitare il richiamo della strofa finale del celeberrimo componimento di Giosuè Carducci San Martino, ultimato nel dicembre 1883 e poi compreso in Rime nuove: “…tra le rossastre nubi / stormi d’uccelli neri, / com’esuli pensieri, / nel vespero migrar” (vv.13-16). La ricerca della scrittrice campana si colloca pertanto consapevolmente nel solco di una tradizione artistica prestigiosa.

Floriano Romboli

 

 

Angela Ragozzino, Il colore dei ricordi, prefazione di Nazario Pardini; Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 80, isbn 978-88-31497-45-9.

 

SANDRO GROS-PIETRO: "LE FARFALLE DI PACIOLO, GENESI EDITRICE, 2021"

  •  Un tema plurale, composito, polivalente, dove amore, interesse, filosofia si completano in una diagnosi accurata e sentita. La narrazione si sviluppa in una forma dove logos e pathos si completano a favore di un contenuto ricco di problematiche, che rendono il romanzo attuale sia a livello scritturale che contenutistico; moderno e vicino a noi per vocabolario e intrighi umani. Qui, appunto, l’inseguimento della ricchezza va oltre il tempo e i valori umani. E non è difficile scorgervi un ossimorico gioco tra intensioni etiche e spinte materiali.      
  • Nazario Pardini 
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  • L’inseguimento della ricchezza va oltre il tempo e i valori umani
  • Il romanzo ha una struttura complessa: a capitoli rigorosamente alterni con titoli in italiano, nella Prima parte narra l’amicizia di Fax (Leonardo Giribaldi) e Dindo (Giorgio Galimberti) dall’adolescenza all’affermazione professionale e le varie reincarnazioni di Luca Paciolo – grazie al magico elisir avuto da Margherita Boninsegna, amante di Fra’ Dolcino, bruciato orrendamente sul rogo – dal Rinascimento all’Età dei lumi. Nella Seconda, coi titoli dei capitoli in prevalenza in inglese, racconta l’incontro all’Expo di Milano del 2015, con le sconvolgenti conseguenze, di Paciolo, giunto fino al XXI secolo,  con i due protagonisti e con le relative famiglie. Parallelamente anche i tempi del racconto sono diversi: molto lunghi nella Prima parte, di qualche giorno nella Seconda, in cui, però, l’ultimo capitolo riassume gli anni del processo e la successiva nuova vita di Leonardo Giribaldi. Il Primo capitolo della Seconda parte fa da cerniera fra le due sezioni, passando dal fantascientifico alla piena attualità del post-capitalismo. L’ultimo, invece, capovolge tutta la vicenda narrata, dando una spiegazione scientifica ai fatti, attraverso la ricostruzione delle varie fasi processuali, che sanciscono l’infermità mentale di Leonardo.
  • Il titolo richiama le strane teorie di Paciolo, che a volte cadono o non sono prese in considerazione.
  • Sandro Gros-Pietro si muove con assoluta padronanza in questa cavalcata fra i vari secoli, rendendone con grande precisione il clima storico-sociale, ma soprattutto culturale, permettendo di cogliere in filigrana l’evoluzione del pensiero occidentale.
  • La lettura può avvenire, di conseguenza, secondo due prospettive: fantascientifica – per le vicende di Luca Paciolo – e realistica in relazione a quelle dei due amici. Alla luce dell’ultimo capitolo, però, può ritenersi un’invenzione di Leonardo Giribaldi, che scrive un diario – poi divenuto libro di successo – per salvarsi dall’accusa di duplice omicidio volontario.
  • C’è anche, tuttavia, una possibile terza lettura: ritenere la storia di Paciolo, e dei suoi epigoni del nostro tempo, come una metafora del progresso umano e del cammino percorso dal capitalismo, che si emancipa dall’iniziale tutela della Chiesa e non rispetta nessun valore morale pur di affermarsi.
  • Ciò significa che il libro richiede la continua partecipazione del lettore, che deve coglierne il più piccolo indizio, essendo costruito come un labirinto, del quale l’Autore non indica l’uscita.
  • Per la sapiente ricostruzione degli ambienti culturali in cui operano i personaggi, per gli inserti storico-sociologici molto pregnanti, per le citazioni precise dalle opere letterarie e filosofiche, e per i sottili rimandi e i collegamenti fra le due parti, Le farfalle di Paciolo è l’espressione compiuta di un intellettuale raffinato, che realizza il vecchio sogno di tanti studiosi: andare indietro nel tempo e incontrare persone straordinarie, che hanno lasciato un segno indelebile nel progresso del pensiero umano. È l’ulteriore aspetto di un romanzo affascinante, che nella parte finale dà una fotografia di quella che è l’odierna fase in cui siamo immersi. Basti pensare al fatto che Leonardo Giribaldi diventa uno scrittore di successo solo perché ha subito un processo penale a cui i media hanno dato grande risalto …
  • Alla spasmodica ricerca della ricchezza di Paciolo, di Leonardo Giribaldi e della Famiglia Hallestein si contrappone l’idealismo di Giorgio e della moglie Noemi, in grado di uscire da una grave crisi in nome del profondissimo sentimento che li lega, basato com’è su stima e ammirazione. Il rapporto fra Leonardo e Cecilia, invece, è frutto di calcoli economici e privo d’amore, per cui non regge allo tsunami rappresentato dall’apparizione di Paciolo, che li abbaglia con la prospettiva di una ricchezza infinita.
  • In tutta questa incandescente materia, Sandro Gros-Pietro si muove con assoluta maestria, servendosi di un linguaggio composito e ricco, perfettamente parallelo alla complessa struttura. Così al tipico idioma iniziale degli adolescenti fa da contraltare quello medievaleggiante dell’incontro fra Paciolo e Leonardo da Vinci, o quello filosofico dei capitoli successivi, con citazioni in latino, inglese e francese. Non è un pastiche fine a se stesso, ma una scelta linguistica che aiuta a rendere viva una determinata epoca. Alla fine, infatti, la lingua è quella tipica del XXI secolo, infarcita di tecnicismi, indispensabile per rendere il senso della vita odierna.

