giovedì 11 agosto 2011

Prefazione alla Silloge Un cesto di more e di fiori di Fulvia Marconi


Prefazione
a
Un cesto di more e di fiori
di
Fulvia Marconi


Un cesto di paglia intrecciata,

farcito di more e di fiori,

compagno di gaie escursioni

nel tempo del gusto alla vita.



La prima cosa che ci colpisce nella silloge di Fulvia Marconi è la grande esperienza metrica, la grande maestria nel trattare il verso, nel suo variegato mondo di suoni e colori, nella sua ampia ragnatela di intarsi e legami. Ed è il sapiente uso del significante metrico combinato con le note del pentagramma dell’anima, a dare forza e linearità all’opera. Dalla serie di tripli trisillabi in novenari a ritmare la calda intensità memoriale dell’autrice [“Cascine dai muri sconnessi / e l’erba spaccava le pietre, / i piccoli piedi giocosi / nascosti da zoccoli grandi.” (Un cesto di more e di fiori)]; alla serie di tripli quaternari a sollecitare una cadenza/involucro di un’immagine “che mi avvolge, non si arrende, non mi lascia…”  [“Un pensiero si conficca nel silenzio, / un pensiero dal colore dei suoi occhi…”(Un pensiero dal colore dei suoi occhi); dall’uso di versi ipermetrici a dare sfogo a un subbuglio interiore che, per delinearsi nella sua immediatezza, ha bisogno di spazi poetici maggiori e di tecniche verbali che vadano oltre l’umano intrecciarsi del verbo; all’impiego di un endecasillabo, frutto di una malizia tecnica, che lo sa adattare, nelle sue combinazioni, al variare dei giochi sentimentali. Endecasillabi che come vere cascate musicali, quasi attacchi di romanze pucciniane, ci coinvolgono con la loro fluidità, con il loro apporto lirico. Endecasillabi nella loro varietà strutturale, nella loro complessità versificatoria, a costituire un valore aggiunto nel contesto dell’opera. Poi, a completare il panorama stlistico, l’uso di un sonetto perfettamente costruito sui parametri della tradizione letteraria; e l’uso di pièces composte di settenari a raffigurare, con note di spontaneità creativa, immagini di una vita perduta filtrate da un soffuso sottofondo di malinconia: “Veglia quel cielo stanco / il colle mesto e il poggio, / dove illusione è vita / dove la vita … illude!” (Dove la vita illude). Ma gli impieghi tecnico-fonici, gli accorgimenti figurativi finalizzati ad una musicalità che la fa da padrona in questo dipanarsi di canti, il giusto e convincente uso di implicit ed explicit a racchiudere le emozioni, non sono mai a sé stanti, ma impiegati per una simbiotica fusione tra dire e sentire; a fasciare un’anima tutta volta a dire di sé, ad un “aveu” portato a dilatarsi, se questi stilemi non costituissero un argine assai robusto per frenarne l’esondazione. E la parola fa parte di questi giochi espansivi: si articola, si adatta, si trasforma, si dilata per carpire il senso della vita; per andare dietro a un’emozione che, fra memoriale e assorbimento del reale, sembra pretendere sempre di più dalla parola stessa. D’altronde, come il poeta sa, non esiste verbo sufficiente a coprire le scansioni del sentire. Ed è proprio il memoriale a compattare la silloge, a creare quel leit motiv che ne garantisce l’organicità. Quel memoriale che l’autrice ritesse in filigrana, fa suo, rinvigorisce e riporta in vita, traducendolo in alcova dove trovare riposo, o dove trovare lo sconforto di un’assenza; ma dove i grandi sentimenti come le più piccole cose si fanno nutrimento di alta poesia, ; “Respiro ancora fresco il tuo profumo, / che m’accendeva di vigore il petto.” (Il sole si rifugia ad occidente); “Si condensa nel silenzio il suo ricordo, / la memoria poi mi assilla e mi tortura, / e cancello sopra me quel cielo perso / confidando il mio sconforto a “questo verso””. (Un pensiero dal colore dei suoi occhi). I grandi sentimenti, sì, le piccole cose, anche, ma sono soprattutto la coscienza degli ambiti mortali, degli spazi ristretti di un “soggiorno”, la voglia di andare oltre, o il motivo del ritorno a completare la circolarità dell’opera: “Ma forse, fra le nuvole impazzite, / diamanti e stelle brilleranno ancora / e al soffio di sbandate brezze estive, / forse confusa … riuscirò a volare”. (Riuscirò a volare) “L’esistenza è quell’attimo solo / che imprigiona la vita a promesse; / piedi scalzi e speranze al calare / … sul sentiero odoroso di mare”. (Un sentiero odoroso di mare). Ed è forse proprio il mare a simboleggiare quel desiderio di libertà che ognuno di noi cova in seno, e che mai trova appagato. E quel cesto di more e di fiori, la mia sera, le fronde che impigliano un canto, la casa, i ciliegi, la luna, il profumo del mare sono tanti momenti esistenziali, tanti ambiti sentimentali, sono tante configurazioni di uno spleen intento a dare corpo ai propri messaggi interiori. E la natura sembra avvolgere tutto, rappresentata, a pennellate, da una mano che fa del panismo esistenziale il fulcro del suo dire. I tramonti, il vento, la fragranza di un giorno d’estate, l’antica siepe, la neve “troppo” bianca rimarcano il grande amore che la poetessa prova per quella natura, che puntualmente la ripaga, diventando complice del giuoco della sua poesia.              
            Le assonanze, le rime, gli enjambements, l’uso di figure retoriche quali l’anafora (“Un pensiero si conficca nel silenzio / un pensiero …”), l’anadiplosi (“E mi perdo e mi dissolvo come l’onda / … come l’onda cerco e anelo una battigia, …”), concorrono a dare forza alla liricità del canto.
            Se Quasimodo ha scritto: "Ognuno sta solo / sul cuore della terra"; se Montale ha affermato: vivere è come "seguire una muraglia /che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia"; e se Ungaretti ha definito se stesso "uomo di pena" , anche nella Nostra sembra vincere, alfine, un senso di stanchezza e accettazione fatale (“mi poso ormai stanca ed accetto la sorte”).   Ma mi piace cogliere nella sua poesia un raggio di sole che incide le nubi: credere ancora nel canto e nella vita. E Fulvia Marconi crede nel potere della poesia fino ad assegnarle il compito non solo di cantare l’amore, ma anche quello di amare il canto. Anche se:

La vita è solo un fremito celato

in quell’abbaglio che è la giovinezza,

tanto rimpianto come spore erranti

e il resto … è solo il perdersi nel tempo.



Nazario Pardini

Arena Metato 11/07/2011






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