  • Angelo Piemontese

  • Sandro Gros-Pietro Le farfalle di Paciolo, Genesi Editrice, 2021, 251 pagine.pagine.

lunedì 27 settembre 2021

GIAN PIERO STEFANONI: "GIORGIO ORELLI, SINOPIE"

 

Gian Piero Stefanoni,
collaboratore di Lèucade

Giorgio Orelli, Sinopie.

Mondadori, Milano, 1977

Regala sempre una certa emozione, una certa gioia poter parlare di una figura  come quella di Giorgio Orelli, scrittore, traduttore ma soprattutto poeta tra i più significativi del nostro novecento come ebbe su tutti a segnalare già Pier Vincenzo Mengaldo inserendo di buon diritto il suo nome tra quelli della celebre antologia da lui curata nel 1978 sempre per la Mondadori. Una critica che se da una parte con Contini lo ricorda come il più grande autore svizzero di lingua italiana e dall'altra con Anceschi nel novero della quarta generazione della linea lombarda, è bene forse sempre con Mengaldo soffermarsi sulla particolarità autoriale a sé, tipica del ticinese, di confinato, di isolato rispetto alla cultura e alla lingua di riferimento evidenziato dall'alto grado di iperletterarietà della sua scrittura, e ancora con Contini che rivelandone la "condotta di umanista" ebbe a parlarne comunque come di "un caso di adesione in senso classico" di certo unico (si rimanda al proposito alle valutazioni di Massimo Danzi in Lingua e letteratura italiana in Svizzera , Casagrande, 1989). Il dire della parola nel racconto magmatico del tempo trovando nella commistione di familiarità e memoria personale, di tracce di età e storie che quella memoria vanno ad assorbire in una memoria più vasta ha così nei continui e felici rimandi ora epigrammatici ora idillico-gnomici ora nella densità dell'apostrofe il valore di una Storia che nella velocità dei suoi passaggi e delle sue desolazioni può darsi solo per rivelate cancellazioni, per frammenti di ormai, per questo stridenti, non più abitabili echi. Il senso di questa lezione (che sì per certi versi lo avvicina a Montale in una poetica dell'occasione che sovente finisce per esserne il motore) nell'instabilità di coordinate su cui costruire è nel riferimento al testo più esemplare della sua produzione già nel titolo stesso, in quel "sinopie" in cui è racchiusa tutta la lotta secondo il suo significato figurale di un incamminarsi, di un proseguire secondo il modo più atto, più conveniente ma anche più ambiguo diremmo nella rete a risalire delle sue figure ed in cui a partire da questo, se vogliamo ancora nel suo significato di tecnica usata come traccia sul disegno, di un rigetto, di un equivoco di intenti forse nell'irriconoscibilità dell'opera. Ed allora, in una Europa uscita non da molto dalla guerra e a un niente dal nuovo millennio quest'opera ci appare adesso a più di quarant'anni dalla sua uscita come paradigmatica e per l'affresco di un periodo le cui lacerazioni vanno a rivelarsi come anticipatrici di una civiltà e di una società in dissolvenza e di un lavoro insieme dunque di attaccamento e di dialogo a partire dalla lingua e dalla cultura di riferimento con quegli stessi valori, fondanti, di una società messa a nudo ed esemplari in questa scrittura allora, proprio per la particolarità del suo caso, nella misura allargata delle sue risonanze data piuttosto (nella mancanza di interrogazione collettiva) nel riflesso pieno dei suoi disvalori. La discesa nella quotidiana estraneazione dell'umano da se stesso, guidata da una inevitabile condotta prosastica del dire, nella inevitabile trattenuta di una lirica che seppure sospesa sembra comunque porsi a spia nel suggerimento degli affondi, è così restituita per capovolgimenti di spazi, di uomini e donne nella bolla di interni che più non reggono, che più non dicono nell'intimità di se stessi, di una natura per questo senza coscienza sconosciuta e sfigurata, smemorata ed in cui in modo silente e quasi agghiacciante "nessuno grida. Nessuno pare a disagio" . Ciò che rende caro allora nel riconoscimento il dettato di Orelli è il restare pienamente addentro a una ferita da cui l'uomo pure cerca di prendere le distarne ma senza scomporsi e con fermezza nell'avanzare civile delle sue denuncie, nella guida ora educativa ora illuminata di un proprio stesso interrogarsi che poco salva (si veda anche la pungolatura polemica nelle missive rivolte a figure diverse nella seconda sezione). Che parte, doverosamente forse e non a caso, nel legame generazionale del discorso dalle proprie figlie, da un osservatorio che quell'interrogazione continuamente mette alla prova, docili al paesaggio e ai passaggi come le capre del brano per la piccola Giovanna (che "a una giusta distanza ci circondano/e pregano per noi") nella trasparenza di un incamminarsi in un destino più forte dell'uomo, creature, bambine a guardarci come sapessero "la vita che noi morti qui viviamo". Violenza di contro allora riportata per montaggio, per densità di immagini ora cronachistiche ora familiari in una narrazione che tutto trae a sé nella sua rete come lo stesso Mengaldo ebbe a rivelare, storie, vite negli spezzoni di una banalità implodente, di lingue come nel disaccertamento di se stesse tra dialettalità spezzate e volute di standard giornalieri. Di una sacralità ancora che forse solo la rappresentazione icastica della sua distruzione ancora può dirci, ricordarci come in "C'era davvero il Duca? E perché non è morto" in cui alla negazione della Storia è contrapposta la visita ad Urbino là dove "Dentro, profanavano l'ostia, flagellavano Cristo" nella polemica con una fede anche fatta a immagine, dell'idolo che "aiuta a far di conti", di chi nulla, "<né peste > né <cardinale> possono mutare" ("A un piccolo borghese"). Di una cura della cosa pubblica e della salvaguardia del territorio affossata (si veda il caso Seveso) e rimontata a seconda delle stagioni e delle convenienze (come i più dei paesi nella incultura de "i cervelli asfaltati dei nostri consigli comunali", Ticino tra arcaica irraggiungibilità e saccheggio ). Così non stride allora a proposito di "sinopie", nell'omonimo testo il ritaglio dalle figure di anziani evocate il segno di una grazia che dalle proprie crepe continua nell'interpellarci a darci forza nell'intreccio di una Storia più vasta che richiama dalla disappartenenza, fuoco stesso di un Orelli uomo e autore disincantato certo ma mai vinto nella similitudine come di lumaca attaccata al proprio filo di bava dove, da un ramo, "a un niente oscillando/spermentiamo nostra virtù". Condizione di un limite in cui è ascritta nell'amorosa e civile resistenza tutta la testimonianza dell'umano: in questo, anche, andando a concludere, resta la grandezza non solo poetica di un intellettuale finissimo.

 

ENZO CONCARDI LEGGE: "OPERE SCELTE" DI IGINIA MIGNOSI

 

Iginia Mignosi

OPERE SCELTE 

Recensione di Enzo Concardi



 Iginia Mignosi (1908-1999) possiede una sensibilità artistica non comune, riuscendo ad accomunare nella sua creatività l’espressione figurativa della pittura con l’abilità musicale nel tradurre in note e suoni le immagini da lei stessa dipinte. Nazario Pardini ci racconta con la solita perizia tale aspetto del suo essere donna ispirata dal bello e dalle profondità dello spirito: “Tutto si fa musica, vibrazione, ritmo, romanza, intermezzo sinfonico… Sì, perché Iginia, non contenta di avere concretizzato i colori sulla tela, se li mette davanti agli occhi, li medita, li fa suoi e dà loro, con la musica del piano, quell’accompagnamento che fa da leitmotiv, da sottofondo sinfonico. Sembra di vedere il quadro trasferito in mondi di suoni e melodie… e tutto si fa armonioso, incessantemente affascinante” (dal testo critico Iginia Mignosi: la vita e l’amore, l’amore e l’arte, l’arte e la natura, la natura e i suoi fremiti, pubblicato nel libro). Sottolineare queste valenze e tali valori della personalità artistica della pittrice e musicista palermitana mi pare importante per penetrare nel suo mondo interiore, nelle pieghe di un’anima certamente semplice nelle visioni, ma altrettanto sicuramente ricca di complessità nelle gamme emotive e sensitive.

Contemplando i suoi quadri – poiché ogni suo olio su tela invita alla contemplazione, all’assorta meditazione – ho avuto un impatto visivo attratto da una caratteristica fondamentale della sua ampia gamma policromatica, al di là dei soggetti ritratti: l’intensità dei colori e delle sfumature, sia quando si tratti di colori di per sé forti o più delicati.  Così l’insieme della scena ritratta – dominanti sono gli scorci paesaggistici e la vita agreste della antica civiltà rurale – risulta un messaggio ad amare le tante colorazioni della vita, una realtà lungi dall’essere monotona e grigia, ma essenzialmente pregnante di significati e misteri da visitare e scoprire. Un’altra caratteristica singolare che ho intravisto è la presenza di pochi elementi negli ambienti ritratti – sia essi costitutivi del paesaggio naturale o antropizzato – o addirittura non popolati da alcun soggetto umano: tutto ciò mi fa pensare alla nostalgia della pittrice verso un mondo semplice, lontano dalle complicazioni dell’attuale civilizzazione, dove a dominare era la natura che l’uomo rispettava come fonte di vita e con cui aveva un rapporto armonioso, sereno, idillico, idealizzato: nei suoi quadri non troviamo infatti scene del duro lavoro dei campi o di qualsivoglia incrinatura alle sue ricostruzioni poetiche e favolose.

Esempi di tutto ciò s’incontrano nel dipinto del ruscello a fianco di una casetta fiorita; nel promontorio sul mare che fa da sfondo a una stradina con due donne in antichi costumi; nello scenario di una terra di sole con donna e bimba, alberi e case, che evocano arcaicità; nel ritratto delle amiche d’infanzia con vestiti dell’epoca, lampada, camino di un lontano passato; nella coppia che insieme cammina immersa nella natura; nella pace dell’anima del ritornante motivo del casolare agreste; nei ricordi d’infanzia sull’aia rurale; nella barca sul fiume e nella casetta sul lago, di sapore manzoniano; nell’ennesima casetta tra i campi e i larici arrossati; nel mare dorato al tramonto con barche a vela cullate dalle onde … Quest’ultimo dipinto appare sfocato, come altri del resto, dal momento che la pittrice ama attingere ad una tecnica impressionistica, ma con spazi di libertà personale, come nel ‘ciclo’ delle raffigurazioni stagionali, in cui riesco a cogliere un desiderio di universalità, poiché le scelte paesistiche non sono strettamente legate ad una geografia locale – ad esempio non sono limitate alla monotematica degli ambienti siciliani d’origine – ma possono appartenere a diversi scenari naturali del nostro pianeta. Tra queste ultime opere mi hanno colpito particolarmente per la loro suggestione e capacità evocativa verso le corde emotive: Paesaggio primaverile (la tenerezza dei tocchi di bianco e di rosa); Paesaggio ventoso (la forza della natura); Paesaggio invernale (fascino di una nevicata nel villaggio); Paesaggio innevato (soffice solitudine nella magia della neve); Lungo inverno (esiguità di case e persone, in contrasto con i quadri fiamminghi popolatissimi); Autunno colorato (tinte fiammeggianti e vivacità del contesto). Ha ragione Michele Miano quando scrive: “... le inquietudini del Novecento hanno contribuito non poco a creare nell’animo dell’artista una sorta di ‘cantuccio’ da un mondo in fiamme per rifugiarsi in un mondo lirico”. E aggiungerei: senza alcuna acredine, ma con eleganza e raffinatezza interiori.

Enzo Concardi

   

Iginia Mignosi, Opere scelte, testi critici di M. Miano e N. Pardini, Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 60, isbn 978-88-31497-60-2, mianoposta@gmail.com.

 

DAL TESTO:







FRANCO CAMPEGIANI LEGGE: "Y A TI RESPONDO" DI CARLA BARONI E PASQUALE BALESTRIERE


Y A TI RESPONDO

Arte e Vita a confronto nei "Canti (quasi) amebei" di Carla Baroni e Pasquale Balestriere

Benilde Editrice ha recentemente dato alle stampe, in versione bilingue (italiano-spagnolo), una singolare tenzone poetica, i cui autori rispondono ai nomi di Carla Baroni e Pasquale Balestriere, notissimi cesellatori del verso, universalmente apprezzati, nonché voci eminentissime di questo blog letterario. "E a te rispondo", "Y a ti respondo", è il titolo del prezioso elaborato, che porta un sottotitolo intrigante: Canti (quasi) amebei, Cantos (casi) amebeos, con riferimento allo scambio di battute tra vari personaggi, tipico dell'antico genere pastorale, sviluppato nella tradizione occitanica con la cosiddetta tenzone a battute alterne e polemiche, non di rado velenose e generalmente a soggetto amoroso, ma anche politico o letterario, con tesi contrastanti, senza perdere di vista l'interesse comune.

In elegante veste grafica, il testo riproduce in copertina un'opera di Adriana Assini, dove appare il profilo puntuto e piccato di una severa madonna medioevale che si direbbe impegnata in un canto a dispetto di umori popolari. In realtà lo scritto in questione, calato in un quadro squisitamente contemporaneo e tutt'altro che popolaresco, rivela tratti dottissimi di natura filosofica, la cui forma dialogica si presenta fin da subito in aperto dissidio con il generale monismo della cultura attuale, vuoi nei suoi aspetti massificanti e conformisti, vuoi in quelli intimisti ed autoreferenziali, tra di loro collegati. Lo sfondo autobiografico non tragga dunque in inganno. Questa poesia del dialogo, squisitamente relazionale, nulla ha a che fare con il ripiegamento dell'io su se stesso.

Come scrive Mercedes Arriaga Florez in prefazione, "il movimento dialogico di avvicinamento tra i due poeti segna anche le andate e i ritorni dal privato al pubblico, dalla casa ai campi, dalla solitudine intima al caldo abbraccio della famiglia o degli amici, dal mondo all'io che lo contempla in presenza di un tu con cui condividere l'utopia della bellezza irrinunciabile". L'esito della tenzone pertanto è pluralistico, composito, con un'unità armonica di fondo ottenuta attraverso il confronto polifonico e corale. Nell'orizzonte colloquiale, la diversità di vedute tra i contendenti è finalizzata alla comprensione reciproca in un orizzonte di dimensioni umanissime, di incontri che nulla hanno a che fare con lo scontro dialettico e con le prevaricazioni del pensiero univoco.

Tema centrale del dibattito è quello che, in senso lato, potremmo definire della finitudine, ovvero della perdita e della sottrazione, della sconfitta che in un modo o nell'altro affligge il genere umano. Dice Pasquale: "Nell'umana / natura è sempre il vuoto / che cerca il pieno per brama ancestrale", per cui, di fronte ai limiti e alle manchevolezze, egli oppone ardori battaglieri mai domi, sfide che invece a Carla appaiono come sadiche, seppure indispensabili e confortevoli illusioni. Al primo che dice: "se anche i capelli si fanno di neve, / se rughe in crocchio sul viso s'accampano / in tasca abbiamo semi e forza e ardore / per l'attesa fidente dei germogli", l'altra risponde: "si, l'esistenza mia fu proprio questo / imbroglio colossale di promesse / mai mantenute cui neanche credevo / bambino che sa già che la Befana / serve per far giocare i genitori".

Ribatte Pasquale che se le spinte ideali diventano illusioni, la responsabilità è "della miseria umana e culturale / che tiene il nostro secolo. Vi annegano gli spiriti sensibili / o a malapena vivono". "E tuttavia / quel che dobbiamo, e possiamo, faremo. / E già ci attende un nuovo e pieno giorno / di fatica e d'amore". Carla, al contrario, non nutre speranze, non si concede ottimismi né si affida a fede alcuna. Piuttosto urla e grida e cerca "il perché di quelle differenze che qualcheduno ci largì dall'alto". E' disperata, ma non cede alla disperazione, perché le "rimane il canto, il gorgheggiare / dell'anima scontenta / di chi, malgrado tutto, percepisce / di essere parte di un disegno grande". Il mistero (della Croce, ndr) c'è e va vissuto fino in fondo, non eluso con menzogne consolanti, senza nulla togliere all'amabilità (letteraria appunto) delle favole e delle dolci seduzioni.

La poesia, dice Carla, è "il riscatto, il compenso, il solo dono / che mi fu dato all'alba del mio giorno". Un lenimento illusorio anche questo, ribatte Pasquale, per il quale la vera risposta non sta nell'oblio momentaneo del dolore, ma nella sapienza di accettarlo alla propria mensa facendone occasione di crescita morale. Egli non cerca facili orpelli e, perennemente insoddisfatto, accetta combattivamente la vita, dedicandosi concretamente (ma ancor più in senso metaforico) alla cura della terra, dei campi, delle viti e dei vini. Per lui, di antico stampo contadino, l'ispirazione poetica nasce dalla vita, dalla lotta quotidiana per l'esistenza, mentre per lei vale l'ideale dell'arte per l'arte, giacché il quotidiano è radicalmente insoddisfacente e non esiste alcuna gratificazione o conquista spirituale.

Il mondo attuale, lei dice, "non crede più in un Dio liberatore / da tutti i mali, il Paradiso è in terra / alle Maldive, alle Seychelles o in qualche / viaggio costoso, sempre più costoso. / Il dopo è l'ultima frontiera di coloro / che niente hanno mai avuto in questo mondo". E nondimeno, poco dopo, dichiara: "tutto è fittizio in questo mondo / miraggio ed illusione mai certezza / a dare pace al nostro guerreggiare". Lei spera che "un giorno / pioverà pace e bene da ogni stella, ma invertire la rotta è impossibile fin quando non cambieranno "le leggi dell'uomo, l'apparire / possedere di più, per dimostrare / che si è in alto, che adesso ci si trova / nel posto superiore della scala. / E son leggi bastarde, ogni animale / combatte per quel poco che utilizza / al futuro non pensa, non si appropria / di una vita per gioco o per potere".

Carla invita dunque l'amico a rinunciare ai sogni titanici, al vitalismo con cui rischia di sciupare il vero grande dono che possiede, quello della scrittura. Ma lui, professore ed uomo colto che vive con la semplicità del contadino, non coltiva sogni titanici, né fantasie di strapotere e vizi da milionario. Il suo vero sogno sta nel guadagnarsi il pane onestamente, con il sudore della fronte, consapevole che la terra non è un luogo per crassi crapuloni, tra l'altro falsamente epicurei. Il Paradiso è qui, prima che altrove. Sosta sulla terra, per chiunque riesca a vivere nell'hic et nunc senza ingordigia, contentandosi del proprio stato. Il  carpe diem sta qui, nel rifiuto del superfluo, nella capacità di vivere con ciò che è necessario, da uomini senz'altro, ma esattamente come gli animali.

I due cantori, raffinatissimi artigiani di un verso limpido, ligio alla metrica e ricco di effetti musicali, danno vita a questa intrigante riflessione poetica, battendo su tastiere diversissime ed antitetiche, ma convergenti infine su questa visione del mondo limpida, elementare. Per Carla tutto ciò è un sogno magnifico, ma irrealizzabile, data la corrotta natura umana. Per Pasquale invece i sogni non esistono, e le speranze neppure, ma esiste l'impegno concreto e diretto degli uomini nella custodia, anziché nella distruzione del Giardino. All'inquietudine costruttiva di Pasquale, Carla oppone la propria insoddisfazione radicale. In conclusione, un'opera edificante, dove i due contendenti concorrono, chi nel positivo e chi nel negativo, all'affermazione di un equilibrio che è l'unica vera saggezza possibile per l'essere umano.

Franco Campegiani

 

 

 

domenica 26 settembre 2021

CINZIA BALDAZZI: "PREMIO ALLA CARRIERA"

Cinzia Baldazzi,
collaboratrice di Lèucade

 Invio il link al mio blog, dove ho pubblicato il testo dell'intervento che ho letto il 24 settembre nel corso del Premio alla Carriera che mi è stato assegnato dal gruppo Segnalazioni Letterarie.

Il prof. Alberto Raffaelli, fondatore e anima del gruppo, illustrando le tappe salienti del mio curriculum, ha voluto sottolineare la mia partecipazione come collaboratrice al tuo blog "Alla volta di Lèucade", citandolo come uno dei più prestigiosi nel panorama italiano. E io ne sono stata molto onorata.

Un caro saluto.

Cinzia


http://lamemoriadiadriano.blogspot.com/2021/09/cinzia-baldazzi-premio-alla-carrierada.html

 

MARCO DEI FARRARI: "CECILIA"

Marco dei Ferrari,
collaboratore di Lèucade

 


CECILIA

sfilano affollandosi stupite

timidi ricami su calme d'acque

Cecilia chioma ricciola s'affila

stregate pupille di sinfonìe celesti

sul molo d'incanto s'aggira

sostano... sguizzano...

bozzano trame... anatrelle smarrite...

organza bianca circondo rosso

spacco nero tre quarti s'impenna...

labbra in sorriso coronano viso

fanciulla curiosa di donna ingegnosa

ardente intrigo d'ironie sofferte

corpo s'infiamma diffida

Natura s'affida ansioso d'amore

ardito nel cuore cerca... strugge... ricerca...

s'intorce sussurro in rapide orme

capriccio concede d'assenso imbroncio

gattini... anatrelle... rospetti...

danzando s'involge

luce brillando su sandali oro

veloce arcano celato appare

un dove incompiuto... scompare...

Marco dei Ferrari